In coincidenza del varo del
governo Di Maio-Salvini, quando ancora il Premier Giuseppe Conte era a
colloquio col Presidente della Repubblica, ci è arrivata la frustata in pieno
viso del Presidente della Commissione Europea Juncker. Secondo Juncker dovremmo
essere noi italiani ad occuparci dei problemi del nostro Sud, dovremmo lavorare
di più, non essere corrotti e non dovremmo scaricare sull’Unione Europea le
colpe delle nostre inefficienze. Mai sentita una cosa simile. Al confronto il
sorrisetto complice della Merkel con Sarkozy nei confronti di Berlusconi di
qualche anno fa fu un simpatico siparietto.
Ecco: il governo del cambiamento
annunciato dai Grillini ha preso il via e come viatico c’è questa bruciante
offesa nei nostri confronti da parte della massima autorità europea.
Taiani ha immediatamente chiesto
a Juncker di smentire perché se fossero veramente state dette quelle parole
sarebbero inaccettabili.
In politica le cose vanno così:
uno dice quello che gli passa per la mente, poi smentisce e tutto riprende come
prima. E così è stato. Juncker non ha smentito ma ha detto che le sue frasi
sono state decontestualizzate e fatte apparire come ostili e offensive degli
italiani quando erano soltanto paternalistiche e propositive.
Soddisfatti? Per il politicamente
corretto, diciamo di sì. Che si può pretendere altro?
Ma, a parte l’imprevisto
junckeriano, c’è che questo neonato governo, annunciato come l’inizio della
terza Repubblica, come il governo del cambiamento, come il governo degli
italiani e come tante altre cose, nella realtà è stato il governo che ha aperto
una gravissima crisi istituzionale e un altrettanto gravissimo contenzioso con
l’Europa. Dopo le parole del Commissario europeo Hoettiger, quelle di Juncker;
e non siamo che agli inizi!
Mattarella ha fatto sapere che
lui è contento per cinque motivi: primo, perché finalmente l’Italia ha un
governo; secondo, perché è stata rispettata la volontà dell’elettorato; terzo,
perché nel suo programma e nella sua composizione rispetta gli interessi
nazionali e osserva buoni rapporti con l’Europa; quarto, perché sono state
ribadite le prerogative del Capo dello Stato nella formazione del governo;
quinto, perché ha pacificato il Paese in vista della Festa della Repubblica del
2 giugno.
Con tutto il rispetto non ci
sentiamo d’accordo su nessuno di questi punti e soprattutto sull’ultimo, quello
della pacificazione nazionale.
Se la pacificazione è una
“parata”, un “rituale” e basta, allora si può anche dire: evviva, siamo in
pace. E guardiamo tutti in alto mentre passano le Frecce Tricolori. Ma se la
pacificazione è da intendersi reale, politica, no non siamo per niente in pace.
E non lo siamo non perché non vogliamo – forse ci converrebbe – ma perché
effettivamente non lo siamo. Dire una cosa per un’altra non è nostra abitudine.
Troppi vulnus sono stati inflitti
alla Costituzione; troppa maleducazione e ignoranza sono state diffuse a piene
bocche; troppa arroganza e prepotenza…troppa propaganda e soprattutto troppo
potere dato ad una parte politica per un risultato elettorale che, ricordava
Sabino Cassese a “Piazza pulita” del 31 maggio, è modesto e inferiore, in
termini di voti, al 50 % dei votanti. Il che vuol dire che c’è in Italia un
altro 50 % che si sente eccessivamente penalizzato dalla soluzione di questo
governo. Più giusto sarebbe stato il ritorno al voto con un governo tecnico.
In questi tre mesi di trattative
per formare il governo le procedure, le istituzioni e chi le rappresenta sono
state prese a calci come da ragazzini si faceva per strada con le palle di
pezza. Se quanto è accaduto col “contratto”, con i “diktat”, con i “programmi
segreti”, con le assurde prese di distanza di forze della stessa coalizione
fino a ritrovarsi una parte al governo e l’altra all’opposizione, con ministri
raccattati in giro di qua e di là, buoni forse per essere assessori in qualche
comune poco al di sopra di cinquemila abitanti, con le bugie sui ministri
eletti dal popolo e via dicendo, allora, no, non siamo né d’accordo né in pace.
Ben sette dei diciannove ministri
più il Presidente del Consiglio non sono stati eletti dal popolo, da quel
popolo che secondo Salvini e Di Maio è sovrano. La verità è che il M5S non ha
una classe dirigente all’altezza del compito e ha dovuto ripiegare su soggetti
che vengono dall’odiato establishment. Tolti i ministri professori, non
politici, gli altri sono raccogliticci e improvvisati. Come improvvisati sono
alcuni ministeri, come quello per il Sud, vera patacca per tacitare i pupi, e
quello per la famiglia e i disabili, pura propaganda.
Una riflessione a parte merita
quel “grand’uomo” di Paolo Savona, che per tre mesi si è fatto
strumentalizzare, divenendo oggetto di spinte e controspinte, scoppole e
sgambetti, come un cachiello qualsiasi, fino ad accontentarsi di un ministero
senza portafoglio, quasi fosse un principiante, un esordiente. Un vecchio
saggio, quale dovrebbe essere uno di più di ottant’anni, con la fama di grande
economista, si dovrebbe comportare diversamente. Se uno come lui sbava per una
poltrona di ministro qualsiasi, che dovrebbero fare le caterve di
neoparlamentari di fronte al rischio di essere mandati a casa senza ancora
insediarsi sulle loro odiatissime poltrone?
Questo governo è figlio della
rivolta dei tanti deputati e senatori di prima elezione che di tornarsene a
casa non ne hanno voluto sapere. Molti di essi non hanno né arte né parte.
Questo va loro riconosciuto: il M5S è stata la manna calata dal cielo. E va
bene pure che tutto è prodotto dai vaffanculo di Grillo. Ma, per parafrasare il
memento mori biblico, rifletti
grillino: culus es et in culum reverteris.
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