mercoledì 28 agosto 2019

Un governo di perdenti e di nemici




Il governo Pd-5Stelle, che si è voluto frettolosamente mettere in piedi pur di evitare lo scioglimento delle Camere, è composto da due partiti perdenti e tra di loro acerrimi nemici, che ha l’atto di concepimento da un’accoppiata formidabile di circostanze assolutamente imprevedibili: la minchiata di Salvini di staccare la spina al governo Conte e la furbata di Matteo Renzi di cambiare parere sull’accordo del Pd coi Cinquestelle. Salvini è rimasto intronato dagli effetti dell’improvvida sua stessa sortita, non sa più quello che dice e farfuglia. Renzi invece sa: ho cambiato parere sull’accordo coi Cinquestelle per il bene del Paese impedendo la deriva Salvini nel caso di elezioni anticipate. Legittima motivazione che non esclude, però, l’altra, assai più vera e personale; ha cambiato parere perché le elezioni gli avrebbero fatto perdere il controllo dei gruppi parlamentari del Pd, ora a lui per la gran parte riconoscenti e devoti. Se ci fossero state le elezioni anticipate, questa volta le liste le avrebbe fatte Zingaretti, magari con lo stesso criterio di Renzi; e Renzi sarebbe rimasto fottuto.
Se questo era il governo stabile e di prospettiva, chiesto dal Presidente Mattarella, allora è possibile pure vedere il sole a mezzanotte. Mai in Italia si è visto un accordo così “innaturale”, ma è pur vero che in Italia quando si grida al lupo fascista “si scopron le tombe e si levano i morti”. Onestamente il lupo fascista, inventato dai Dem, ha trovato proprio in Salvini il suo più forte accreditore. Ubriacato da risultati elettorali esaltanti (Europee) e da sondaggi più che promettenti (37%), Salvini è giunto a dire, come un fesso, “voglio i pieni poteri” e si è comportato come quei monarchi orientali di una volta, i quali si concedevano tutto fra bagordi e stordimenti vari. Magari voleva dire una cosa assai più limitata, circoscritta alla sicurezza, dato che spesso per fermare le navi piene di emigranti, entrava in conflitto col ministro dei trasporti Toninelli e con la ministra della difesa Trenta; ma, qualunque cosa avesse voluto dire, l’espressione, oltre che di per sé infelice, si è prestata all’insurrezione generale contro il pericolo fascista, vero o falso che fosse. Lo sdegno nei suoi confronti è aumentato in Italia e in Europa.
Probabile che l’insofferenza contro Salvini e la decisione di mettere in moto qualcosa che lo ridimensionasse o lo mettesse fuori causa abbia avuto inizio proprio di lì, dalla sua incontinenza, di parole e di comportamenti. E’ stato un errore di valutazione il suo pensare che le istituzioni e chi le rappresenta ad ogni livello siano degli appendirobe. Invece hanno un cervello e un cuore e il dovere di intervenire. E’ legittimo perciò pensare che la decisione di buttare giù il governo Conte sia stata in qualche modo indotta.
Negli ultimi mesi Conte era in stretto rapporto col Quirinale, spesso andava a riferire e ovviamente a sentire. Il suo appoggio a Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione Europea, fuori dallo spirito del governo gialloverde, molto probabilmente gli è stato suggerito. Si consideri che l’unico punto di contatto fra i due partiti del governo era il comune sentire antieuropeistico. Eluderlo non poteva essere che una provocazione. Lo stesso Salvini, resosi conto di aver agito precipitosamente, non valutando le insidie che potevano esserci, dopo aver tentato ripetutamente di riallacciare i rapporti coi Cinquestelle, ha sempre più insistito sul ribaltone, che a suo dire era preparato da tempo. E se era preparato da tempo, perché lui non se n’è accorto e non si è preoccupato di vedere da dove e da chi partiva? La verità è che in situazioni del genere si ragiona inevitabilmente su sospetti e supposizioni, cercando tuttavia di ancorarli ad una logica. Salvini non poteva sapere dell’agguato che lui stesso si stava tendendo con le sue mani; ma è pur vero che questo agguato c’era.
Il paese ha dimostrato sempre più insofferenza per il leader della Lega. Lo hanno aspettato dovunque per contestarlo in maniera sempre crescente e pericolosa. Le sue visite alle spiagge del sud, in Campania, in Calabria, in Puglia e in Sicilia si sono trasformate in sollevazioni popolari, con striscioni ai balconi e contestazioni anche violente in piazza.
Se perciò c’è stata una presa di coscienza seguita da alcune iniziative per dire basta a Salvini è del tutto legittima, direi obbligata. Che poi le iniziative per bloccarlo siano passate da comportamenti discutibili dimostra solo che la politica non è tutta quella che si vede e che si sente. C’è un’altra politica, altrettanto forte ed efficace che non si vede e non si sente, ma agisce come quei corsi d’acqua sotterranei che erodono fino ad erompere.
Questo governo, che vede il ritorno del centrosinistra, mentre il Paese si è espresso nelle ultime consultazioni europee e amministrative sempre più decisamente a destra, non ha radici nel Paese; è un governo che non risponde alle aspettative dell’Italia che lavora e che produce. Poi, evidentemente, c’è il popolo, che avrebbe diritto di dire la sua in condizioni di tranquillità e di fiducia nelle istituzioni. Impedirglielo con ragioni o sotterfugi non è un bel fare per la democrazia. Dopo la caduta del governo, sia pure per ciò che è sembrato un capriccio di Salvini, era del tutto scontato che si dovesse andare ad elezioni anticipate. Il rispetto della Costituzione doveva essere solo una presa d’atto formale, essendo evidente che in Parlamento non c’erano le condizioni per trovare una nuova maggioranza politica. E se tanto lo possono smentire i numeri di una maggioranza parlamentare che poi si è trovata, di certo non lo può smentire l’imbroglio di un governicchio solo per impedire che il popolo votasse. 

lunedì 26 agosto 2019

I forni non portano fortuna ai Cinquestelle




La situazione dei Cinquestelle nella circostanza della crisi di governo e della sua eventuale soluzione è apparentemente privilegiata rispetto a quella di altri in quanto ha due possibilità, o accordarsi col Pd o riaccordarsi con la Lega. E’ la politica dei due forni, come si dice con una metafora collaudata fin dalla prima repubblica. Appare tuttavia fatalmente rovinosa. I Cinquestelle, già abbastanza cotti nel precedente forno leghista, potrebbero finire di cuocersi nel forno dem. Fuor di metafora, il M5s ha perso molto della sua carica primigenia, per intenderci dei tempi in cui  umiliava Bersani in streaming, e le sue prospettive oggi sono tali che non può scegliere il bene maggiore ma casomai il male minore. E questo non sta né nell’uno né nell’altro forno, ma lontano dai forni, ovvero nell’affrontare le elezioni subito. Vedrebbe diminuire i suoi voti e i suoi seggi in parlamento, ma potrebbe recuperare una parte di credibilità persa e ricominciare su alcuni punti particolarmente identitari, se così si può dire per un movimento che si è caratterizzato proprio per la sua mancanza di identità. Potrebbe dire al suo elettorato: in quindici mesi abbiamo fatto delle cose buone e degli errori; ridateci la fiducia per dimostrare di saper continuare a fare cose buone e di aver imparato ad evitare gli errori.
L’accordo col Pd nel segno della discontinuità, formula dem, con cambio di premier e abolizione di alcuni provvedimenti in tema di immigrazione e sicurezza, sarebbe per i Cinquestelle come un’ammissione di colpevolezza e di incapacità, confligge con la loro formula, che è di sostanziale continuità. E’ in questo dilemma continuità-discontinuità che si consuma il tentativo di accordo fra il più scafato dei partiti italiani e il più atipico movimento populista.
Perché i Cinquestelle non continuino ad essere colpevoli ed incapaci i Dem propongono loro un governo assieme. Si sa che i Dem si ritengono gli unici “unti” dal signore: loro, i capaci, gli onesti, i puri, sani per sé e curativi per gli altri.
Per i Cinquestelle non dovrebbe essere difficile veder chiaro. Non è passato un secolo, ma appena dieci anni, da quando essi sono nati e si sono affermati proprio contro quelli coi quali oggi potrebbero fare un governo. Se i Dem sono l’acquasanta, il M5s è il diavolo, o viceversa.
Peraltro i Dem non sono cambiati, sono gli stessi di sempre, con un pizzico di spocchia in più in presenza del fallimento del governo degli altri, di quelli che avrebbero dovuto realizzare il cambiamento. Se i Cinquestelle dovessero fare il governo coi loro più ostinati avversari, coi loro nemici storici, finirebbero per suicidarsi, arriverebbero alle prossime elezioni ai minimi termini. La levata di scudi di alcuni loro rappresentanti, Di Battista e Paragone, interessi personali a parte, che pure ci sono, che si oppongono a qualsiasi intesa coi Dem, dimostra come nel Movimento si coltiva ancora l’ambizione della diversità e l’aspirazione a cambiare il paese. Come cambiarlo il paese con chi ha contribuito a renderlo così com’è? Al limite si potrebbe solo risolvere qualche piccolo problema di normale amministrazione. La base, inoltre, si è scatenata contro simile prospettiva.
L’alternativa, tuttavia, non lascia tranquilli. Il riaccordo con la Lega, proposto da una parte dei Cinquestelle, dopo il tornado estivo di Salvini, suscita non poche perplessità. Tutti i no detti dai Cinquestelle diventerebbero dei sì? O la Lega ritirerebbe tutte le sue proposte non condivise? I problemi che c’erano prima della caduta del governo molto probabilmente resterebbero anche dopo. Forse Salvini diventerebbe più prudente e riflessivo e Di Maio starebbe più attento e guardingo. Ma in buona sostanza il nuovo governo gialloverde sarebbe copia conforme al precedente, con qualche ministro sostituito. Ci sarebbe, inoltre, l’ostacolo Conte, che, data la sua avversione alla Lega, avrebbe qualche difficoltà a riproporsi alla guida. Nel suo discorso “catilinario” in Senato del 20 agosto, fra i tanti errori fatti, c’è quello madornale di rompere in maniera anche personale con Salvini e la Lega, dimostrando scarsa dimestichezza con le cose politiche. Mai essere ultimativi in politica.
L’opzione voto anticipato, che è poi la soluzione giusta per tutti, sarebbe per il M5s una via d’uscita importante. E’ vero che si vedrebbe ridimensionato, ma con un bagaglio notevole di esperienze acquisite ed una classe dirigente cresciuta e scaltrita. Ci sarebbe un ricompattamento ed una ripartenza su una base comune ritrovata.
E’ inutile nascondere la confusione che regna oggi nel Movimento coi diversi leader che si dividono su tutto, perfino sull’opportunità di contarsi sulla piattaforma Rousseau per decidere se fare o non fare l’accordo col Pd o se lasciare Conte alla guida di un eventuale nuovo governo.
E’ realistico constatare che dopo l’esperienza governativa il M5s è ridimensionato, non solo nel numero ma anche nella carica propositiva. Sa che non si può governare da soli e che con gli altri occorre fare non un contratto ma un patto politico per riconoscersi su un comune programma di legislatura. In difetto non sarebbe una tragedia, anzi, tornare all’opposizione potrebbe giovare. Ma con l’appreso come viatico! 

domenica 25 agosto 2019

E se la sinistra sconnessa tornasse al potere?




La politica, sebbene arte del possibile, dovrebbe partire sempre dalla realtà; e questa, piaccia o non piaccia, è sempre cosa fatta. Purtroppo in Italia c’è un’intera classe dirigente, quella di centrosinistra, ex democristiani di sinistra ed ex comunisti per lo più, che pretende di possedere una sua realtà da imporre al popolo nella presunzione che sia la migliore possibile e che il popolo sia, per definizione, incapace di pensare e di agire per il meglio. Peccato che in democrazia ci sia un passaggio fondamentale: la volontà del popolo, che si esprime con il voto o attraverso i sondaggi di opinione, diventati sempre più attendibili, che consentono di saggiare umori e tendenze dell’elettorato. Il popolo non dice direttamente questo lo voglio e questo no, ma individua quei politici che sanno interpretare la sua volontà e di essi si fida fino a prova contraria. Così ci sono partiti e uomini che alle elezioni vengono premiati e partiti e uomini che vengono penalizzati. Il discrimine sta nella connessione col popolo. I connessi avanzano, gli sconnessi retrocedono. Quale altra spiegazione dare alla crisi della sinistra in Italia?
La conseguenza della sconnessione sinistra-popolo ha determinato l’insorgere del grillismo, con variabili populiste e sovraniste. Movimenti anti establishment, anti casta e ostili alla politica intesa come “cosa loro”, sono sorti in Italia in questi ultimi vent’anni. Questi movimenti godono del favore del popolo e taluni loro provvedimenti legislativi ne interpretano la volontà in merito ad alcune problematiche, sicurezza in primis. La politica dei porti chiusi, i decreti sicurezza, che tanto hanno fatto e fanno inorridire il centrosinistra, sono espressione della volontà popolare. Il popolo lo vuole come nel medioevo alle crociate: Deo lo vult.
Invece, cosa accade? Stiamo assistendo in questi giorni di crisi di governo a incredibili insistenze. Il centrosinistra, penalizzato nelle ultime votazioni, proprio a causa della perduta connessione col popolo, piuttosto che cambiare registro, è tornato ad insistere su alcune politiche, in specifico sull’immigrazione e sulla sicurezza. Nei dibattiti televisivi e negli interventi sui giornali i suoi rappresentanti non fanno che parlare di una realtà che non esiste, senza mai nominare il popolo e i suoi bisogni, quando è di tutta evidenza che l’unica realtà esistente è quella che s’incentra nel popolo elettore. Quel che dicono è accademia, compresa la pretesa pedagogica della classe dirigente, secondo cui non i politici devono capire e seguire il popolo, ma il popolo deve capire e seguire i politici. Per cui se arrivano in continuazione migranti è giusto accoglierli per ragioni umanitarie, a prescindere da quanti sono e dalle conseguenze che ne deriveranno, di stravolgimento etnico, sociale, culturale, religioso, identitario del paese. Per cui se in casa ti entrano di notte dei ladri piuttosto che difenderti armi in pugno è più civile pregarli di avere pietà, di prendere quel che vogliono e di risparmiare i malcapitati.
Ora, il popolo italiano non è d’accordo con una simile politica di resa e lo ha dimostrato votando per la Lega di Salvini, consentendogli di raggiungere il doppio dei consensi nel giro di poco più di un anno di politiche per così dire populistiche. Vedi sondaggi e risultati alle Europee del 26 maggio.
Sbaglia il popolo ad attestarsi su posizioni salviniane? Mettiamo di sì per comodità di ragionamento o per convinzione. Ma che democrazia sarebbe quella che manifestamente mettesse il governo, nell’ipotesi di un ritorno del Pd, contro i desiderata del popolo, aprendo i porti e abolendo i decreti sicurezza? Perché il popolo dovrebbe capire una classe dirigente che a sua volta non vuol capire il popolo e anzi opera in totale dissenso? Il centrosinistra non lo ha sconfitto Salvini, lo ha sconfitto l’elettorato dando il voto a chi meglio è riuscito a sintonizzarsi con lui. I decreti sicurezza, che ora i Dem vorrebbero abolire, come una delle condizioni per fare un governo coi Cinquestelle, sono strumenti di difesa del popolo, non sono elargizioni di un folle, di un esagitato, di un fanatico baciamadonne.
Prima dell’avvento di Salvini, per i precedenti governi di centrosinistra, l’Italia nulla poteva fare per arginare i flussi migratori. Si diceva che purtroppo con tante migliaia di chilometri di coste che ha l’Italia doveva subire per condizione naturale. E mentre la Francia ci riportava indietro di notte gli immigrati, l’Austria minacciava di costruire muri al confine, la Spagna sparava addirittura contro gli immigrati, la Germania con tecniche, di cui solo lei è capace, li riportava indietro, noi italiani, solo noi, dovevamo subire. Poi è arrivato Salvini e sia pure con qualche forzatura ha dimostrato di poter fermare i flussi fino a ridurli di più del novanta per cento. Sarà un caso, ma da quando sono entrati in vigore i decreti sicurezza sono diminuite le rapine in casa e non c’è stato nessun far west, come il centrosinistra aveva paventato.
Si dirà: il popolo finisce sempre per subire la propaganda di chi è al governo. La destra lo spaventa per giustificare la politica della durezza; la sinistra rassicura e minimizza per giustificare il non intervento. Ma, al di là della propaganda, c’è la realtà innegabile, la sola che convince il popolo.
Ora, nel momento in cui, in seguito alla caduta del governo gialloverde, si prospetta il ritorno del centrosinistra al potere, che fanno i Dem? Tornano a predicare accoglienza e abolizione dei decreti sicurezza, in breve tornano ad una politica ampiamente condannata dal popolo. E quel che è più grave è che si vorrebbe impedire al popolo di tornare al voto e passare il governo a chi ha perso le elezioni e perciò è senza legittimazione popolare.

sabato 24 agosto 2019

Crisi governativa: nel bailamme delle finzioni




Sembra che il Presidente Mattarella abbia parlato a sordi. La sua raccomandazione di giovedì sera, 22 agosto, rivolta a tutti – e al Paese per conoscenza – al termine dei due giorni di consultazioni, di essere chiari e solleciti nei cinque giorni di proroga concessi, si è persa nelle nebbie delle finzioni e delle furbate dei protagonisti, chiamiamoli così, della crisi governativa. Il primo giorno è passato inutilmente, tra dichiarazioni e smentite, fakenew  e soprattutto messaggi obliqui.
L’incontro di venerdì, 23 agosto, tra Nicola Zingaretti, segretario Pd, e Luigi Di Maio, capo dei Cinquestelle, si è concluso con un nulla di fatto. Anzi, peggio, perché i due interlocutori hanno messo delle condizioni non per accordarsi ma per precludere qualsiasi accordo.
Zingaretti ha proposto discontinuità rispetto al dimesso governo gialloverde, e Di Maio, anche su suggerimento di Beppe Grillo, ha risposto o con Giuseppe Conte a Palazzo Chigi o niente. Zingaretti non ha risposto niente, ma qualcosa che gli somiglia per perdere tempo.
Ma pare modo di incontrarsi per raggiungere una via d’uscita dalla crisi? La verità è che né l’uno né l’altro intendono veramente accordarsi, perché sanno di essere non a capo di partiti coesi ma di bande che tirano ognuna dalla propria parte.
Pd e Cinquestelle, dopo le Europee, sanno di essere due partiti sconfitti. Perché continuano ad usare la spocchia, l’uno (Pd) di una supposta superiorità culturale e l’altro (M5s) di una rivendicata purezza civile? Non dovrebbero abbassare le ali e volare terra terra, anzi stare coi piedi per terra?
Zingaretti, dopo aver preteso la chiusura di uno dei due forni dei Cinquestelle – niente fornicazioni segrete con la Lega – ha dovuto subire l’ennesimo attacco della sua opposizione interna, quella di Renzi, maestro anche a gettare il sasso e a nascondere la mano. La minaccia di scissione nel caso di fallimento delle trattative coi Cinquestelle, allo scopo di evitare il voto anticipato, in seguito alle condizioni inaccettabili che sarebbero state poste da Gentiloni, è stata una messinscena, altro che disobbedienza di un suo allievo a tener spento il cellulare a lezione. Se non voleva che quelle parole non si sapessero Renzi semplicemente non le avrebbe dette. E’ stato un messaggio che doveva giungere con efficacia a chi poi è giunto. Ed ha dimostrato che il Pd è lontanissimo dalla propagandata compattezza.
Da parte loro i Cinquestelle non sono meno disuniti. Il canto delle sirene della Lega di rifare insieme il governo gialloverde non è affatto da sottovalutare. Intanto il loro dissidio interno è aperto e solare. Di Battista e Paragone lo hanno detto apertamente: meglio con la Lega che col Pd; se no, meglio ancora il voto.
Massimo Franco sul “Corriere della Sera” di sabato, 24 agosto, ha detto una verità grande quanto Montecitorio e Palazzo Madama messi assieme: “La sensazione è che quasi nessuno riesca a andare oltre il tornaconto personale”.
Matteo Salvini si è reso conto del disastro che ha combinato ed ecco perché ripete che bisogna fare l’impossibile pur di evitare che il governo torni nelle mani del Pd, disposto perfino ad offrire Palazzo Chigi a Di Maio e lui a tenersi fuori dal governo. Una presa di coscienza la sua che in altri tempi, neppure lontanamente paragonabili ai nostri, quando si aveva il coraggio dei gesti estremi di fronte al fallimento, portava ad un dignitoso e virile suicidio. Bruto e Cassio non esitarono a farlo a Filippi. La Filippi di Salvini è una data: l’8 agosto, quando ha comunicato a Giuseppe Conte di voler mettere in crisi il governo.
Sul fronte del centrodestra si continua col mantra delle elezioni anticipate, che, a dire il vero, sembrerebbe la via più scontata. Senonché il centrodestra è ben lontano dall’essere un soggetto politico coeso. Anzi, oggi, lo è molto meno rispetto alle elezioni del 2018, quando Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia, non erano passati dal “tradimento” di Salvini, che finiva nel contratto coi Cinquestelle. 
Questa crisi è davvero bestiale nella sua intempestività e nella sua sconclusionatezza. Basti considerare che, a differenza di una normale crisi, che in genere è preceduta dai motivi, questa è seguita dai motivi, con cui i leghisti cercano di limitare gli effetti devastanti.  Non che tutto prima filasse alla perfezione o che già non si fosse parlato di mettere fine ad un governo che non riusciva più ad essere operativo, ma non si era verificato nulla di particolare che la giustificasse qui e ora. La situazione ingarbugliata che è seguita lo dimostra.
La fretta di concluderla quanto prima non giova alla sua soluzione. Che potranno dire di preciso e di positivo martedì, 27 agosto, gli stessi che Mattarella ha sentito cinque giorni prima in preda a confusione e a indeterminatezza?
Può essere che proprio questa mancanza di direzione alternativa al voto anticipato sia la migliore e più efficace per indurre Mattarella a sciogliere le Camere e a procedere a nuove elezioni. Salvo che anche Mattarella non sia preso da ripensamento e metta su un governo istituzionale per gli adempimenti più immediati.

venerdì 23 agosto 2019

Mattarella irritato dall'indeterminatezza dei politici




Lo si leggeva nel volto la sera del 22 agosto quando, al termine delle consultazioni, il Presidente della Repubblica Mattarella, comunicava le “conclusioni” dei due giorni di colloqui con le forze politiche. Era deluso dall’inconcludenza di quasi tutti gli ospiti della crisi, i quali si erano detti disposti a fare un governo o andare a nuove elezioni, che era come affermare una banalità assoluta. Che altro si può fare in una crisi? Soprattutto i Cinquestelle, che, come un anno e mezzo prima, dopo aver snocciolato una lunga sequela di cose che vorrebbero fare hanno concluso che chiunque le avesse condivise avrebbe potuto contattarli per fare un accordo di governo. Una sorta di annuncio commerciale: un AAA cercasi. Chi s’aspettava un’indicazione con chi preferibilmente quelle cose si potevano fare rimaneva deluso, se non proprio seccato. Proprio per questa indeterminatezza, per non chiamarla irresponsabile dilettantismo, Mattarella, dopo aver richiamato tutti al senso di responsabilità e ricordati i gravi adempimenti del Paese anche in esposizione internazionale di questa ultima parte di anno, ha concesso una proroga di altri cinque giorni. Appuntamento a martedì mattina 27 agosto.
Le opzioni in campo sono due: governo M5s-Pd o riedizione di un governo M5s-Lega. Mattarella ha escluso governi cosiddetti istituzionali. Altre ipotesi non se ne vedono.
La prima opzione è stata determinata dall’abile e fulminea azione di Matteo Renzi. Il quale, da sempre contro ogni intesa col M5s, ha colto subito l’occasione, pur di evitare elezioni anticipate, di considerare non solo come fattibile un simile governo ma indispensabile per non lasciare il Paese alla deriva salviniana, considerata la maxima iniuria. E’ in effetti l’azione di Renzi il colpo vero di questa crisi. Non fosse stato per questa insospettabile sua piroetta si sarebbe andati dritti dritti al voto anticipato. Naturalmente Renzi non è preoccupato solo della deriva salviniana ma anche di perdere il controllo sui gruppi parlamentari del suo partito, oggi nelle sue mani. La qual cosa accadrebbe con le liste approntate dalla segreteria Zingaretti, a lui ostile.
La seconda opzione, altrettanto insospettabile, è un governo-riedizione gialloverde. Ideatore, questa volta, è Matteo Salvini, che in risposta al blitz di Renzi, ha risposto con un contro blitz. Chi poteva immaginare che dopo aver provocato la rottura e la crisi fosse poi suggeritore e promotore della stessa formula di governo? Ma tant’è. Di fronte all’eventualità che si formasse un governo di sconfitti, M5s-Pd, con grave nocumento per lui come leader, per la sua Lega, per il suo Nord e per il Paese intero, Salvini ha fatto la contromossa.
Ma non meno indeterminata e contraddittoria è la posizione degli altri. Berlusconi parla di un centrodestra che non esiste. Esiste, e come!, fanno osservare i politici di Fi, basti vedere come opera negli enti locali. Ma un governo centrale non è la stessa cosa. Le divergenze fra Fi e FdI e Lega sono rimarcate da questi ultimi, che nelle loro ipotesi Fi non la tengono neppure in considerazione.Fi è una forza liberale, FdI e Lega due forze sovraniste. Fratelli d’Italia inoltre è per votazioni subito. La Lega, invece, si è detta disponibile a rifare il governo col M5s. E, allora, di quale centrodestra parliamo?
Fuori dagli addetti ai lavori, ovvero dei politici, gli osservatori sono ancor più confusi. Abbiamo ascoltato studiosi come Carlo Revelli e Michele Ainis (In Onda di giovedì, 22 agosto) affermare che in situazioni confuse non bisogna ricorrere al voto e che, senza dirlo esplicitamente, bisogna imporre una linea, che, se pure è formalmente costituzionale, quella di una maggioranza parlamentare numerica, politicamente non lo è perché in direzione opposta a quella che si teme il popolo elettore possa avere. E’ una tendenza fondamentalmente antidemocratica e nello specifico attuale di parte, in favore di chi fa di tutto per impedire che la Lega torni al governo, da sola o in compagnia. Il fatto che la Costituzione stabilisca il voto ogni cinque anni non significa che non si possa votare quando la situazione lo richiede. “Il Presidente della Repubblica – dice l’art. 88 – può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse”. E, se pure la politica è l’arte del possibile, e dunque del discutibile, non si può ignorare un preciso disposto della Costituzione, che peraltro non precisa quante volte si può votare e a che distanza di tempo in caso di crisi.
Come andrà a finire è un rebus con indicazioni depistanti. Quel che appare chiaro è che c’è un paese legale, che grosso modo si può identificare col centrosinistra, dai Radicali ai Liberi & Uguali, passando dal Pd o per una sua parte, contrario a che si voti per vari motivi, che valgono per alcuni e non valgono per altri. Emma Bonino ha fatto presente che votando con l’attuale sistema non ci sarebbe posto che per cinque formazioni (M5s, Lega, Pd, Fi e FdI) gli altri sarebbero esclusi non riuscendo a superare la soglia di sbarramento. E poi c’è un paese reale, che vuole votare non riconoscendosi nell’attuale maggioranza parlamentare.
Le varie situazioni esaminate in questa breve carrellata, politiche-parlamentari-costituzionali, ci fanno capire come questa crisi aperta in maniera inopinata in un periodo in cui i bioritmi non producono né azioni né scelte ponderate, è davvero complicata. Si capisce, allora, perché Mattarella sia rimasto non solo deluso, ma col suo permesso, anche un po’ irritato dai comportamenti dilatori ed elusivi degli attuali politici.

mercoledì 21 agosto 2019

Conte e Salvini sembravano Cicerone e Catilina




Il discorso del 20 agosto di Giuseppe Conte al Senato, sobrio ed incisivo, ineccepibile sul piano formale, ha avuto momenti in cui sembrava la drammatizzazione della prima catilinaria di Cicerone. Quo usque tandem, Catilina…. Conte, nella sua requisitoria, si è fermato solo davanti alla porta della stanza da letto di Salvini. Le altre le ha visitate tutte per far vedere agli italiani quel che l’irresponsabile vi combinava dentro.
Ma quel discorso è stato politicamente un disastro. A parte gli elogi, interessati e di circostanza degli avversari e/o nuovi alleati, quel discorso ha messo in chiaro una situazione di sottomissione di Conte a Salvini durata quasi quindici mesi di governo assieme, che tutti nei successivi interventi hanno immediatamente dopo rimarcato.
Salvini è stato “pericoloso, autoritario, preoccupante, irresponsabile, opportunista, inefficace, incosciente”? Ma lui, Presidente del Consiglio, non lo ha mai denunciato prima. Perché? Lui non ha mai detto, né in pubblico né in privato, fino a quando Matteo, abuserai della nostra pazienza… Lui se n’è stato zitto, ha sopportato, fino a quando paradossalmente non è stato l’altro a dire: caro Presidente, hai sopportato abbastanza, ti sollevo da ogni ulteriore sopportazione. Questo il senso delle parole di Salvini a Conte nel loro colloquio dell’8 agosto.
Ancora una volta Conte ha messo in evidenza ingenuità controversistica. Prima regola nelle controversie è non offrire agli avversari motivi di attacco nel mentre li attacchi. Lui, di motivi, ne ha offerti tanti, ed anche efficaci. Un Presidente del Consiglio di carattere Salvini lo avrebbe affrontato fin dall’inizio. Invece Conte, come tutti gli altri della compagine governativa del resto, lo ha lasciato fare. Non solo, ma ne ha condiviso i provvedimenti legislativi e politici, anche quelli fra i più criticati dagli avversari dell’opposizione, come, ultimo in ordine di approvazione, il Decreto Sicurezza bis. Nella requisitoria finale Conte avrebbe dovuto rimproverare Salvini di aver interrotto un’esperienza di governo positiva invece di abbandonarsi a rilievi personalistici sui suoi comportamenti caratteriali. Salvini è stato trattato da Conte come un alunno discolo dal suo professore. Non era questo che gli italiani s’aspettavano dal Presidente del Consiglio.
Conte in Senato si è presentato nudo, con la sola foglia di fico professorale, nella convinzione di essere corazzato e di poter denudare a sua volta uno che invece di vestirsi non ne aveva avuto mai la voglia e continuava a non averne se all’accusa di abusare pubblicamente dei simboli religiosi quello tirava fuori un rosario e lo sbaciucciava ripetutamente.
E’ mancata l’analisi politica della crisi. Nessun accenno ai gravi dissidi interni al governo, dissidi che bloccavano l’attività governativa e facevano gridare le opposizioni all’inesistenza del governo, mentre da più parti s’invocava la sua fine formale. Nessun accenno di Conte alla sua personale posizione sull’approvazione dell’Alta Velocità mentre il suo stesso partito era ferocemente contrario. Nessun accenno alla scelta europeista di appoggiare l’elezione della tedesca Ursula von der Layen alla presidenza della Commissione Europea insieme agli avversari di sempre e in difformità dalla comune posizione con gli alleati della Lega. Eppure, se un punto sinceramente condiviso c’era tra M5s e Lega era proprio l’antieuropeismo populista e sovranista!
Un lieve riferimento alla questione russa, da Salvini provocatoriamente e interessatamente sottovalutata, ma che andava invece approfondita per la sua gravità e per le connessioni di politica internazionale che essa aveva. In quella circostanza Salvini avrebbe dovuto andare lui in Parlamento e chiarire. Al suo posto il Presidente del Consiglio, invece di denunciare con forza, si è limitato ad un compitino di rappresentanza, ai limiti della complicità, mentre veniva umiliato dai suoi stessi senatori che abbandonavano l’aula. E lì, forse, Conte avrebbe potuto fare meglio il Cicerone del Quo usque tandem catilinario. Ne aveva tutte le ragioni e tutti i motivi. Non averlo fatto e aver tirato fuori il caso solo nel redde rationem finale ha aggravato la sua posizione. Certe situazioni non si nascondono e non si minimizzano, si denunciano con forza.  
La verità è che il governo gialloverde aveva il vizio d’origine di essere fatto da due forze politiche diverse e che tali volevano rimanere perfino operando insieme per contratto: noi cinquestelle facciamo le cose che voi leghisti volete pur senza che noi le condividiamo e in cambio voi leghisti ci fate fare le nostre anche se voi non le condividete. Un guazzabuglio anche formale. I due partiti hanno voluto mettere a contratto prima di tutto la loro diversità e solo in subordine le cose da fare. I rispettivi rospi sarebbero stati inghiottiti per il “bene” degli italiani.
Probabilmente fra le due compagini governative nel corso dei mesi sono spuntati degli “amori”. Inevitabile che accadesse. Durante i giorni della crisi ci sono state dichiarazioni da una parte e dall’altra che lasciano pensare che certi provvedimenti fossero ampiamente condivisi anche se per opportunità politiche ed esigenza di differenziazione si lasciava pensare a diversità di posizioni.
Così come ci sono stati altri provvedimenti sui quali non si convergeva. Sui porti chiusi, per esempio, sono emersi più volte atteggiamenti diversi della ministra della difesa Trenta del M5s, esibiti poi platealmente dopo la crisi dell’8 agosto.  
Ma la chicca, che da sola vale l’icona di questo governo di sgangherati, è del senatore grillino Morra, presidente della Commissione Antimafia, che ha detto che gli sbaciucchiamenti dei simboli sacri di Salvini sono messaggi in codice alla ‘ndrangheta. Che ci fa pensare per un verso che in Italia un Cicerone sarebbe davvero poco per i tanti Catilina in circolazione, per un altro che sarebbe ora di riaprire i manicomi. 

Il sole d'agosto gli ha dato alla testa




Se c’è un aspetto che indulge alla comprensione nello sconsiderato colpo di sole di Salvini dell’8 agosto è l’aver liberato le maschere di questo nostro allegro paese tenute nascoste dal pudore e dall’ipocrisia. Nulla di nuovo nemmeno all’ombra di un parlamento che ne ha viste di tutti i colori, figurarsi sotto il sole agostano. Sorprende solo la fulmineità con cui tutti sono usciti allo scoperto come se stessero aspettando da chissà quanto tempo l’occasione per sprizzar fuori come atleti che allo sparo dello starter schizzano dai blocchi di partenza in una gara di velocità.
Velocissimi sono stati i vari lideroni e liderini a mostrarsi diversi da quello che erano prima o, meglio, di come prima apparivano. Una vera gara di trasformismo che ricorda il celebre Leopoldo Frègoli, il trasformista che fra Ottocento e Novecento si esibì nei teatri di tutto il mondo in fulminei cambi d’abito e di parte. Nomen omen, ché a fregare nel nostro caso hanno mirato tutti. Frègoli gareggiava col tempo, questi qua tra di loro, goffi e impudichi.
Chi se l’immaginava un Matteo Renzi, da sempre avverso al M5S invocare subito un accordo col partito di Grillo? E chi poteva immaginare un Grillo, inventore dei vaffa ai vecchi della schifosissima casta, invocare subito un accordo col Pd, il partito di Bibbiano, per arginare i “barbari” della Lega? Chi, un Prodi, uscito dal museo delle cere, a invocare l’alleanza dell’Ursula con Pd-M5s-Fi, come se fosse una sua invenzione? Chi, uno Zingaretti, che non vuole un accordo provvisorio col M5s ma non ne disdegna uno di legislatura? E se questi sono i capi, ve li immaginate i loro codazzi di grandi, medi, piccoli e piccolissimi cortigiani? C’è da ridere fino a pestarsi i cabbasisi (Camilleri copyright), a vederli tutti indaffarati e sudaticci a cercare nuovi look politici fingendo tutti di crederci. Le risate saranno triplicate e di più quando non passerà molto tempo e tutti dovranno riprendere la maschera dismessa, dato che il volto di ciascuno non si sa dove sia andato a finire e ciascuno se l’è dimenticato perfino com’era.
Non fosse per altro, grazie Salvini per lo spettacolo provocato!
Ma come non c’è festa senza qualche lacrima di pianto e lutti senza un po’ di riso, come non basta una lacrima a cancellare la gioia di una festa e non c’è risata a cancellare la tristezza di una tragedia, così rimuoviamo il riso e cerchiamo di capire dove si vuole andare o piuttosto come si vuole uscire da una situazione che sembra una farsa ma è purtroppo una tragedia.
La prima considerazione che viene di fare è che comunque si posizioni il M5s, col Pd o di nuovo con la Lega, deve dire addio al < movimento > che fu. Il M5s, a differenza di tutte le altre maschere, che non hanno mai negato di essere tali, aveva la pretesa di non essere una maschera, ma il volto vero di un progetto rivoluzionario che faceva della sua diversità la cifra della sua credibilità. Nel momento in cui pure lui si dispone ad alleanze con chiunque pur di…, di fatto decreta la sua diversità e dunque la sua credibilità.
Per converso gli altri, quelli dal pedigree ideologico, dalle nobili ascendenze, che vantavano un’identità politica e che rimproveravano al M5s di essere un’accozzaglia di avventurieri senza arte né parte, nel momento in cui tutti fanno a gara per averlo come compagno, di fatto rinunciano alla propria identità e s’accozzagliano come possono. Sembrano tante Lady Chatterly che fanno la fila per farsi il guardiacaccia. Il livello è unico ed è quello dei grillini. E gli ex grillini, i duri e puri, scoprono che è perfino bello trasgredire, che certe amicizie convengono più di altre e che il popolo alla fine non si sa dove stia e con chi stia. Già, perché c’è anche un trasformismo del popolo, che ora riversa voti a caterve su Renzi, ora su Grillo, ora su Salvini, così a brevi periodi di distanza.
Questa carnevalata estiva segna davvero un momento cruciale nella storia politica di questo paese. Il M5s, criticabilissimo quanto vogliamo, costituiva un’apertura, una speranza, diciamo un’utopia. Pur nato dal più becero populismo e dallo più stomachevole demagogismo, specialmente per chi lo aveva fondato, un comico straricco che ora imita con le sue residenze lo psiconano Berlusconi, opponendo alla villa San Martino di Arcore quella di Bibbona, era un elemento di novità che avrebbe potuto creare situazioni diverse nel paese, costringere gli altri a rifare i conti con se stessi, a chiedersi se per caso non avessero sbagliato e non ritenessero di correggersi per mettersi in linea con chi costituiva, nel caso del M5s, una proposta di rigenerazione. Questa disponibilità del M5s ad unirsi con chiunque decreta la fine di un percorso, nel quale, a dire il vero, ci credevano soltanto i suoi sostenitori e forse pochi altri. Ma era importante che ci credessero. Ora non ci crede più nessuno.
La figuraccia di Salvini, con le sue accelerazioni e frenate improvvise, non solo ridimensiona un leader che con tutti i suoi difetti dava a una certa Italia la speranza di un cambiamento, ma potrebbe far riprecipitare la Lega alla sua dimensione bossiana, al prima i Padani!, a riportare l’Italia alla crisi della cosiddetta seconda repubblica. Il che ci fa registrare un ritorno al vecchio establishment postdemocristiano e postcomunista, con l’aggravante che non c’è più un credibile partito che ne assicuri l’esercizio politico. Il Pd, infatti, è lacerato in molte anime; alle tradizionali, democristiana e comunista, si è aggiunta quella liberale di Calenda.
Quanto alla destra, ormai ridottasi ad un’ipotesi elettorale senza prospettive, vince le elezioni ma non costituisce una proposta di governo unitaria. Forza Italia rischia di consumarsi come un cero votivo. E FdI, senza la Lega e Fi, è poco più di un fiammifero.     

domenica 18 agosto 2019

Salvini e il colpo di sole dell'8 agosto




Che cosa abbia potuto spingere Matteo Salvini l’8 agosto a chiedere al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte di mettersi da parte per andare a nuove elezioni non può essere stato che un colpo di sole, anche se tra i raggi martellanti di quei giorni di canicola agostana di motivazioni pseudorazionali ne circolavano, sconnesse da un disegno politico ponderato. Salvini deve essersi sentito come quei pugili che vengono sollecitati dai loro tifosi a dare il colpo del ko all’avversario in difficoltà. Chi erano i suoi tifosi? Quelli della Lega, la gente delle spiagge, gli intraprendenti operatori economici che pensano che fare i politici sia come fare gli imprenditori, né più né meno; delusi e scatenati dalla mancata approvazione delle autonomie differenziate delle loro regioni e dalla mancata flattax. Ma i politici che vogliano comportarsi come bottegai conviene che ruinorno direbbe Machiavelli.
Da mesi, almeno dalla campagna per le Europee e conseguente risultato elettorale, un giorno sì e l’altro pure, c’era chi sollecitava a staccare la spina, metafora del politichese nostrano per significare la fine traumatica del governo. Ma a ridosso di simili motivi sopraggiungeva forte la dissuasione per mancanza di alternative parlamentari, dato per scontato – ma non per l’assolato Salvini evidentemente – che alle urne non si sarebbe andati nel migliore dei casi se non dopo aver percorso l’iter costituzionale, che non è esattamente come passare dall’oggi al domani.
Salvini deve aver pensato: sono tutti e forse più di me per elezioni anticipate, ciascuno per un suo motivo. Lo sono Forza Italia e Fratelli d’Italia. Il Pd nei tre corni Zingaretti-Calenda-Renzi esclude accordi col M5S. Il M5S è annichilito dalla disfatta elettorale e dalle prospettive per nulla promettenti. Gli altri, i cespugli: Leu e + Europa, non contano un fico neppure verde. Ergo: Mattarella scioglie il Parlamento e il 13 ottobre si va a votare.
Ma ecco la realtà. Tutte quelle forze politiche, singolarmente prese, che erano per le elezioni anticipate, si ritrovano improvvisamente più o meno compatte in un nuovo fronte ciellenista, da liberazione nazionale, tutte insieme per combattere il comune nemico, quello dei “pieni poteri”, il mattatore del Papeete. Fatta eccezione per i due partiti di destra, FI e FdI, che hanno continuato ad invocare le urne, tutti gli altri hanno cambiato parere, questo sì dall’oggi al domani.
E’ apparso subito che il gesto di Salvini è stato improvvido proprio per le ragioni che nei mesi precedenti suggerivano di non mettere in crisi il governo per mancanza di chiare vie d’uscita. Ora tutti si affidano alla saggezza e all’imparzialità del Presidente della Repubblica. Ci sono quelli che, come Renzi e Grasso, sono disposti a tagliarsi gli attributi – se ne hanno ancora! – per impedire le elezioni anticipate. Ci sono altri, come Zingaretti, che operano un distinguo fra un governicchio da evitare e un governo di legislatura, forse perché furbescamente pensano che sia difficile farlo, e chi, come Calenda, che minaccia scissioni nell’ipotesi di un accordo Pd-M5S. Ma ci sono altri ancora, i nostalgici del governo giallo-verde, e fra questi lo stesso Salvini, peraltro assai pentito dal gesto inconsulto dell’8 agosto, che sarebbero per una riedizione del governo e far passare la crisi come una passeggera febbre da caldo estivo. Chi è inchiodato alle urne subito, senza se e senza ma, sono quelli di Forza Italia e Fratelli d’Italia, che Salvini non ha tanto entusiasmo di riabbracciare peraltro davanti ad un notaio.
Uno degli aspetti più miserabili di questa crisi di governo è l’approvazione del taglio di 345 parlamentari, che allarga ancor più la forbice tra rapprentanti e rappresentati, mentre dà l’idea che in Italia tutto si salva con una bella scoppola al ceto politico. Per i 5 Stelle è una conquista decisiva, un successone, che potrebbero spendere alla grande coi loro sostenitori, una sorta di Vercingetorige dietro il carro di Cesare. Ma è possibile farlo questo taglio dal quale non nasce niente se non la soddisfazione di cui sopra? Salvini, che ha capito che non si può fare, stando come stanno le cose, ha detto che è d’accordo. Ma sì facciamolo pure questo cazzo di taglio, che sarà mai? Ma di rimando i 5 Stelle gli hanno detto che chi vota la sfiducia a Conte di fatto impedisce che il taglio dei parlamentari si faccia, spostando tutto al voto di sfiducia.
Qualcosa di nuovo potrebbe venir fuori il 20-21 agosto, quando Conte farà le sue dichiarazioni al Senato e il giorno dopo alla Camera.
In attesa di novità le ipotesi sul tavolo sono quattro. La prima è che Salvini e Di Maio dicano abbiamo scherzato, ora ci rimettiamo insieme e siamo più forti di prima.
Seconda, espletati gli adempimenti costituzionali, ossia consultazioni, incarichi esplorativi e quant’altro, si arrivi allo scioglimento delle Camere.
Terza, un governo di soli Pentastellati con appoggi esterni arcobaleno, magari presieduto da Di Maio, con Conte alla Commissione Europea.
Quarta, un governo di coalizione Pd-M5S con velleità di legislatura. E’ possibile tutto, anche se, a voler uscire da bizantinismi e ciellenismi fuori stagione, la soluzione più diretta e democratica è far decidere il popolo. Adattando alla bisogna quel che diceva Vanini, un filosofo non finito proprio bene per quello che diceva, si può dire che quanto più ci si allontana dal popolo tanto più ci si avvicina all’imbroglio. Può essere che alla fine Mattarella si faccia una tantum vaniniano e mandi tutti a votare.

giovedì 15 agosto 2019

Purché il popolo non conti nulla




Nel nostro sgangherato mondo politico abbiamo due Mattei, l’uno e l’altro hanno una < e > in più. In realtà sono due matti.
Prendiamo il Matt[e]o Salvini. Era al governo da poco più di un anno, dove aveva strafatto ad libitum; aveva fatto crescere a dismisura il suo partito nei sondaggi, era diventato il personaggio più popolare d’Italia. E va bene che era anche il più amato e il più odiato. C’era gente che per arrivare a lui avrebbe percorso l’Italia a piedi. Ed altra, cristianissima, che sarebbe diventata turca per i suoi baciamenti pubblici a cristi e madonne. Quel povero Di Maio lo vedevi e ti veniva da piangere, mesto; anzi, sforzatamente gaio, era la maschera di Pierrot. Aveva iniziato con un partitone, era ridotto ad un partitino. Sondaggi, voi direte; ma i sondaggi oggi sono più credibili delle previsioni metereologiche, che pure si sbagliano di pochissimo. Se si sbagliano!
Che voleva di più Salvini? Voleva votare dall’oggi al domani, come se in Italia non ci fossero una Costituzione e delle leggi, che impongono tempi e procedure e tanti tanti avversari che si buttano come falchi sulla preda.
Dice Conte, il giubilato, col quale Salvini sostiene ancora di aver lavorato benissimo, che nel colloquio avuto a quattr’occhi gli ha detto papale papale: i sondaggi mi danno un vantaggio che io voglio capitalizzare subito. Posto che le cose siano andate così – in politica non credere a quel che dicono è un imperativo kantiano – che voleva Salvini, che Conte lo aiutasse nella sua mattana (da Matteo)?
E l’altro Matt[e]o, il Renzi, che da sempre ha ostacolato ogni accordo fra il Pd e i Cinquestelle, minacciando perfino scissioni, che fa? Altra mattana (sempre da Matteo)! Dice: bisogna fare subito un governo coi Cinquestelle, in disaccordo col suo segretario Zingaretti, il quale precipitosamente aveva detto che bisognava andare subito a votare.
Insomma una tromba d’aria – mettiamola così – al termine della quale chi prima era bianco si ritrova nero; e chi prima era nero si ritrova bianco. Chi era al governo sfiducia il governo, ovvero sfiducia se stesso, e chi era all’opposizione vota masochisticamente la fiducia al governo e si condanna a stare qualche anno altro all’opposizione. Il rovesciamento totale delle parti. Ad un certo punto si sono messi anche a farsi i dispetti. Prima Di Maio vuole tagliare 345 parlamentari e poi andare a votare, come se le due cose potessero stare come lunedì e martedì! Poi, quando il Matt[e]o Salvini capisce la provocazione dice: va bene, tagliamo i parlamentari e poi votiamo. Ma l’altro non ci sta e rilancia: tagliamo anche gli stipendi… E così, tra una mattana e l’altra, nel caldo torrido di una estate che gli annali patrii tramanderanno ai posteri come la più calda e politicamente la più sciocca, si è andati avanti fino all’incartamento della crisi.
E tutto questo perché? Per tenere il popolo lontano dalla politica. Il grande assente in tutta questa tragicomica vicenda è lui, il popolo, che in una sana democrazia dovrebbe essere sempre il punto di riferimento, il terminale di tutto. E’ vero che per dettato costituzionale il Presidente della Repubblica prima di sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni, deve verificare se in Parlamento è possibile un’altra maggioranza, ma questo non può mai avere il solo scopo di escludere il popolo dalla partita, peraltro con dichiarazioni esplicite da parte della gran parte dei soggetti politici. Non si deve votare per impedire che vinca Salvini. Ma se il popolo la pensa in questo modo, come gli si può andare contro? Ma in Italia strafottersene del popolo è regola mai scritta ma la sola rispettata fra scritte e non scritte.
Prendiamo l’immigrazione irregolare. Il popolo italiano in materia è categorico: non vuole che l’Italia diventi il paese refugium populorum, una balcanizzazione di razze e di religioni, a parte le degenerazioni del fenomeno, comprese le cooperative che sugli immigrati hanno fatto guadagni enormi nell’era presalviniana.
Il popolo è nel torto? E’ nella ragione? Se è nel torto una classe dirigente seria dovrebbe convincerlo a cambiare opinione. Invece non riesce che a piagnucolare indistinti e generici pietismi, mentre i poteri dello Stato sono gli uni contro gli altri: esecutivo contro giudiziario; e così i ministeri: interni contro trasporti e contro difesa. In questo modo il Paese appare al mondo lacerato e confuso. Che fanno gli altri paesi? La Germania gli immigrati irregolari li ammanetta, li seda, li mette sull’aereo e li riporta nei loro paesi di provenienza.  Il popolo italiano si riconosce in queste metodiche e non certo in quelle predicate dai suoi rappresentanti. Perciò il popolo italiano non deve votare, non deve democraticamente darsi il governo che vuole. Il Matt[e]o Renzi è stato badoglianamente esplicito: impedire che il popolo voti per impedire che Salvini vinca le elezioni! Una democrazia simile può anche non correre rischi sudamericani, dato che siamo in contesti geopolitici differenti, ma non può che tirare a campare in un modus vivendi popolo-istituzioni di reciproca strafottenza.
Un paese dove si ha paura del voto è destinato al disordine crescente, alle incertezze assunte a regime. Riflettiamo: se pure si volesse considerare il fenomeno “Salvini” una degenerazione della democrazia e del costume politico – e per certi aspetti lo è – ci si dovrebbe chiedere da dove e come è nato e cresciuto e riconoscere con onestà intellettuale che è figlio proprio di quel disordine e di quelle incertezze di cui si diceva, che producono fenomeni sempre più gravi e sempre meno gestibili.

martedì 13 agosto 2019

Salvini: tramontate stelle...




Come certe stelle di Natale, belle e rigogliose all’apparenza ma prive di radici, che venditori disonesti ti vendono e che durano giusto il tempo da Natale a Santo Stefano, così i Cinquestelle sono durati giusto un anno e sono seccati. Del resto erano stati propinati al popolo italiano da un comico cialtrone che si è fatto strada mandando affanculo tutti, gli stessi che oggi vorrebbe mettere insieme per scacciare i barbari. Così dice lui, subito ripreso dai media nazionali come se avesse suggerito chissà quale formula alchemica per fabbricare l’oro.
L’evocazione dei barbari di Grillo fa pensare ai Longobardi. E a chi se no? Ovvero alla Lega. Ma non è stato lui ad imbarbarire l’ambiente politico italiano? Ah, dimenticavo, un comico recita solo una parte, oggi di qua domani di là. Fesso chi gli crede. Strafesso chi lo segue.
Quando si è con l’acqua alla gola e la soluzione ti viene da un comico hai solo la consolazione di affogare ridendo. Questa è la situazione dell’Italia.
Fino alla vigilia dell’8 agosto, giorno in cui Salvini ha chiesto a Conte di mettersi da parte, tutti dicevano che il governo non c’era da tempo e che si doveva staccare la spina, metafora per dire che si doveva formalizzare la crisi. Tutti, tranne i Cinquestelle. Pour cause, perché da nuove elezioni essi non avevano da sperare nulla ma da temere assai. Ma già il giorno dopo, il 9 agosto, molti si sono rimangiato quanto avevano sostenuto fino al giorno prima. Contrordine, come ai tempi dei trinariciuti del partito comunista: tutti insieme a fare un governo pur che fosse per impedire la deriva plebiscitaria pro Salvini. Il pericolo è da ciellenismo, spiego: da liberazione nazionale, per i più giovani, che non conoscono la storia.
Siamo alle solite: ieri Berlusconi, oggi Salvini. Gli italiani hanno bisogno di sentirsi in pericolo; e se il pericolo non c’è deve essere inventato. Son tornate le mobilitazioni, i bellacciao, le minacce, gli insulti, le aggressioni, che giornalisti idioti definiscono “cosa bella a vedersi”. I tolleranti per eccellenza sono diventati intolleranti di ripiego, o piuttosto il vero: gli intolleranti di nascita si son tolti la maschera e sono apparsi per quello che sono.
Che strano paese, il nostro! Gli stessi, che sparavano a zero sui politici di professione, sulla casta, si rivelano più cinici e più furbi di Andreotti. Penso al machiavellino Renzi, che si fa promotore di massammurre antileghiste; a Grillo, che vorrebbe una Santa Comica Alleanza per sbarrare il passo al duce Salvini. Penso all’ex magistrato Grasso, che addirittura suggerisce di non votare la sfiducia a Conte. Qui in Italia, comici o magistrati, son tutti politici nati.
Si dice: perché Salvini ha voluto la crisi alla vigilia delle vacanze e l’accelerazione verso nuove elezioni? Dice Zingaretti: fugge dalle responsabilità della manovra finanziaria. Altri aggiungono: teme che vengano fuori compromissioni serie con il russiagate italiano, su cui sta indagando la magistratura e prima o poi qualcosa verrà fuori. Ma sì, ci sta tutto. La politica è un minestrone fatto con tutto quello che si rimedia in cucina. E in Italia, grazie a Dio, abbiamo una cucina fornitissima.
I sospetti, del resto, sono fondati. Da dove prende trenta/quarantamila miliardi il governo per fare fronte alle regole europee in tema di programmazione economica? I soldi se l’è squagliati col reddito di cittadinanza e con la quota cento. E’ da quando è nato questo governo che si dice che la sua morte sarebbe avvenuta in ottobre, alla resa dei conti pubblici.
E non è vero che l’affare con la Russia, in cui sono coinvolti uomini molto vicini a Salvini, è un gravissimo episodio, che finora il maggior interessato ha cercato di esorcizzare e di banalizzare chiedendo a dritta e a manca: dove sono i rubli, i dollari, gli euro e perfino i sesterzi di questo affare? 
Da questo orizzonte piatto è emerso solo il presidente Conte, quello che sarebbe dovuto apparire senza infamia e senza lode. Conte, invece, ha dimostrato di tenere la testa alta e la schiena diritta in un ambiente politico da calcio storico fiorentino. E’ stato il volto dignitoso dell’Italia nel consesso europeo e all’occorrenza ha saputo trarre perfino profitto. Lo ha fatto scongiurando la procedura d’infrazione. Ha più volte cercato di trovare un punto di sintesi tra i due vice Di Maio-Salvini inconcilianti. Perfino sulla Tav, esponendosi ad affermarla, ha cercato di bilanciare il No del suo partito. Un pasticcio d’accordo; ma che poteva fare? Se pure lui, capo del governo, si fosse detto contrario, avrebbe dovuto poi dimettersi di fronte ad un parlamento che era favorevole.  
Poteva impedire che i due partiti della ditta si esprimessero in disaccordo sulla nomina della Presidente della Commissione Europea. Forse avrebbe evitato che la reciproca avversione dei due partiti si presentasse in maniera così plastica. Ma non dobbiamo dimenticare che i Cinquestelle, da quando si son resi conto di smottare sempre più in basso a vantaggio della Lega, hanno cercato di fare qualcosa per arginare il precipizio, assumendo atteggiamenti contrari ai loro amici-nemici di governo. Così, tanto per essere diversi e contro. A quel punto Conte si è ricordato di essere un grillino. E se l’è ricordato quando è andato in conferenza stampa a riferire quanto gli aveva detto Salvini: te ne devi andare perché voglio capitalizzare il vantaggio elettorale che i sondaggi mi accreditano. Probabilmente i termini del colloquio erano stati diversi, anche se il senso era quello, ma Conte, di fronte all’inevitabile, ha ripreso con orgoglio gli abiti del suo partito, stella tra le stelle. Purtroppo per lui, cadenti.

lunedì 12 agosto 2019

Salvini e la Costituzione "violata"




E’ accaduto anche per il Decreto Sicurezza bis, per il quale si è gridato alla violazione della Costituzione e in specifico dell’art. 10, che al 3° comma così recita: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Pur senza essere dei costituzionalisti si capisce benissimo che il dettato ha due momenti diversi: il principio e l’applicazione. Se fosse bastato solo il principio non ci sarebbe stato bisogno dell’aggiunta applicativa “secondo le condizioni stabilite dalla legge”.
Perché i due momenti? Per il semplice fatto che le realtà politiche cambiano e non si può elaborare una costituzione per ogni cambio di realtà. Nel 1947 i padri costituenti pensarono a quegli stranieri che, essendo cittadini di stati nei quali non fossero garantite le libertà democratiche, potessero trovare asilo politico in Italia. Facciamo degli esempi: gli italiani stessi durante il regime fascista; in tempi a noi più vicini i cileni durante la dittatura di Pinochet; i greci durante la dittatura dei colonnelli. In casi simili gli stranieri, a cui dare asilo politico, non sarebbero che poche centinaia di persone, a voler esagerare, migliaia. E’ impensabile che l’intera popolazione di uno stato dittatoriale si possa sversare in un altro, così solo per un principio costituzionale di quest’altro.
Il contesto in cui è maturato il Decreto Sicurezza bis è completamente diverso da quello in cui operarono i costituenti; essi non pensarono davvero ad immigrazioni di massa. Come perfino i più convinti sostenitori dell’accoglienza generalizzata ammettono, anche se poi tendono a minimizzare, a seconda della necessità argomentativa, siamo in presenza di un evento biblico, di un fenomeno trasmigratorio di portata enorme, ai limiti dell’inarrestabilità. La percentuale degli stranieri in Italia è aumentata nel corso di questi ultimi anni, fino a raggiungere al 1° gennaio di quest’anno 5.255.503 unità, una percentuale dell’8,7%. Non è poca se si pensa che fino a pochi anni fa era molto più bassa. E c’è da dire che in genere i dati ufficiali sono sempre incerti per difetto rispetto alla situazione reale.
Chi sostiene l’accoglienza “senza se e senza ma” accusa quelli che la vogliono impedire di fare leva sulla paura della gente, artatamente creata. A parte il fatto che la paura è un ottimo meccanismo di difesa, c’è che non di paura si tratta ma di comprensibile preoccupazione. L’Italia aperta ad ogni forma di accoglienza rischia di ritrovarsi di qui a non molto nelle stesse condizioni di disordine e di terrorismo in cui sono Inghilterra e Francia.
Gli stranieri che arrivano in Italia hanno diverse motivazioni, non solo politiche ma anche economiche. Fatti salvi i comunitari, i quali hanno libera circolazione, gli altri vengono per lo più dall’Asia e dall’Africa, per avere condizioni di vita diverse da quelle dei loro paesi di provenienza. Sono soggetti che fatti arrivare in Italia, accolti e regolarizzati senza nessun limite, all’insegna del Christus vincit Christus regnat – lo dico col massimo rispetto – potrebbero di qui a non molto cambiare completamente l’identità dell’Italia, balcanizzarla, non più cristiana ma multireligiosa con forte accentuazione islamica dato che la maggior parte di questi stranieri sono musulmani. E i musulmani non hanno mai avuto con noi cristiani un grande amore. Basti pensare che mentre la chiesa cristiana accoglie li accoglie come fratelli, nei loro paesi i cristiani vengono uccisi e bruciati vivi nelle chiese. Se la storia non è acqua fresca dovrebbe pur insegnare qualcosa.
Si dirà: il mondo va nella direzione del multiculturalismo. Ma, pur non escludendolo, è del tutto legittimo cercare di contenerne o frenarne la portata. I compianti Oriana Fallaci e Giovanni Sartori, per fare due esempi, erano contrari; e non erano personaggetti da nulla. E’ sempre accaduto nella storia: c’è chi spinge, chi si accoda e chi si oppone. La grande differenza fra i precedenti governi di centrosinistra e il governo attuale, a forte connotazione leghista, sta proprio nel fatalismo degli uni di cavalcare l’onda della multietnicità, tanto è inevitabile!, fino a proporre lo Jus soli, e la consapevole resistenza dell’altro che cerca di difendere l’identità nazionale minacciata, pur conoscendo i limiti dei provvedimenti.
C’è un altro aspetto, concreto, che dovrebbe indurre tutti a trovare una soluzione fuori dalle personali convinzioni di ragione o di fede, ed è che mai si può aprire il paese ad un’accoglienza indiscriminata e illimitata. Chi pensa di poterlo sostenere mente o non si rende conto, forse accecato dall’antipatia per questo o quel politico. Antipatia del tutto legittima ma inopportuna quando è in gioco un problema assai più vasto e importante di una probabile crescita elettorale, a volte insignificante nelle dinamiche politiche del momento.
E’ veramente sconcertante vedere fior di intellettuali arrampicarsi sugli specchi più scivolosi pur di sostenere cose contrarie a quanto afferma Salvini, diventato il nemico numero uno del genere umano. Vederli aggrovigliarsi nei loro stessi ragionamenti, che vanno da una sorta di pietismo pseudoreligioso a banalizzazioni laiche, è mortificante per tutti.
Il problema dell’immigrazione clandestina non è cosa da risolvere con gli appelli del papa – per quanto comprensibili possano essere – o con le necessità coscienziali di ciascuno, ma con la politica, che cerca sempre di declinare i principi morali e religiosi con l’utile e il benessere materiali dei cittadini e del Paese.
In Italia, invece, ci sono cristiani, convinti e straconvinti – almeno così dicono! – che sarebbero capaci di farsi turchi pur di contrastare Salvini e i suoi provvedimenti, specialmente da quando quello, cinicamente e furbescamente, non fa che baciare cristi e madonne.

sabato 10 agosto 2019

Salvini rublizzato e il governo a dondolo




Per le cose di Dio il sospetto è peccato, per le cose di Cesare il sospetto è d’obbligo, tanto più quanto è fondato su una serie di inoppugnabili dati di verità. Le cose di Cesare – si sa – sono la politica, i soldi, il potere. Quelle di Dio forse non le sa più neppure il papa.
La questione morale in Italia è precipitata a prima di Tangentopoli, quando i magistrati, nonostante l’imperversare della corruzione denunciata, si grattavano la pancia all’ombra del Muro di Berlino. Nello specifico della trattativa dei leghisti con faccendieri russi del settore petrolio per avere finanziamenti alla Lega (si parla di 65 mln di Euro) i dati dai quali partire sono almeno tre. Primo, l’incontro per definire l’affare c’è stato: ci sono immagini e intercettazioni. Secondo, all’incontro hanno partecipato due uomini della Lega, Gianluca Savoini (amico ed ex portavoce di Salvini e presidente dell’Associazione Lombardia-Russia) e Gianluca Meranda, più un terzo, il consulente bancario Francesco Vannucci, già dirigente della Margherita. Terzo, Savoini non era di passaggio o un avventuriero imbucato negli incontri ufficiali del governo italiano con quello russo, ma uomo organico della Lega e del Ministero dell’Interno, regolarmente accreditato. Savoini ha una storia e una condizione di assoluto legame con la Lega e con Salvini.
Dopo il maldestro tentativo di dire “Savoini chi?” Salvini ha dovuto ammettere che il personaggio era conosciutissimo e che era un uomo della Lega. Il coinvolgimento di Salvini nell’affare è dunque geometrico. Dati i due cateti, va da sé l’ipotenusa. I giudici dovranno indagare, approfondire, accertare legami e soprattutto se il tentativo di far soldi ha avuto o meno un esito. Ma sul piano politico di elementi per sospettare di Salvini ce ne sono a sufficienza. Ricordiamo che per molto meno si sono dimessi diversi ministri in questi ultimi anni, sia dei governi di centrodestra sia dei governi di centrosinistra. E non parliamo degli anni eroici di Mani Pulite, quando il “non poteva non sapere” e la presunzione di colpevolezza erano regole da applicare ad ogni indagato.
Il caso è grave, tuttavia non è serio, direbbe Ennio Flaiano. Savoini davanti ai giudici si è avvalso della facoltà di non rispondere. Lo stesso in buona sostanza ha fatto Salvini di fronte al Parlamento, non presentandosi affatto. Al suo posto è andato il Presidente del Consiglio Conte, il quale ha detto quel poco che sapeva e che già si sapeva, anche perché il Ministro dell’Interno, che è Salvini, non gli aveva fornito tutte le informazioni richieste.
Nel frattempo Salvini non è rimasto con le mani in mano. Ha minimizzato, scherzato sui rubli, ha ricordato che di rubli veri e accertati ne hanno presi tanti i padri del Pd di oggi, ovvero quelli del Partito comunista inchiodandoli alla formula nazionalpopolare del furbo pecca e minchia paga. Poi la campagna di distrazione di massa con il caso dei bambini di Bibbiano, che è sì una questione gravissima e serissima ma che assai poco ha a che fare con la politica.
Sul piano giudiziario è marginale sapere chi ha avuto interesse a sollevare il caso delle intercettazioni della famosa trattativa al Metropol di Mosca. Se proprio volessimo rispondere, potremmo farlo come suggerivano gli antichi romani: “cui prodest?” e ipotizzare che sono stati gli americani, non proprio felicissimi della politica filoputiniana di Salvini. Ma questo, ripeto, è marginale.  
Non è affatto marginale, invece, la politica di Salvini pro Russia. L’Italia è un paese inserito in un sistema di alleanze per il quale favorire un paese come la Russia può voler dire venir meno da parte di alcuni esponenti del governo agli obblighi che abbiamo verso l’Europa e la Nato. E questo è preoccupante. L’excusatio di Conte secondo cui la politica del governo è una cosa quella di ogni componente politica del governo un’altra non sta né in cielo né in terra. I politici che sono anche membri del governo non possono stare con la Nato e nello stesso tempo flirtare coi suoi nemici. E’ una politica puttanesca, se si può dire; e quelli che la fanno ne sono i degni rappresentanti.
Di fronte alle assurdità che quotidianamente accadono nella politica italiana la gente si chiede: il governo cade o non cade? Si fa strada sempre più una via di mezzo: non cade ma non sta nemmeno in piedi, semplicemente dondola. Che, tradotto, può voler dire che seppure cade, anche formalmente, è difficile che si vada a nuove elezioni; tutt’al più ad un nuovo esecutivo da formare con materiali raccogliticci in Parlamento. Che sarebbe un diverso dondolare. Questa soluzione, che sembra più squittita che ruggita, è la più conveniente al Pd, che avrebbe l’opportunità di due successi. Uno, di dire al governo giallo-verde di aver fallito. Due, di potersi proporre come il ritorno alla normalità democratica dopo le stravaganze populiste e sovraniste.
Prospettiva, questa, che trova qualche credibilità negli addetti ai lavori, i quali credono che quanto accade in politica è come un indumento stagionale, da togliersi di dosso e reindossare all’occorrenza. Evidentemente non è così. Eventi ed elettorato decidono. Le masse di voti date a Berlusconi, a Renzi, ai 5Stelle ed oggi anche a Salvini, sono frutto di questo combinato disposto che è sempre nuovo: eventi-elettori. I voti presi, perciò, non vanno e vengono, come ai tempi del frigorifero di Andreotti. Vanno senza ritorno. L’elettorato è liquido e assume la forma del recipiente che trova. Il recipiente è quel combinato a cui si faceva riferimento.
Forza Italia e Pd continuano a dire le stesse cose dei “bei tempi andati”, come se nel frattempo non fosse accaduto nulla e il Paese avesse la nostalgia di loro. Può essere che il Paese abbia nostalgia, ma proprio di loro no. Se ne facciano una ragione.