domenica 29 novembre 2015

Musulmani e "musulmani" li abbiamo in casa


Cerco, servendomi di un precedente storico, di far capire quanto sia pericolosa la faccenda musulmana per gli europei e per la pace mondiale.
Una delle più gravi aberrazioni di tutti i tempi è stata la soluzione finale dei nazisti contro gli ebrei. I nazisti avevano torto a considerare nemici gli ebrei; si trattava di una fisima ideologica che peraltro avevano ereditato da altre culture europee. Il nazismo con la violenza e la propaganda fece credere ai tedeschi che gli ebrei erano nemici della Germania, che l’avevano invasa e che ne opprimevano il popolo. Non era vero, perché gli ebrei tedeschi erano tedeschi a tutti gli effetti, avevano lavorato e prodotto, studiato e combattuto per la Germania; ma la sensazione per i tedeschi fu quella di avere in casa il nemico. Il resto lo conosciamo.
Senza entrare nel merito della vicenda, in sé esecrabilissima, è proprio la sensazione di sentirsi oppressi da una popolazione straniera che spinge a reazioni estreme e terribili.
Che farà l’Europa quando si sentirà davvero invasa e oppressa dai musulmani? E qui stiamo parlando di un’oppressione assai più concreta e più motivata, perché mentre gli ebrei in Germania avevano radici profonde, erano pacifici e laboriosi e nella crema del popolo tedesco una componente importante era costituita da ebrei, i musulmani in Europa portano morte e spavento.
A mio modestissimo avviso ci stiamo avviando verso un’altra soluzione finale. Ciò accadrà quando gli stati europei saranno costretti, per la sicurezza delle loro popolazioni, a stroncare i mali estremi dell’islamismo ricorrendo ad estremi rimedi.
Invasione e oppressione musulmane sono già in essere. Esse sono di due tipi, per un verso il terrorismo dei combattenti musulmani, che fa stragi e modifica il modo di vivere degli europei, per un altro la conquista di spazi fisici e morali sempre più ampi da parte dei cosiddetti musulmani moderati. Nell’uno e nell’altro caso si avverte sempre più la presenza e la minaccia di una forza straniera e ostile. Non c’è da meravigliarsi se prima o poi ci sarà la reazione. Essa sarà partorita dalla stessa Europa. Nella storia il necessario arriva sempre puntuale.
E veniamo a noi. In Italia non ci sono stati finora attentati. Merito dei nostri servizi di intelligence? Mettiamola così. Ma si potrebbe anche dire che noi ad ogni livello stiamo bene attenti a non irritare i musulmani. Se così fosse, non sarebbe una cosa ignominiosa, ma sulla quale bisogna riflettere.
Si dice che Renzi è un “disertore” perché non si è schierato con gli alleati europei nella lotta all’Isis. Se Renzi è un disertore, voglio farmi male e dico che lo siamo tutti noi. Non diciamo fesserie, a noi la guerra non piace nemmeno a pronunciarla, figurarsi a farla. E le esperienze belliche, da un secolo a questa parte, ci hanno scottate le carni. Quindi, lasciamo stare.
Ma, in questo nostro “prudente” tirarci indietro, stiamo esagerando; stiamo andando oltre le aspettative degli stessi musulmani. Oggi, non solo abbiamo paura di frequentare certi luoghi dove si ritiene più probabile che avvengano attentati, non solo ogni mucchiu, come dice un proverbio salentino, ci pare turchiu (ogni cespuglio ci sembra un turco), retaggio delle invasioni e delle stragi subite dai turchi, ma stiamo rinunciando ad essere noi stessi da noi stessi, senza cioè che nessuno ce lo dica, ce lo ordini, ce lo imponga.
Io non credo che si possa tollerare, fin d’ora, senza aspettare altro tempo, che dei dirigenti scolastici, con la pretesa ragione di non offendere la sensibilità religiosa di chi cristiano non è – è palese il riferimento esclusivo ai musulmani – impediscano di praticare la religione cristiana a scuola, togliendo i crocefissi dalle aule, e impedendo la tradizione del presepe. Questi signori – si fa per dire – sono assolutamente inadeguati, non voglio dire altro, a svolgere il compito per il quale sono oggi strapagati; e nella maggior parte dei casi sono dei professori falliti e infingardi, diventati dirigenti con concorsi farsa. Chi lo dice ha quarant’anni di insegnamento negli istituti superiori e nei licei; e ne ha conosciuti che ne ha conosciuti! Non conosco il dirigente scolastico Marco Parma, dell’Istituto comprensivo Garofani di Rozzano in provincia di Milano, l’eroe laico che ha vietato di festeggiare il Natale nella sua scuola per non offendere i musulmani, e dunque non so chi sia. Ma le ragioni addotte ai suoi provvedimenti anticristiani puzzano di cacca, in ogni senso. Pare che abbia rimesso il mandato. Non ci sarebbe da meravigliarsi se invece fosse stato costretto a farlo. In ogni caso, plaudiamo.
L’assurdo è che mentre il Presidente della Repubblica Mattarella, il Presidente del Consiglio Renzi, Hollande, la Merkel, Obama, Cameron e tutti insistono nel mantra che dobbiamo fare quello che abbiamo sempre fatto, e cioè cantare, ballare, gioire, riempire gli stadi, i ristoranti, i teatri, mangiare e bere e fare i gaudenti secondo il nostro costume di divertirci ed essere felici, per non darla vinta a chi ci vuole spav entare e far cambiare vita, degli oscuri dirigenti scolastici, ma dal potere enorme, ci dicono che non possiamo più essere cristiani se non di nascosto, nelle catacombe di casa.
Questa rinuncia alla propria cultura, ai propri costumi, alla propria identità per non offendere la sensibilità di stranieri, che dovrebbero inserirsi proprio attraverso la condivisione delle nostre leggi e della nostra cultura, è aberrante; è qualcosa che va combattuta subito e stroncata immediatamente, senza pietà e misericordia. Lo Stato non deve preoccuparsi di sembrare autoritario se dirama, attraverso i suoi ministeri, disposizioni ad estendere il nostro essere italiani ed europei anche osservando le nostre abitudini religiose. E se ci sono dei dirigenti scolastici e dei professori che non condividono, essi se ne devono andare, devono fare un altro lavoro; ma non possono in alcun modo sottrarsi a dei doveri civici, morali, e non voglio dire patriottici per non apparire inutilmente vintage.
Nella mia esperienza di vita ho vissuto e studiato a Berna per due anni, dai quindici ai diciassette anni; frequentavo la scuola pubblica e il giorno che c’era religione, sempre la prima ora, siccome lì erano protestanti, noi cattolici entravamo in classe l’ora successiva. E comunque eravamo tutti cristiani.

Oggi il vero pericolo che corriamo noi in Italia non è tanto quello degli attentati fragorosi e sanguinosi, che pure c’è, ma quello portato in maniera subdola, silenziosa, strisciante, di questi pseudoilluministi, che ammantano di nobili propositi la loro rivoltante pusillanimità.          

domenica 22 novembre 2015

La Chiesa tra Jerusalem celeste e Babilonia infernale


Con papa Francesco non doveva accadere; invece è accaduto. Lo scandalo dei documenti trafugati e pubblicati in due libri è come un treno che viaggia su un binario predisposto per l’alta velocità. Sono documenti riservati che riguardano le attività amministrative del Vaticano. Ma il profano dei soldi si intreccia col sacro dei sacramenti ed è difficile separare le due cose.
Le anomalie incominciarono durante il Sinodo sulla famiglia. Da noi – disse papa Francesco in apertura – non è come nel parlamento, qui non si fanno compromessi.
Chiara l’antifona: metteva le mani avanti il Papa perché tutto si svolgesse nell’ordine da lui desiderato e sortisse il risultato da lui sperato; un risultato che tutti sapevano qual era, che in tanti però erano intenzionati a non fargli raggiungere.
Il Sinodo per la famiglia ha di fatto spaccato la Chiesa. Si è visto quel che è successo, mentre il Sinodo era in svolgimento, un prete omosessuale ha esibito il suo compagno, tredici cardinali hanno scritto una lettera al Papa facendola conoscere alla stampa perché non si transigesse sui sacramenti, poi la rivelazione di una presunta – presunta? – malattia del Papa. Insomma, non è accaduto nel Sinodo quel che accade in parlamento; è accaduto di peggio.
Alla fine Francesco l’ha spuntata con un solo voto in più della maggioranza richiesta, facendo ricordare agli italiani certi voti in Senato durante i governi Prodi e Berlusconi, quando il governo aveva l’anima tra i denti e aveva bisogno di un voto in più e alcuni senatori a vita, ancorché moribondi, con tutto il rispetto, si presentavano in aula per darglielo.
Diciamola tutta. Che dei cattolici divorziati possano accedere ai sacramenti pare anche a noi, miscredenti, cosa buona. Che colpa può avere un coniuge se l’altro è un fetentone, al punto da rendere impossibile la convivenza? Perché, allora, non consentirgli di avvicinarsi al Signore, nel quale crede e nel quale ripone la speranza di una vita più serena? Ma sappiamo tutti che i sacramenti per la religione cristiana non sono disponibili a revisioni, come lo sono i regolamenti condominiali. Concedere la comunione ad un divorziato o ad una divorziata sarebbe come se il vescovo di quella diocesi pronunciasse per l’uno una sentenza di assoluzione  e per l’altra di condanna; o viceversa.
Lo scandalo cosiddetto Vatileaks 2 è una cosa diversa, ben più seria e ben più grave, come lo ha ammesso perfino il Presidente della Cei cardinal Bagnasco. I due libri usciti in contemporanea, Avarizia di Emiliano Fittipaldi, e Via Crucis di Gian Luigi Nuzzi, che pubblicano e spiegano i documenti trafugati, veicolano mali così gravi che è improbabile si possa dire di loro che non tutti vengono per nuocere. Questi mali nuocciono, altro che.
Il Papa, pur visibilmente amareggiato, ha ostentato sicurezza. Ma se è vero che rappresenta la tanto attesa rivoluzione della chiesa cattolica, una sorta di Fidel Castro o di Che Guevara della situazione, dove sono i barbudos? Se avanza – se è vero che avanza – perché i suoi vescovi, i suoi cardinali non lo seguono? Si ha l’impressione che tutti abbiano paura di seguirlo forse perché incominciano a credere che la sua esperienza pontificia possa volgere al termine a breve o che la sua più volte conclamata riforma non porti a nulla.
Lui, da quel politico che è – lo è per istinto, come ogni buon politico – l’ha messa sul… politico. Vogliono impedirmi di portare a termine la riforma della Chiesa, ma non mi fermeranno. Sembra Renzi quando se la piglia coi gufi.
Non so se questo Papa sia colto o meno, raffinato o meno. A vederlo e a sentirlo non si direbbe. Lo si sente poco citare i padri della Chiesa. Mai che citi Paolo, mai che citi Agostino o Tommaso. Agostino soprattutto gli sarebbe utile, in particolare il De Civitate Dei. Dove Agostino spiega che l’impero romano non cade per colpa dei cristiani, come pure si diceva, ma perché qualsiasi struttura che non si conformi alla Civitas Dei è destinata a finire, prima o poi. Se la Chiesa di Pietro o di Francesco, di Benedetto o di Giovanni, di Paolo o di Pio o di chiunque altro non finisce, è perché rispetta le due dimensioni, si conforma alla Jerusalem celeste per gli affari spirituali ma fa i conti con la Babilonia infernale per quelli materiali. Nel momento in cui Francesco riduce la Chiesa  ad una sola dimensione, nell’illusione di trasferire sulla Terra la Città celeste, avvia un processo di disfacimento della Città terrena, che è condizione dell’altra. E’ mondano il lusso dell’attico del cardinal Bertone esattamente quanto Santa Marta di Francesco, quanto la Porziuncola di Francesco, quello d’Assisi, l’uno, l’altra e l’altra indulgono alla materialità: o per il fasto e il lusso, o per la povertà e l’indigenza.
Non è peccato sedere su un trono d’oro, è peccato distruggere quel trono, se questo è utile alla salvezza materiale e spirituale degli uomini tutti.
Quel che si percepisce, propaganda a parte, è che il papato di Francesco non è la correzione di un cammino sbagliato concluso da Benedetto XVI con le sue dimissioni – fatto estremamente grave! –  ma un’altra fase di travaglio per la Chiesa. Ad un papa dimissionario è seguito un papa missionario; ma il Papa non deve essere né l’uno né l’altro. Una missione peraltro tutta politica. Francesco non parla di peccati, ma di reati. Il suo orizzonte è sindacale, se si mettesse in tuta sarebbe da preferire alla Camusso. L'ultima è di questi giorni: gli insegnanti sono operai malpagati, lo Stato non ha interesse per l'educazione. 
Ci ritroviamo con un papa che ha trasferito nel cuore dell’Occidente europeo e cristiano le arretratezze sudamericane, da intendersi non solo nella loro dimensione materiale, ma anche e soprattutto spirituale.

Lo slogan “una chiesa povera per i poveri” è un colossale nonsense. Per essere utili ai poveri bisogna essere ricchi. Io in Chiesa non vado, ma vado con la Chiesa quando aiuta concretamente i poveri, ammonisce i potenti, tuona contro i violenti, condanna i malvagi e dice chiaramente all’individuo ciò che è peccato da ciò che non lo è. La Chiesa deve fare la Chiesa. Per questo le destino il mio otto per mille; nonostante i tanti abati di Montecassino!   

domenica 15 novembre 2015

Le stragi di Parigi e il suicidio dell'Europa


Prepariamoci i fazzoletti per le nostre lacrime, le garze per fasciare le nostre ferite, le casse per chiudere i nostri corpi martoriati. Prima o poi i terroristi dell’Isis colpiranno anche l’Italia. E’ tutto nell’ordine delle cose. Siamo su un piano inclinato, senza guide e senza freni. Siamo un paese simbolo. E se pure stiamo bene attenti a non abbandonarci ad imprudenze di tipo militare, alla Hollande o alla Cameron, non possiamo tirarci fuori da un sistema politico di cui facciamo parte integrante.  
A Parigi il terrorismo islamico, che alcuni negano o minimizzano, su cui c’è gente che fa della satira e dell’ironia – per sdrammatizzare, si dice – la sera di venerdì, 13 novembre 2015, ha mostrato il volto più protervo e micidiale: ha provocato in attacchi simultanei in punti diversi, circa centotrenta morti, più di trecentocinquanta feriti, alcuni molto gravi. Questa è guerra!
Non una bomba, collocata silenziosamente e di nascosto in un angolo buio di una sala d’attesa di una stazione o di un aeroporto, no: bombe, spari e grida che Allah è grande. Scene che ricordano l’arrivo di pistoleri a cavallo in certi film western di quando eravamo bambini tra grida e spari per terrorizzare gli abitanti.
Hanno colpito i luoghi dello svago occidentale: i ristoranti, lo stadio, il teatro-dancing, i simboli del nostro costume di uomini liberi e spensierati. Hanno voluto far sapere, questi nuovi guerrieri della notte, che la colpa era di Hollande per aver autorizzato i bombardamenti in Siria. Hanno detto che ora tocca all’America, all’Inghilterra, all’Italia. E c’è bisogno che ce lo dicano?
E noi? Noi abbiamo risposto con le solite geremiadi, mentre le nostre navi continuano a stare nel Mediterraneo a raccogliere altri migranti. E questo che c’entra? penserà qualcuno. C’entra, c’entra, perché tra quei migranti potrebbero esserci dei terroristi; e se pure non ce ne fossero al presente potrebbero esserci in futuro. La storia di questi ultimi anni ha dimostrato che ci saranno. I terroristi di oggi sono figli o nipoti dei migranti di ieri. I terroristi di domani sono i migranti di oggi.
Guai a dire che è in atto una guerra di civiltà! Faremmo loro un favore! E poi, che guerre di civiltà? Che pericolo possono portare tante donne, tanti bambini, tante persone affamate, infreddolite, mezzomorte? Sono tutte brave persone, innocue, che di qui a qualche anno saranno la salvezza della nostra economia. Che tra quella gente si possa nascondere il germe futuro del terrorismo neppure a pensarlo. Una volta bastava la favolistica o la saggezza antica a metterci in guardia da certi pericoli. Un contadino raccoglie una vipera mezzomorta per il freddo, la riscalda e la rianima e quella per prima cosa lo morde e lo uccide: vipera agricolae beneficium maleficio rependit. Il solito latinorum, penserà qualcuno. Ebbene sì! Serve per capire che quanto sta accadendo da una ventina di anni a questa parte in Occidente e nell’Europa è la prova del fallimento di un modello politico e sociale basato sull’ottimismo illuminista, cristiano e democratico: lo stato multietnico.
Ce ne siamo resi conto ormai; ma possiamo fare ben poco. Il nostro sistema economico, fondato sulla produzione e sul consumo, non può finire. Il tasso di crescita demografico in Europa è zero; abbiamo bisogno di lavoratori/consumatori per alimentare la produzione. Se non è possibile averne di nascita indigena, prendiamoli dall’Africa, dall’Asia. Non è importante che siano cristiani, che siano bianchi, purché abbiano braccia per lavorare e stomaco per consumare. Un po’ come il gatto di Deng Xiaoping: non importa il colore, l’importante che acchiappi il topo. Se poi tra mille immigrati consumatori ce ne saranno dieci, venti, trenta che saranno sollecitati dal loro richiamo identitario, pazienza! Ogni cosa ha un costo! Non si può fermare la storia.
Siamo giunti ormai – i segnali ci sono tutti – alla fine di una stagione, di una grande stagione: quella della democrazia. Abbiamo conosciuto l’assolutismo e le sue degenerazioni, la chiesa e le sue degenerazioni, il liberismo e le sue degenerazioni, il comunismo e le sue degenerazioni, il fascismo e le sue degenerazioni; siamo alle degenerazioni della democrazia. Sono in essere tutte le sue debolezze, le sue incertezze, le sue impotenze, le sue contraddizioni. Essa produce in ossequio alla sua ideologia i pericoli dai quali non sa poi difendersi se non negando se stessa. L’insistere a dire che non è una guerra di civiltà la dice lunga sulla sua condizione di saper valutare la realtà delle cose. Non vuole ammettere per non essere costretta ad accettare o la resa o la negazione di se stessa.
A Parigi, l’altra sera, è apparso chiaramente che ormai è in corso il suicidio dell’Europa civile e democratica. La stessa che per settant’anni ha vissuto all’insegna della lotta ad ogni forma di chiusura e di oppressione, all’insegna dei diritti umani senza distinzione alcuna, certa che la strada del benessere deve essere assicurata a tutti senza minimamente pensare a contropartite, a rischi, a regressioni. L’Europa, oggi nel mirino del terrorismo islamico, è una povera malata che crede di star bene e che per difendere il suo stato di benessere non ha alcun bisogno di scomodarsi minimamente. Chi la colpisce è qualche ingrato, qualche malvagio isolato che si può fermare con i normali strumenti di polizia; qualche pazzo che non può essere confuso con fedi religiose, con iddii, tutti peraltro ritenuti legittimi.
Non per nulla c’è stato chi alla televisione ha suggerito a tutti di uscire di casa, di andare nei bar, nei ristoranti, negli stadi, a ballare, a mangiare, a divertirsi, come se nulla fosse, perché dimostrare di aver paura, standosene chiusi in casa, vorrebbe dire ai terroristi dell’Isis che hanno vinto loro.

Già, proprio così: agli atti di guerra rispondiamo con atti di svago. Che la gente muore, è solo un piccolo insignificante dettaglio.

domenica 8 novembre 2015

Centenario Grande Guerra: l'imbarazzante vittoria


Ci sono due modi per raccontare il passato. Uno è il trasferimento del narratore nel passato, alla ricerca di quel che la realtà del momento fu, coi suoi personaggi, i suoi fatti, le sue cose. L’altro è l’espianto del passato per ripiantarlo al tempo del narratore allo scopo di renderlo “utile” al presente, ovvero “strumento” del presente. Direi che il primo può considerarsi scientifico, il secondo politico.
Né l’uno né l’altro raggiungono esiti compiuti e definitivi; ma mentre il primo segue un percorso rigoroso di verità servendosi di fonti criticamente attendibili ed è sempre verde, il secondo è un consapevole processo di mistificazione, di arrangiamento, di costruzione di qualcosa che possa rispondere ad una domanda di accomodamento politico ed è destinato a durare una stagione.
E’ quest’ultimo modo la tipica operazione della cultura al servizio della politica, che si giustifica con un proposito educativo. Ma nulla, che si fondi sulla mistificazione e sulla menzogna, può essere veramente pedagogico ed educativo, anche quando si ponga il più nobile degli obiettivi. Ciò che è politico non può mai essere pedagogico poiché la politica opera in un campo, la pedagogia in un altro. Solo nei paesi a regime dittatoriale i due campi si sovrappongono.
Se è vero che Benedetto Croce riteneva che ogni storia è storia contemporanea; è ancor più vero che l’affermazione riguardava la motivazione dello storico verso un periodo, un personaggio o un fatto e non già la sua alterazione per farlo entrare nell’ottica del presente come in un letto di procuste.
Da qualche mese siamo entrati in Italia nell’orbita celebrativa del Centenario della Grande Guerra, per noi 1915-18, ma 1914-18. A parte alcune rievocazioni televisive con esperti che illustrano e commentano i filmati, non si sa peraltro quanto veri, per il resto sembra ripetersi la stessa scialba atmosfera della celebrazione dei 150 anni dell’unificazione nazionale. Grandi fatti costitutivi della nazione, che dovrebbero rappresentare momenti di grande identificazione collettiva, qui da noi passano come fatti che sarebbe meglio non mostrare perché poco presentabili. E poiché non si può fare a meno di mostrarli, si è tentati di renderli presentabili, rispondenti cioè allo spirito del tempo.
Due sono le questioni più imbarazzanti. La prima è costituita da quei soldati che in vario modo non intesero spendersi fino al sacrificio, dandosi facilmente prigionieri (seicentomila) o addirittura fucilati come disertori (più di mille), in parte processati e in parte no. 
La seconda riguarda quegli italiani che, per essere altoatesini e dunque all’epoca sudditi dell’imperatore austroungarico, erano nostri nemici ed oggi non sanno se celebrare una vittoria, quella dell’Italia, o una sconfitta, quella dell’Austria.
Non sono più i tempi di una volta, ça va sans dire, quando si scatenavano polemiche roventi tra opposti interpreti dei fatti storici. Oggi c’è un mortorio culturale, un appiattimento che sa di palude, reso appena appena più accettabile a forza di deodoranti. Quasi tutti gli storici tendono a condannare la Grande Guerra, prendendo a prestito pari pari la frase di un altro Benedetto, il papa Benedetto XV, l’ “inutile strage”. Non c’è da meravigliarsi di questo. Tre quarti dell’intellighentia italiana pende da più di cinquant’anni dalle labbra del papa. C’è una gara rivoltante a mettersi accanto a lui per dire più o meno le stesse cose; per apparire sulle sue posizioni. Eugenio Scalfari, il papa laico, fondatore de “la Repubblica”, amoreggia col papa cattolico come un trovatore medievale. E il “Corriere della Sera” spesso apre la sua prima pagina con testi di Francesco. Come se quello non avesse oltre all’”Osservatore Romano”, all’Avvenire”, alla “Famiglia Cristiana” e ad una infinità di altri spazi cartacei, televisivi ed elettronici, per dire la sua! C’è inoltre un totem, assolutamente innegoziabile, di fronte al quale cessa qualsiasi geometrico ragionamento, è il perseguimento della pace.
Allora, alla luce di queste considerazioni, celebriamo la Grande Guerra, anzi facciamole la festa. Siccome fu un’inutile strage, ribaltiamone i valori. Non i caduti, gli arditi, i combattenti strenui che conquistarono territori, postazioni, città; ma i veri eroi furono i disertori, i traditori, quelli che si consegnarono al nemico, i fucilati per tradimento. E furono i veri eroi perché capirono quello che gli altri non seppero o non vollero capire, che quel macello non serviva a niente, tutt’al più ai produttori di armi, ai padroni del vapore, che con la guerra avrebbero fatto affari d’oro.
Questa è la lettura che si vuole fare della Grande Guerra. La Camera dei Deputati nel maggio scorso ha approvato quasi all’unanimità (331 sì, nessun contrario, un solo astenuto) una legge di riabilitazione degli anzidetti signori e li ha congiunti agli altri nel pantheon nazionale, con tutti gli onori militari. Cazzo, che provvedimento educativo!
Ora, che un atto di clemenza a distanza di tempo verso quei soggetti fosse giusto farlo, se non altro per una questione di pietas,  è un conto, ma restituire loro dignità militare e civile è un altro.
Più comprensibile appare invece la double face celebrativa della Grande Guerra nel Trentino e nei territori oggi italiani che all’epoca facevano parte dell’Impero austro-ungarico. Duplice perché è di tutta evidenza che quelle popolazioni non possono riconoscersi nell’unità nazionale e nella guerra allo stesso modo. Molti italiani, trentini, allo scoppio della guerra, essendo sudditi austroungarici, furono inviati al fronte russo per combattere per l’imperatore Francesco Giuseppe. I loro famigliari rimasti a casa, finirono per subire con la redenzione territoriale anche l’occupazione militare, con episodi di guerra nient’affatto edificanti per la nostra nomea di “brava gente”. Violenze e fucilazioni furono perpetrate secondo consolidate pratiche di guerra.
Per il concetto che abbiamo noi di storia, è giusto – non può essere diversamente – che quegli episodi vengano raccontati con scrupolo documentale, a prescindere se faccia bene o male farli sapere agli italiani di oggi, trentini compresi.
Quel che non è ammissibile è che si voglia far passare per proposito educativo l’atavico vizio degli italiani di adeguarsi acriticamente allo spirito del tempo: ieri zim-pum zim-pum “siam pronti alla morte”, oggi zim-pum zim-pum “siam pronti alla pace” e domani, zim-pum zim-pum, comunque sempre pronti. 

mercoledì 4 novembre 2015

Nel mondo di Joan Baez. Un libro di Paolo Caroli


Le battaglie di Joan Baez. La voce della nonviolenza (Il Margine, Trento 2015, pp. 142, € 12,00) di Paolo Caroli è un libro che non lascia indifferenti, a prescindere da gusti musicali o appartenenze politiche. L’autore, giovane avvocato e pubblicista, è figlio d’arte; viene da famiglia di antica cultura musicale, i Caroli di Taurisano.
Joan Baez è troppo nota perché si sprechino parole per presentarla. Cantante grandissima e grandissima persona impegnata per i diritti umani e la non violenza. Il suo nome si lega alle grandi battaglie della seconda metà del Novecento, in gran parte legate agli Stati Uniti d’America, alle sue vicende interne (razzismo, leva obbligatoria, pena di morte) e soprattutto estere (guerra in Vietnam, fino alle più recenti guerre del Golfo). La sua vicenda artistica e sentimentale con Bob Dylan ne ha amplificato l’immaginario popolare e ne ha fatto un’icona mondiale.
Ciò non significa che abbia avuto il consenso universale. Quando si parla di politica scattano meccanismi complessi, tutto diventa di parte, anche le cose più belle e più buone.
Per capirci, il suo mondo non è il mio, benché io abbia più o meno la sua stessa età; e non lo è non solo perché di musica non capisco un’acca, ma anche e soprattutto perché non condivido il fondamentalismo e l’esclusivismo di alcune sue posizioni politiche che, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, hanno avuto radici e ragioni, consensi e incomprensioni, delusioni ed entusiasmi negli eventi che si sono susseguiti, spesso tragicamente, sulla Terra.
La non violenza non è ovviamente un fine, è un modo per perseguire dei fini. L’ambiente artistico e politico della Baez era tale che il suo impegno si prestasse a strumentalizzazioni di altri soggetti che i fini li perseguivano con la violenza. Il carattere di molti movimenti per i diritti umani della seconda metà del Novecento si collocavano decisamente a sinistra, più spesso nei comunismi locali. Per questo non di rado si creavano incomprensioni tra i non violenti come Martin Luther King e i violenti come Malcom X prima maniera.
Anche la Baez è stata più volte contestata per il suo essere per la non violenza senza se e senza ma, come diciamo noi in Italia, con un’espressione un po’ abusata. Rispettosa del proprio talento di artista e coerente con le proprie idee politiche e perciò libera da qualsiasi “vincolo di mandato”,  la Baez è entrata spesso in rotta di collisione con marxisti e comunisti, che da lei s’aspettavano un impegno illimitato e incondizionato. Organico, per dirla con Gramsci. Alcuni suoi gesti, fra cui quello di cantare in Polonia per Lech Walesa, sono stati perciò clamorosi e hanno creato incomprensioni e proteste nel variegato mondo della contestazione. L’ultima cosa che voleva fare la Baez era l’essere strumentalizzata.     
I giovani di oggi fanno fatica a capire quel che succedeva cinquant’anni fa, perché figli di un’altra cultura. Negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta o si stava sulle posizioni dei diritti umani, comunque intesi e declinati, e si era di sinistra, o si stava su altre posizioni e si era di destra. Chi stava a destra dava priorità alle tre grandi sintesi: lo Stato, la Nazione, la Società; e quindi la tradizione, l’ordine, la difesa della patria, il servizio militare e, ove occorresse, l’andare in guerra. Ai diritti dell’individuo si contrapponevano i diritti dell’insieme. Al sogno, all’evasione, all’utopia si contrapponeva la veglia, lo star dentro alle cose anche in maniera scomoda, il realismo. Una contrapposizione ideologica netta, tra il particolare e il tutto, che così si fenomenizzava: da una parte la droga, la musica, la non violenza, la pace; dall’altra il sacrificio, la lucidità e la concretezza nel perseguire risultati di produttività e di forza, la difesa del benessere sociale raggiunto. Da una parte i giovani dall’altra i matusa, come venivano chiamati gli anziani e i benpensanti; da una parte la spensieratezza dei “figli dei fiori”, Woodstock, le marce della pace, dall’altra le catene di montaggio, le banche, gli eserciti. Non era solo una questione politica, ma anche di sensibilità, di carattere, di cultura.
Capisco che questo è un parlar brutale e per schemi; ma così stavano le cose o così erano percepite negli anni in cui Joan Baez combatteva le sue battaglie in una posizione comoda e scomoda allo stesso tempo, comoda per il benessere e il glamour che l’accompagnava e scomoda per essere accusata da entrambe le parti in lotta. Va da sé che in quegli anni si cercavano icone che rappresentassero la lotta per la libertà, ovvero per il comunismo, contro l’imperialismo e il fascismo; e furono individuate nel Che, in Mao, in Ho Chi Min.
In quegli anni di scontri, a volte anche selvaggi, non potevi avere né il tempo né l’opportunità per capire le ragioni degli avversari, per cui rifiutarsi di prestare il servizio militare per uno di destra era inconcepibile. Mentre obbligare uno a partire in guerra o solo a prestare il servizio di leva era inconcepibile per uno di sinistra. Si potrebbe continuare con tante altre contrapposizioni, che in quegli anni, formidabili come li ha definiti Mario Capanna in un suo libro, riferendosi agli anni Settanta, mettevano giovani contro.
Ecco, il libro di Caroli sulla Baez ci riporta a quel mondo, a quei tempi. Chi li visse dal di dentro li ritrova nel libro e li rivive con nostalgia; chi da quel mondo era fuori ed ostile ha l’opportunità di conoscerlo e finalmente di capirlo assai più di quanto non l’avesse capito prima, pur continuando a rimanerne fuori. Caroli racconta quel mondo direi di risulta, è il contesto necessario per capire, essendo Baez il centro della narrazione. Non lo fa con una guida politica, con un pensatore, con un Marcuse per esempio, tra assemblee e scontri, ma con una guida formidabile e gradevole, un personaggio forte, determinato, incredibilmente virtuoso, a suon di musica e di canto, in cui i tanti titoli di canzoni, che segnarono quegli anni, hanno la forza di far rivivere e di scandire momenti epici di lotte politiche o gioiose circostanze di intimità. Lo fa con un monumento all’udito e agli occhi, essendo la Baez una stupenda cantante ed una bella donna, la “madonna scalza”, l’ “usignolo” contro l’ingiustizia. Caroli, peraltro, per ragioni anagrafiche, quel mondo non lo ha conosciuto direttamente; e forse per questo la sua narrazione è lieve e fresca quasi come una fiaba. Ne vien fuori un profilo che, senza nascondere nulla del personaggio – il che depone in favore dell’autore, di cui traspare un profilo ideologico ben definito ma non settario –, è esaustivo e accattivante.

La mia probabilmente è una lettura parziale e inadeguata del libro, per le ragioni anzidette, ma mi consola il fatto che uno, come Furio Colombo, che è grande amico della Baez fin dai suoi esordi, che conosce la musica e appartiene a quel mondo, a proposito del libro di Caroli apprezza “il fatto che l’autore abbia portato al centro della narrazione, non la musica sempre splendida della Baez, ma la nonviolenza” (“Il Fatto quotidiano” del 13 aprile 2015). Mi consola, perché io il libro di Caroli lo apprezzo per entrambe le cose, col rammarico, tutto personale, di non aver potuto godere di tutti i piaceri musicali che Caroli ha evocato parlando delle sue canzoni, anche di quelle cantate in circostanze drammatiche e di forte denuncia. Perché – sia chiaro – la non violenza, insisto a separare il nome dall’articolo, è un sentimento nobilissimo, è la poesia della vita; che spesso però deve fare i conti con la realtà della vita, che ne costituisce la prosa – ahimè – amara.                Musica

domenica 1 novembre 2015

Due-tre cosette su Pasolini


Carlo Lucarelli ha scritto un libro su Pasolini in ricorrenza del quarantesimo anniversario della tragica morte dello scrittore, PPP Pasolini, un segreto italiano (Rizzoli, 2015). Tra le tante rievocazioni apparse quest’anno sull’argomento da me intercettate è quella che ritengo la più significativa. 220 pagine in cui l’autore riflette su Pasolini e su tante altre gravi e misteriose vicende italiane del secondo dopoguerra. Per capire, però, il suo punto di vista nei tornelli dei suoi tanti ragionamenti, espressi nel suo stile di venditore di sensazioni, bastano otto righe a pag. 180.
“Ci sta che in quegli anni, che dai pugni e gli schiaffi ai comizi e alle manifestazioni sono passati rapidamente, attraverso le bombe, alle spranghe e ai coltelli e stanno andando ancora più velocemente verso le pistole, uno così, uno come Pasolini, frocio, comunista e pure intellettuale (nessuna cosa esclude l’altra), si ammazzi  con la furia e la ferocia di un agguato premeditato”.  
Ecco: ci sta. Due gocce di parole che spiegano il mare di una narrazione infinita. La penso anch’io così, ma senza entrare ed uscire da supposizioni varie, che fanno pensare al delitto politico perché Pasolini dava fastidio, come dava fastidio Enrico Mattei, come dava fastidio Mauro De Mauro, come dava fastidio Aldo Moro e via di seguito nella lunga scia di misteri o piuttosto, come suggerisce Lucarelli, segreti italiani.
Sono del parere che, fatta salva la verità processuale, secondo la quale, terzo grado di giudizio, fu il solo Pino Pelosi ad uccidere Pasolini nel corso di un rapporto omosessuale degenerato, altre verità, cosiddette storiche, non ne esistano in difetto di prove o di argomentazioni serie, organiche e consequenziali; sono altresì convinto che la verità processuale non esaurisce né chiude la vicenda, che si presta sia alla soluzione semplicistica del delitto d’impeto in seguito ad un alterco sia all’agguato di più persone per odio politico o razziale. Chi può dire come siano andate veramente le cose?
A quei tempi – siamo alla fine del 1975 – essere omosessuale non è lontanamente paragonabile all’essere omosessuale oggi. Ricordo, se serve a dare l’idea che si aveva degli omosessuali all’epoca, che quando della morte di Pasolini parlai con un anziano signore di Taurisano intento a spazzare davanti al suo negozio – hai sentito? Hanno ammazzato Pasolini, quel grande intellettuale – quello, senza minimamente sorprendersi, continuando a spazzare, commentò testualmente: “sì, ma dice che faceva le porcherie con la parte di dietro”, come se ciò potesse giustificare il suo assassinio. La cosa faceva ridere gli amici quando gliela raccontavo, quella castigatissima “parte di dietro” soprattutto.
Io Pasolini lo conobbi così. Leggevo abitualmente “Il Borghese”, settimanale di destra diretto da Mario Tedeschi, un ex repubblichino, e da una terribile Gianna Preda, una giornalista tosta, esperta ed intrigante. Era proprio costei a tenere le polemiche più violente nei confronti di Pasolini, che peraltro era stato espulso qualche anno prima dal Pci proprio per motivi di omosessualità con ragazzini. Insomma Pasolini, già scrittore e regista affermato, era particolarmente nel mirino della stampa all’epoca definita tout court fascista.
Di lui mi feci un’idea diversa. Avevo letto “Le ceneri di Gramsci” e “Poesia in forma di rosa”; lo seguivo sul “Corriere della Sera” all’epoca diretto da Piero Ottone. I suoi film no, non mi piacevano. Troppo sesso, troppa degenerazione, troppa pornografia ed etica del porcile. Nei confronti del mondo dei poveri, dei brutti, degli ignoranti, degli sconfitti sociali Pasolini aveva una sorta di mistica.
Negli anni Settanta i giudizi su Pasolini incominciarono a cambiare, anche negli ambienti di una certa destra, per quella sua difesa della tradizione, delle persone e delle cose di una volta, trasformate con l’omologazione borghese e progressista, piatta e consumistica. Certo, non era la stampa di destra più immediatamente politica e propagandistica, ma una destra più attenta e attrezzata culturalmente. Ne nacque una questione: Pasolini di sinistra o di destra?, che ancora oggi appassiona. E se uno rilegge i suoi “Scritti corsari” o le sue “Lettere luterane” di dubbi che Pasolini fosse lentamente scivolato su posizioni culturalmente, non politicamente, reazionarie ne ha più di uno.
La vicenda Pasolini ha un qualche legame con Taurisano, che è il mio paese, nel più profondo Salento, perché l’avvocato Rocco Mangia che difese il suo assassino era originario di Taurisano, uno dei tanti giovani professionisti meridionali che avevano scelto la strada dell’emigrazione verso il centro e il nord dell’Italia. E noi, come accade in tutti i paesi, seguivamo i suoi successi forensi nei processi di risonanza nazionale, il più delle volte facendo il tifo per lui.
Rocco Mangia difese il Pelosi con la solita passione che metteva, come del resto fanno tutti gli avvocati – è il loro mestiere, a volte odioso; ma è il loro mestiere! – nei confronti dei loro assistiti. La sua difesa fece uscir bene il pur reo confesso assassino, ma fece trionfare una verità mai accettata da tanti intellettuali, giornalisti e perfino avvocati di sinistra. Per questo hanno decretato nei suoi confronti una specie di damnatio nominis, assolutamente incomprensibile specialmente da parte dei suoi colleghi. Che doveva fare l’avv. Mangia, pilotare la difesa del Pelosi verso la difesa contemporanea di Pasolini, posto che l’una fosse compatibile con l’altra? Sarebbe assurdo semplicemente pensarlo. Un avvocato deve fare gli interessi del suo assistito, non di altri, chiunque essi siano e quali che siano le motivazioni, anche le più nobili. Nel film di Marco Tullio Giordana “Pasolini, un delitto italiano”, dell’avv. Mangia viene fatta una caricatura, come a voler vendicare un torto subito: tu hai tanto infierito contro Pasolini e noi, suoi grandi e irriducibili estimatori, infieriamo su di te; così impàri!
Pasolini è stato un grande della nostra cultura. Poliedrico e radicale in tutte le sue manifestazioni: letteratura, giornalismo, cinema, impegno civile. Il che non significa che non sia anche criticabile per certe sue posizioni, e non mi riferisco alla sua omosessualità, che, peraltro, stando alle testimonianze di chi lo conosceva bene, viveva con grande sofferenza. Mi riferisco a quel suo aristotelismo dell’ipse dixit, che in termini moderni si sintetizza in quel “io so, perché sono un intellettuale”. Un intellettuale sa soltanto una cosa, che la verità, quale prodotto finito e confezionato, non esiste; esiste come ricerca della verità. Tanto vale per gli stessi giudici e storici. Dire “io so perché sono un intellettuale” significa negare in radice la verità nel suo essere ricerca. Fuori dal suo essere ricerca la verità non esiste.

Si continua e si continuerà sempre a sostenere la tesi di Pasolini ucciso da nemici politici, con sempre nuove presunte prove; ma sono fiori, che si portano ad un morto per affetto e perenne ricordo. Queste mie riflessioni non sono fiori, ma all’eretico Pasolini forse sarebbero piaciute.