domenica 8 novembre 2015

Centenario Grande Guerra: l'imbarazzante vittoria


Ci sono due modi per raccontare il passato. Uno è il trasferimento del narratore nel passato, alla ricerca di quel che la realtà del momento fu, coi suoi personaggi, i suoi fatti, le sue cose. L’altro è l’espianto del passato per ripiantarlo al tempo del narratore allo scopo di renderlo “utile” al presente, ovvero “strumento” del presente. Direi che il primo può considerarsi scientifico, il secondo politico.
Né l’uno né l’altro raggiungono esiti compiuti e definitivi; ma mentre il primo segue un percorso rigoroso di verità servendosi di fonti criticamente attendibili ed è sempre verde, il secondo è un consapevole processo di mistificazione, di arrangiamento, di costruzione di qualcosa che possa rispondere ad una domanda di accomodamento politico ed è destinato a durare una stagione.
E’ quest’ultimo modo la tipica operazione della cultura al servizio della politica, che si giustifica con un proposito educativo. Ma nulla, che si fondi sulla mistificazione e sulla menzogna, può essere veramente pedagogico ed educativo, anche quando si ponga il più nobile degli obiettivi. Ciò che è politico non può mai essere pedagogico poiché la politica opera in un campo, la pedagogia in un altro. Solo nei paesi a regime dittatoriale i due campi si sovrappongono.
Se è vero che Benedetto Croce riteneva che ogni storia è storia contemporanea; è ancor più vero che l’affermazione riguardava la motivazione dello storico verso un periodo, un personaggio o un fatto e non già la sua alterazione per farlo entrare nell’ottica del presente come in un letto di procuste.
Da qualche mese siamo entrati in Italia nell’orbita celebrativa del Centenario della Grande Guerra, per noi 1915-18, ma 1914-18. A parte alcune rievocazioni televisive con esperti che illustrano e commentano i filmati, non si sa peraltro quanto veri, per il resto sembra ripetersi la stessa scialba atmosfera della celebrazione dei 150 anni dell’unificazione nazionale. Grandi fatti costitutivi della nazione, che dovrebbero rappresentare momenti di grande identificazione collettiva, qui da noi passano come fatti che sarebbe meglio non mostrare perché poco presentabili. E poiché non si può fare a meno di mostrarli, si è tentati di renderli presentabili, rispondenti cioè allo spirito del tempo.
Due sono le questioni più imbarazzanti. La prima è costituita da quei soldati che in vario modo non intesero spendersi fino al sacrificio, dandosi facilmente prigionieri (seicentomila) o addirittura fucilati come disertori (più di mille), in parte processati e in parte no. 
La seconda riguarda quegli italiani che, per essere altoatesini e dunque all’epoca sudditi dell’imperatore austroungarico, erano nostri nemici ed oggi non sanno se celebrare una vittoria, quella dell’Italia, o una sconfitta, quella dell’Austria.
Non sono più i tempi di una volta, ça va sans dire, quando si scatenavano polemiche roventi tra opposti interpreti dei fatti storici. Oggi c’è un mortorio culturale, un appiattimento che sa di palude, reso appena appena più accettabile a forza di deodoranti. Quasi tutti gli storici tendono a condannare la Grande Guerra, prendendo a prestito pari pari la frase di un altro Benedetto, il papa Benedetto XV, l’ “inutile strage”. Non c’è da meravigliarsi di questo. Tre quarti dell’intellighentia italiana pende da più di cinquant’anni dalle labbra del papa. C’è una gara rivoltante a mettersi accanto a lui per dire più o meno le stesse cose; per apparire sulle sue posizioni. Eugenio Scalfari, il papa laico, fondatore de “la Repubblica”, amoreggia col papa cattolico come un trovatore medievale. E il “Corriere della Sera” spesso apre la sua prima pagina con testi di Francesco. Come se quello non avesse oltre all’”Osservatore Romano”, all’Avvenire”, alla “Famiglia Cristiana” e ad una infinità di altri spazi cartacei, televisivi ed elettronici, per dire la sua! C’è inoltre un totem, assolutamente innegoziabile, di fronte al quale cessa qualsiasi geometrico ragionamento, è il perseguimento della pace.
Allora, alla luce di queste considerazioni, celebriamo la Grande Guerra, anzi facciamole la festa. Siccome fu un’inutile strage, ribaltiamone i valori. Non i caduti, gli arditi, i combattenti strenui che conquistarono territori, postazioni, città; ma i veri eroi furono i disertori, i traditori, quelli che si consegnarono al nemico, i fucilati per tradimento. E furono i veri eroi perché capirono quello che gli altri non seppero o non vollero capire, che quel macello non serviva a niente, tutt’al più ai produttori di armi, ai padroni del vapore, che con la guerra avrebbero fatto affari d’oro.
Questa è la lettura che si vuole fare della Grande Guerra. La Camera dei Deputati nel maggio scorso ha approvato quasi all’unanimità (331 sì, nessun contrario, un solo astenuto) una legge di riabilitazione degli anzidetti signori e li ha congiunti agli altri nel pantheon nazionale, con tutti gli onori militari. Cazzo, che provvedimento educativo!
Ora, che un atto di clemenza a distanza di tempo verso quei soggetti fosse giusto farlo, se non altro per una questione di pietas,  è un conto, ma restituire loro dignità militare e civile è un altro.
Più comprensibile appare invece la double face celebrativa della Grande Guerra nel Trentino e nei territori oggi italiani che all’epoca facevano parte dell’Impero austro-ungarico. Duplice perché è di tutta evidenza che quelle popolazioni non possono riconoscersi nell’unità nazionale e nella guerra allo stesso modo. Molti italiani, trentini, allo scoppio della guerra, essendo sudditi austroungarici, furono inviati al fronte russo per combattere per l’imperatore Francesco Giuseppe. I loro famigliari rimasti a casa, finirono per subire con la redenzione territoriale anche l’occupazione militare, con episodi di guerra nient’affatto edificanti per la nostra nomea di “brava gente”. Violenze e fucilazioni furono perpetrate secondo consolidate pratiche di guerra.
Per il concetto che abbiamo noi di storia, è giusto – non può essere diversamente – che quegli episodi vengano raccontati con scrupolo documentale, a prescindere se faccia bene o male farli sapere agli italiani di oggi, trentini compresi.
Quel che non è ammissibile è che si voglia far passare per proposito educativo l’atavico vizio degli italiani di adeguarsi acriticamente allo spirito del tempo: ieri zim-pum zim-pum “siam pronti alla morte”, oggi zim-pum zim-pum “siam pronti alla pace” e domani, zim-pum zim-pum, comunque sempre pronti. 

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