Ci sono due modi per raccontare
il passato. Uno è il trasferimento del narratore nel passato, alla ricerca di
quel che la realtà del momento fu, coi suoi personaggi, i suoi fatti, le sue
cose. L’altro è l’espianto del passato per ripiantarlo al tempo del narratore
allo scopo di renderlo “utile” al presente, ovvero “strumento” del presente.
Direi che il primo può considerarsi scientifico, il secondo politico.
Né l’uno né l’altro raggiungono
esiti compiuti e definitivi; ma mentre il primo segue un percorso rigoroso di
verità servendosi di fonti criticamente attendibili ed è sempre verde, il
secondo è un consapevole processo di mistificazione, di arrangiamento, di
costruzione di qualcosa che possa rispondere ad una domanda di accomodamento
politico ed è destinato a durare una stagione.
E’ quest’ultimo modo la tipica
operazione della cultura al servizio della politica, che si giustifica con un
proposito educativo. Ma nulla, che si fondi sulla mistificazione e sulla
menzogna, può essere veramente pedagogico ed educativo, anche quando si ponga
il più nobile degli obiettivi. Ciò che è politico non può mai essere pedagogico
poiché la politica opera in un campo, la pedagogia in un altro. Solo nei paesi
a regime dittatoriale i due campi si sovrappongono.
Se è vero che Benedetto Croce
riteneva che ogni storia è storia contemporanea; è ancor più vero che
l’affermazione riguardava la motivazione dello storico verso un periodo, un
personaggio o un fatto e non già la sua alterazione per farlo entrare
nell’ottica del presente come in un letto di procuste.
Da qualche mese siamo entrati in
Italia nell’orbita celebrativa del Centenario della Grande Guerra, per noi
1915-18, ma 1914-18. A
parte alcune rievocazioni televisive con esperti che illustrano e commentano i
filmati, non si sa peraltro quanto veri, per il resto sembra ripetersi la
stessa scialba atmosfera della celebrazione dei 150 anni dell’unificazione
nazionale. Grandi fatti costitutivi della nazione, che dovrebbero rappresentare
momenti di grande identificazione collettiva, qui da noi passano come fatti che
sarebbe meglio non mostrare perché poco presentabili. E poiché non si può fare
a meno di mostrarli, si è tentati di renderli presentabili, rispondenti cioè
allo spirito del tempo.
Due sono le questioni più
imbarazzanti. La prima è costituita da quei soldati che in vario modo non
intesero spendersi fino al sacrificio, dandosi facilmente prigionieri
(seicentomila) o addirittura fucilati come disertori (più di mille), in parte
processati e in parte no.
La seconda riguarda quegli italiani che, per essere
altoatesini e dunque all’epoca sudditi dell’imperatore austroungarico, erano
nostri nemici ed oggi non sanno se celebrare una vittoria, quella dell’Italia,
o una sconfitta, quella dell’Austria.
Non sono più i tempi di una
volta, ça va sans dire, quando si
scatenavano polemiche roventi tra opposti interpreti dei fatti storici. Oggi
c’è un mortorio culturale, un appiattimento che sa di palude, reso appena
appena più accettabile a forza di deodoranti. Quasi tutti gli storici tendono a
condannare la Grande
Guerra , prendendo a prestito pari pari la frase di un altro
Benedetto, il papa Benedetto XV, l’ “inutile strage”. Non c’è da meravigliarsi
di questo. Tre quarti dell’intellighentia italiana pende da più di
cinquant’anni dalle labbra del papa. C’è una gara rivoltante a mettersi accanto
a lui per dire più o meno le stesse cose; per apparire sulle sue posizioni.
Eugenio Scalfari, il papa laico, fondatore de “la Repubblica”, amoreggia col
papa cattolico come un trovatore medievale. E il “Corriere della Sera” spesso
apre la sua prima pagina con testi di Francesco. Come se quello non avesse
oltre all’”Osservatore Romano”, all’Avvenire”, alla “Famiglia Cristiana” e ad
una infinità di altri spazi cartacei, televisivi ed elettronici, per dire la
sua! C’è inoltre un totem, assolutamente innegoziabile, di fronte al quale
cessa qualsiasi geometrico ragionamento, è il perseguimento della pace.
Allora, alla luce di queste
considerazioni, celebriamo la
Grande Guerra , anzi facciamole
la festa. Siccome fu un’inutile strage, ribaltiamone i valori. Non i
caduti, gli arditi, i combattenti strenui che conquistarono territori,
postazioni, città; ma i veri eroi furono i disertori, i traditori, quelli che
si consegnarono al nemico, i fucilati per tradimento. E furono i veri eroi
perché capirono quello che gli altri non seppero o non vollero capire, che quel
macello non serviva a niente, tutt’al più ai produttori di armi, ai padroni del
vapore, che con la guerra avrebbero fatto affari d’oro.
Questa è la lettura che si vuole
fare della Grande Guerra. La Camera dei Deputati nel maggio scorso ha approvato
quasi all’unanimità (331 sì, nessun contrario, un solo astenuto) una legge di
riabilitazione degli anzidetti signori e li ha congiunti agli altri nel
pantheon nazionale, con tutti gli onori militari. Cazzo, che provvedimento
educativo!
Ora, che un atto di clemenza a
distanza di tempo verso quei soggetti fosse giusto farlo, se non altro per una
questione di pietas, è un conto, ma restituire loro dignità
militare e civile è un altro.
Più comprensibile appare invece
la double face celebrativa della
Grande Guerra nel Trentino e nei territori oggi italiani che all’epoca facevano
parte dell’Impero austro-ungarico. Duplice perché è di tutta evidenza che
quelle popolazioni non possono riconoscersi nell’unità nazionale e nella guerra
allo stesso modo. Molti italiani, trentini, allo scoppio della guerra, essendo
sudditi austroungarici, furono inviati al fronte russo per combattere per
l’imperatore Francesco Giuseppe. I loro famigliari rimasti a casa, finirono per
subire con la redenzione territoriale anche l’occupazione militare, con episodi
di guerra nient’affatto edificanti per la nostra nomea di “brava gente”. Violenze
e fucilazioni furono perpetrate secondo consolidate pratiche di guerra.
Per il concetto che abbiamo noi
di storia, è giusto – non può essere diversamente – che quegli episodi vengano
raccontati con scrupolo documentale, a prescindere se faccia bene o male farli
sapere agli italiani di oggi, trentini compresi.
Quel che non è ammissibile è che si voglia far passare per proposito
educativo l’atavico vizio degli italiani di adeguarsi acriticamente allo
spirito del tempo: ieri zim-pum zim-pum “siam pronti alla morte”, oggi zim-pum
zim-pum “siam pronti alla pace” e domani, zim-pum zim-pum, comunque sempre
pronti.
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