sabato 30 dicembre 2023

Donne, il femminismo è idolatria

Le donne continuano ad essere barbaramente uccise. Nel corso del 2023 sono state ammazzate 106 donne, per lo più giovani. L’Enciclopedia Treccani ha scelto “femminicidio” come parola dell’anno. Sembra un riconoscimento di merito secondo la cultura mondano-consumistica. L’uomo dell’anno, il giornalista dell’anno, il carciofo dell’anno. Si banalizza la tragedia. Un premio ad memoriam per le povere morte. Assistiamo ad una sorta di progrom mentre tutt’intorno celebriamo riti funebri sempre più in preda a furori ideologici. Il femminismo, riportato al ’68, è la causa scatenante di tanti femminicidi. Incominciò tutto con le ragazze che levavano le mani in alto congiunte a formare il simbolo più bello e più volgare che da sempre le contraddistingue. Gridavano “il corpo è mio”. Continuano a ripeterlo mentre criminali e disgraziati le colpiscono senza pietà. Non hanno ancora capito che il corpo che ciascuno di noi ha in dono dalla natura non può essere ridotto ad esclusiva possessione. Solo i beni materiali possono essere posseduti. Può il corpo di un essere umano ridursi ad un oggetto? Il fenomeno costerna la società, spaventa gli individui. Se filosofare sulle cose ha un senso, il femminismo esasperato e declinato in ogni sua forma porta verso l’estinzione dell’umanità. Nel mare dei diritti affoga la ragione. Perfino la Mussolini ci si mette, partita come nipote del duce è finita nipote del comandante Valerio. La verità è che il pensiero positivo ha messo le femmine su di un piedistallo e imposto di adorarle come idoli, pensando che ciò sarebbe bastato a renderle uguali se non superiori ai maschi. In ogni questione tra maschio e femmina, la femmina ha ragione a prescindere, non ha mai colpe. Il femminismo è un’idolatria. Solo gli idoli sono esenti da colpe, godono dell’irresponsabilità. L’idolo, che si tratti di un dio pagano o di un santo cristiano, è inaccusabile, salvo bestemmiarlo. Tutto quello che le donne fanno è lecito in ragione di una malsupposta libertà e di una peggiosupposta uguaglianza. Alcuni fattori hanno indotto a questo: la loro subalternità millenaria e dunque la loro sofferenza, la loro inferiorità fisica, la libertà di poter fare finalmente quello che vogliono alla stregua dei maschi, a quelli “considerate” uguali in tutto e per tutto. Una simile condizione le ha fatte passare da una reale inferiorità ad una fittizia uguaglianza quando non proprio superiorità, complici le politiche degli stati democratici della nostra civiltà occidentale. Ma intanto non è cambiato nulla sul rapporto fisico maschio-femmina e bisogna essere idioti per pensare di annullare simile differenza con una legge. Ciò che la natura fa non può modificarlo una legge. Nella natura del maschio ci sono caratteri che non possono essere né annullati né trasferiti alla femmina. Facciamocene una ragione. Peraltro la donna ha altre superiorità, vere e dimostrabili. Le evidenti esagerazioni e inconcludenze di certe leggi hanno dell’assurdo. Come puoi pensare di poter dare sempre ragione ad un soggetto solo in virtù del suo genere? Un maschio rarissimamente denuncia una femmina per molestie sessuali. C’è un rifiuto intellettuale, una inibizione sociale. Ma le femmine possono denunciare i maschi per lo stesso motivo quando vogliono, anche per uno sguardo, un ammiccamento, una parola. Nessun maschio si sognerebbe mai di denunciare una femmina per averlo stuprato dopo dieci venti trenta anni, ma neppure dopo dieci venti o trenta secondi. C’è un solco di differenza naturale tra maschi e femmine che nessuna ideologia può colmare. E se questo solco non lo si accetta e non lo si gestisce con intelligenza si va sempre più incontro a conseguenze disastrose, individuali e collettive. Per favorire la libertà assoluta delle donne, si promuovono politiche individualistiche, con l’abbattimento di ogni limite. La famiglia è una gabbia. Va sfasciata. Essere madre limita la libertà di essere e basta, dunque si modifichi il concetto di madre. Perfino essere femmina può essere una costrizione, dunque si modifichi il concetto di femmina. Mai si è vissuto nella storia all’insegna di tanta ideologia come stiamo vivendo noi oggi. Forse è accaduto durante le dittature del Novecento, che, di destra o di sinistra, pretendevano di trasformare l’uomo e la donna da esseri naturali in prodotti artificiali. Eppure si continua a predicare contro le dittature senza riflettere su cosa effettivamente volessero dall’uomo, su cosa vuole oggi la democrazia del pensiero unico, alias dittatura.

domenica 24 dicembre 2023

Pubblicità dei libri e lettura

Il caso Ferragni con la sua pubblicità ai panettoni Balocco e alle uova di Pasqua Dolci Preziosi, considerato un esempio di frode in pubblicità e falsa beneficenza, ha spalancato una porta sul dorato mondo dei “profitti” gratis, delle nuove professioni e dei nuovi mestieri. Abbiamo visto tutti cosa c’è in quel mondo di fenomeni che le generazioni più anziane, a cui apparteniamo, tardano a capire fino in fondo. La Ferragni è considerata un’imprenditrice. Di che cosa? Potrebbe chiedersi il cittadino alieno dalle modernità diaboliche del mondo d’oggi. Di se stessa! Una volta ci si sarebbe messi a ridere per la burla e si avrebbe pensato chissà che cosa. Oggi la Ferragni è un influencer che ha trenta milioni di follower, ovvero di seguaci simpatizzanti, sparsi in tutta Italia e nel mondo, che la seguono sui social. Lei è in grado in qualsiasi momento di influenzare l’acquisto di un prodotto, e da quel momento il prodotto consigliato o suggerito prende il volo delle vendite. Capito come funziona? Intendiamoci, niente che non si sia già visto. Nelle feste patronali di una volta, di molti anni fa, vi erano venditori di bambole sotto forma di partecipazione a un gioco, tipo oggi “i pacchi” di RaiUno, che si mettevano d’accordo con alcune persone del luogo che facevano finta di essere delle persone comuni per invogliare gli altri ad avvicinarsi alla baracca e partecipare. Dai panettoni ai libri. Finora non si è parlato della pubblicità ai prodotti editoriali, ma bisognerebbe incominciare a farlo. In Italia non c’è una normativa precisa e ognuno fa da sé. Per sapere che è uscito un nuovo libro lo devi leggere su qualche giornale o rivista, sentirne parlare direttamente alla televisione o vederlo nella vetrina di una libreria o partecipare alla sua presentazione. Va da sé che la miglior forma di lancio pubblicitario di un libro è la televisione. E qui è il punto. Il libro è prima di tutto un’opera d’ingegno con diversi aspetti culturali, di cui è doveroso e importante occuparsene. Promuoverne la vendita dovrebbe essere interesse dello Stato attraverso le sue agenzie educative. Dopo di ciò il libro è un prodotto industriale come tutti gli altri né più né meno. Pubblicizzarlo dovrebbe costare come per pubblicizzare una saponetta o un dentifricio. Il privilegio di proporre l’acquisto di un libro in televisione, da parte dell’autore che si gira, come un santo pellegrino, una per una ogni trasmissione, riguarda pochi autori, i quali godono di piacevole e proficua ospitalità, facendo passare il tutto come normale servizio giornalistico, perfino meritorio, come per certi aspetti è. Non è uno scherzo da niente. Buona la gloria, ma questa “non dat panem”; per il pane ci vogliono i soldi. Un libro di Bruno Vespa, di Aldo Cazzullo, di Corrado Augias, di Enrico Carofiglio, di Alberto Sallusti, di Marco Travaglio, di Andrea Scanzi, di Antonio Padellaro e via di seguito, ma anche di uomini politici che sempre più spesso si raccontano in libri, vedi il più recente Pierferdinando Casini, e di magistrati, il giorno dopo che se n’è parlato in una qualsiasi trasmissione, balza ai primissimi posti nella classifica delle vendite in tutta Italia. E sono soldi, introiti seri, di cui non beneficiano tutti gli altri scrittori ed editori, che quando riescono a vendere cento copie sono davvero fortunati. Se consideriamo che di libri in genere se ne vendono pochi perché pochi leggono, non c’è chi non paragoni la sporadica vendita di poche copie di libri ad una pesca con la canna, con esca ed amo, e quella a migliaia di copie di chi beneficia dei canali televisivi alla pesca a strascico, che come si sa è vietata perché pesca di frodo. Gli scrittori ospiti dei talk televisivi non dovrebbero parlare dei loro libri, né dovrebbero farlo al loro posto i conduttori. Perché si tratta di pubblicità gratuita, di cui non beneficiano altri che non hanno gli stessi rapporti coi mezzi di diffusione di massa. E con gli scrittori a beneficiarne ancora di più sono gli editori. Essi vogliono pubblicizzare i loro libri? Bene, paghino per farlo e magari con le entrate si potrebbero distribuire alle varie biblioteche pubbliche, dalle comunali alle provinciali, alle scolastiche, copie per incrementare la lettura e l’aggiornamento. Senza la pubblicità televisiva gratis, ma molto efficace, molti autori, che sfornano libri a ritmo industriale, vedrebbero effettivamente quante copie sono in grado di venderne. E con loro vedrebbero anche i cittadini, che spesso finiscono per credere di fronte alle migliaia di copie vendute, di trovarsi di fronte ad autentici Nobel per la letteratura.

sabato 16 dicembre 2023

Veneziani e gli intellettuali di destra

Recentemente su “La Verità”, quotidiano dove abitualmente scrive, Marcello Veneziani ha preso le distanze dalla locuzione “intellettuale di destra”, sostenendo che se ha avuto un senso considerarsi nel lungo periodo in cui essere di destra significava essere escluso da tutto, non ha più senso oggi con la destra al potere. Cosa ha voluto dire Veneziani? Forse che essere di destra non è compatibile con lo stare al governo? Forse che essere di destra vuol dire essere disorganico a qualsiasi partito, a qualsiasi governo? L’intellettuale di destra è tale perché è sempre contro? Il suo pezzo lo concludeva dicendo che la locuzione “intellettuale di destra” contiene due diffamazioni. È diffamante per un intellettuale essere considerato di destra ed è diffamante per la destra essere associata agli intellettuali. Quale che fosse stato il motivo dell’esternazione, Veneziani non vuole più essere considerato un intellettuale di destra. Basta! Ho avuto poche volte l’occasione di incontrare Veneziani. Ma lo conosco da quando entrambi molto giovani avevamo casa giornalistica a “Voce del Sud”, il settimanale leccese di Ernesto Alvino, che nei confronti dei giovani aveva particolare predilezione. Pugliesi entrambi, lui di Bisceglie, io di Taurisano. Credo di avere tutti i suoi libri, o quasi tutti. Uno dei primi, una monografia su Mussolini, lo recensii su “Voce del Sud”. È stato prolifico in questi anni. La sua produzione è ricchissima e spazia per diversi ambiti. Credo che oggi sia il nome più importante di una certa intellighenzia, se lui me lo permette, di destra. Tuttavia Veneziani, che non è nuovo a provocazioni, con questa sua ultima sparata, rientra perfettamente, che gli piaccia o meno, nella tipologia tradizionale dell’intellettuale di destra. Si pensi a quanti superfascisti, da Curzio Malaparte a Indro Montanelli, finirono antifascisti, proprio per quella idiosincrasia che ha un certo tipo di intellettuale verso l’intruppamento o l’asservimento alla truppa. Di me, per esempio, Ernesto Alvino diceva che rientravo nella tradizione degli anarchici di destra, per quella mia propensione a dire oggi bene dell’operato di un partito relativamente ad un fatto e domani male dello stesso partito relativamente ad altro fatto. Ecco, prediligere il fatto e non il partito distingue l’intellettuale di destra da quello di sinistra, che è sempre – come si sa – gramscianamente anima e corpo funzionale al partito. Veneziani dal partito ha avuto a suo tempo una certa considerazione. Ricordo che è stato anche Consigliere della Rai e Consigliere di Cinecittà in quota An durante i governi Berlusconi. Legittimamente avrebbe ambito a qualche incarico più importante nel governo Meloni o in qualche istituzione pubblica, in considerazione anche del fatto che Fratelli d’Italia, partito al quale Veneziani, per storia sua personale, è più vicino, non ha molti grandissimi nomi da spendere. Se è così, non ho difficoltà alcuna a comprendere i motivi della sua “ira”. Ma la mia è un’ipotesi, della quale, se non ha riscontro, chiedo scusa a Veneziani. Molto più probabile è che egli abbia voluto rivendicare la libertà di esprimersi sui fatti odierni relativi al partito o al governo. E bene ha fatto allora a dirlo pubblicamente sul giornale, per fugare dubbi o malintesi. La chiarezza non è solo forma ma anche contenuto Conviene che oggi, se si vuole essere credibili, non si abbiano etichette. In un ambiente ormai falsificato e polarizzato, o si è di destra o si è di sinistra, diventa difficile fare un’analisi dei fatti ed essere creduto. Ciò a cui un intellettuale libero tiene più che a qualsiasi altra cosa. Nella situazione in cui ci troviamo un intellettuale si trova né più né meno come in una duplice dittatura senza libertà di uscita. Se dice bene del governo è perché etichettato di destra, se dice male è perché etichettato di sinistra. Non esiste più per sé. E questo è applicabile a qualsiasi altro soggetto di osservazione critica, opposizione compresa. L’etichetta è una maschera che non consente di essere visto nel proprio vero volto. Liberarsi di ogni etichetta è perciò oggi assolutamente salutare per la propria credibilità. Veneziani ha voluto lanciare un’altra delle sue provocazioni. Ma temo che saranno pochissimi a raccoglierla, perché è molto difficile, quando si è in un sistema di comportamenti, rinunciare alle convenzioni. Che, a volte, possono essere prebende. Ma già stiamo parlando di altri, a cui la maschera o l’etichetta che dir si voglia è ricercata e curata.

sabato 9 dicembre 2023

Televisione: informazione o propaganda?

In tedesco c’è un termine che indica lo stato d’animo di chi gode delle disgrazie altrui. Si dice Schadefreude. Sembrerebbe che è un vizio tipicamente tedesco, dato che il termine l’hanno inventato loro, ma, avendoli conosciuti i tedeschi, per vita e letteratura, non mi pare. In italiano per esprimere simile sentimento occorrono due parole. In verità anche il termine tedesco è un composto, da Schade, che significa male danno, e Freude, che significa gioia felicità. Una sorta di ossimoro. C’è da stupirsi come mai nella nostra lingua non abbiamo ideato un termine così. Forse perché noi italiani sappiamo dissimulare molto bene i sentimenti più riposti. Torquato Accetto fu maestro nel Seicento di “dissimulazione onesta” ad uso di cortigiani e potenti. Oggi si usa il politically correct, che, se non osservato, il minimo che ti capita è di passare per nazifascista, con tutte le conseguenze …fasciste. Da un anno a questa parte, da quando c’è il governo Meloni, assistiamo a spettacoli televisivi, i cosiddetti talk-show, in cui i campioni del giornalismo televisivo italiano, prestati dal cartaceo, ostili alla destra, trasudano sofferenza cupa per i successi di Giorgia Meloni e gioia luminosa per le sue tribolazioni, che quando non ci sono vengono inventate. “La 7”, per esempio, è un contenitore formidabile, all’interno del quale vengono sminuiti e banalizzati i successi della destra o addirittura negati e sono fonte di gioia i suoi insuccessi. “Di Martedì”, “Otto e Mezzo”, “Piazza pulita”, “Propaganda Live” sono tutte trasmissioni che non nascondono il loro acido essere antigovernativo. Travaglio, Scanzi, Montanari, Giannini, Urbani, Mieli, Caracciolo sono i campioni in campo, magistralmente guidati dalla conduttrice Gruber. Dall’altra parte, su Mediaset, “Dritto e Rovescio” di Paolo Del Debbio, “Fuori dal coro” di Mario Giordano, “Quarta Repubblica” di Maurizio Porro, “Zona bianca” di Giuseppe Brindisi, fanno altrettanto. Si può dire che il giornalismo italiano, di destra e di sinistra, è tutto intruppato al seguito dei politici, tranne alcune eccezioni. Essi si azzuffano come bravi al seguito dei loro padroni di manzoniana memoria; e spesso se le danno di santa ragione. Il risultato è che hanno stancato i cittadini telespettatori, che mandano tutti a quel paese dopo aver cercato inutilmente di capire che cosa accade. Una volta, in televisione, Maurizio Molinari, direttore di “Repubblica”, sornione sornione, a chi lo accusava di fare politica rispose, sollevando appena appena le palpebre, che lui faceva solo informazione. Allora corsi subito a rivedermi quel che dicono dei giornali e della loro funzione gli scienziati della politica. I giornali sono mezzi in uso alla politica e contribuiscono alla propaganda dei partiti e dei governi, la stampa è un mezzo di lotta politica. Non sarebbe male che ognuno ogni tanto si ripassasse qualche manualetto. Tra Gaetano Mosca e Marco Travaglio io credo a Mosca. Tra Roberto Michels e Andrea Scanzi io credo a Michels. Tra Carl Schmitt e Paolo Mieli io credo a Schmitt. Bisognerebbe che i cittadini avessero l’antidoto giusto, una sorta di contraveleno contro la cosiddetta informazione. Per dirne una. Nel talk “Otto e Mezzo” de “La 7”, condotto da Lilli Gruber, la quale non manca mai di ricordare ai telespettatori che lei è di origini austroungariche – ma chi se ne frega! – tanto per distinguersi dagli italiani, ci sono sempre, quattro ospiti che partecipano al dibattito, regolarmente tre in favore dell’opposizione, uno in favore del governo, più la conduttrice che dirige l’orchestra antigovernativa. A sentirli tutte le sere te ne vai a letto convinto che la mattina dopo ti alzi col governo caduto, tanti sono stati i suoi fallimenti da loro denunciati. Così, a sentire i bardi governativi di Mediaset, te ne vai a dormire con quattro cuscini, convinto che il governo va a gonfie vele e che a schiattare di rabbia saranno i suoi nemici. Quasi sempre sono giornalisti che si confrontano, i quali dovrebbero garantire un minimo di obiettività, limitandosi a spiegare quanto i politici dicono e fanno, quel che accade in Italia e nel mondo, senza fini propagandistici. Il dover assistere, invece, ad un ruolo travisato, quello del giornalista, che non spiega ma perora cause pro o contro, e lo fa con più partecipazione emotiva del politico medesimo, francamente è un tradimento che non può che irritare il cittadino spettatore. Da quest’anno si è aggiunta una trasmissione equivoca. Che ci fa a Mediaset la sinistra Bianca Berlinguer con la sua trasmissione “È sempre carta bianca”? Verrebbe di rispondere con la battuta di Totò. Ma, per questa volta, soprassediamo.

lunedì 4 dicembre 2023

Atrocità e televisione

La televisione deve educare, non può limitarsi a divertire e a distrarre la gente, e se pure propone spettacoli di svago il fine degli stessi non può che essere educativo. Non può proporsi di rendere gli individui dei beoti. Vale per tutta la televisione, perfino per gli stacchi pubblicitari, se in qualche modo essi mancano di rispetto allo spettatore. Vale per internet, che ha trasferito la conoscenza dell’individuo dal cervello alla tasca, chiusa in pochi grammi di diavolerie elettroniche. Ognuno pensa di possedere lo scibile chiuso nel suo smartphone a portata di mano. Chi mai ci salverà da questi due “pericoli” della vita odierna? Accade che perfino i conduttori televisivi si trasformino in guitti e mischiano il messaggio serio con lo sberleffo. I primi a non essere creduti sono proprio loro, tradendo nella gestualità e nella mimica oltre che in quello che dicono la vacuità delle tesi che sostengono. E tutto questo perché? Per attrarre spettatori, per aumentare ascolti e pubblicità. Più spettatori ha una trasmissione e più sono i fruitori, gli acquirenti, i consumatori dei prodotti pubblicizzati. In questo eccellono le televisioni commerciali, che hanno monopolizzato quasi del tutto i talk politici e gli spettacoli trash. Ma neppure la Rai, che pure si muove in un’ottica diversa, dimostra di avere sempre rispetto per lo spettatore. Accade, per esempio, che mentre non ti sei del tutto ripreso dalle scene di guerra, di morte e di distruzione, provenienti dall’Ucraina a da Israele, che i Tg ti fanno vedere, vieni scaraventato nell’allegra brigata di Fiorello e compagni dello spot per “Viva Rai 2!”. Di punto in bianco ti trovi nel bel mezzo di una compagnia di burloni che, tra lazzi scherzi sfottò motteggi e autorisate, ti portano in un mondo di gaudenti balordi. Dove tu non vuoi proprio finire. A prescindere se le battute di Fiorello vanno in direzione di destra o di sinistra. Si dice: puoi cambiare canale. Ma intanto ti verrebbe voglia di cambiare epoca, se fosse mai possibile. Perché dobbiamo ridere? Che c’è da ridere? Perché distrarci, divertirci se tutt’intorno c’è il disastro? Siamo diventati tutti un popolo di irresponsabili burloni? Perché non dobbiamo pensare seriamente ai problemi che ci assillano? Marx – chi era costui? – diceva che la religione è l’oppio dei popoli. Con lo stesso metro di giudizio si può dire che Fiorello l’ha sostituita alla grande. Per favore, ridateci la religione! Ci immaginiamo quali danni subisce il nostro cervello, la nostra psiche, passando, sia pure per pochi secondi, da una condizione di sofferenza ad una di allegra balordaggine? Come dall’acqua calda all’acqua ghiacciata. C’è gente che di fronte alle disgrazie del mondo non vuole né confortarsi né rallegrarsi con altro. Come puoi volerti distrarre dopo aver appreso dell’ennesimo ammazzamento di una ragazza che proprio nel giorno dell’uccisione doveva discutere la tesi di laurea? La gente vuole riflettere. E invece sembra che la serietà sia diventato l’ottavo vizio capitale. Dunque, si consenta alla gente di piangere quando c’è da piangere e di ridere quando c’è da ridere. La televisione non lo consente di fare e ti sbatte da una parte all’altra senza nessun rispetto, facendoti perdere il senso delle cose, mettendoti sul sentiero del più becero nichilismo. Intanto l’informazione, per dovere di cronaca, non può non insistere sui soliti drammi che colpiscono l’individuo e la società. Di fronte ai quali il solito esperto ti ripete un mantra ormai vuoto come una bolla di sapone. Bisogna incominciare ad educare i ragazzi in famiglia e a scuola, come se in questi due “luoghi” sacri della crescita dell’individuo non si insegnasse da sempre il rispetto dell’altro! Come se famiglia e scuola non fossero già luoghi dove si esercitano da parte dei ragazzi le imprese più deprecabili, come pretendere in casa il soddisfacimento di ogni capriccio, come sparare a scuola agli insegnanti dopo averli insultati sul web, sui muri, di persona. Non si vuole ammettere che la colpa è dello Stato, ovvero delle sue classi dirigenti, che invece di preoccuparsi dei bisogni fondanti della convivenza civile assecondano mode per conquistare consenso, introducono leggi che vietano di intervenire ai genitori e agli educatori come converrebbe, favoriscono ogni tendenza a fare quel che ognuno vuole fare, ad essere quel che ognuno vuole essere. Non si è ancora capito che dove ognuno fa quel che vuole è giungla, vige la legge del più forte; e il più forte ha sempre prevalso sul più debole. La storia di Caino e Abele insegna che al più debole non basta avere dalla sua parte neppure Domineddio.