sabato 28 novembre 2020

Maradona lo comandava il diavolo

In nessuna lingua del mondo come in quella popolare trovi a volte le risposte più giuste e puntuali di fronte ad un fenomeno inspiegabile, naturale ma che naturale non sembra. Ce n’è una nel nostro dialetto che ora, nel caso di Maradona, calza a puntino. Lu cumannava u tiàulu (lo comandava il diavolo). In italiano non rende la stessa idea. Tutto quello che realizzava in campo e fuori era opera del diavolo, che di lui si serviva per entusiasmare e per irritare, per esaltare e per condannare, per innalzare al cielo e per sprofondare negli abissi. Era l’avatar del maligno. Chi ha detto che il diavolo suggerisce solo il male? Fa una cosa e l’altra, il male e il bene, con lo stesso spirito beffardo.

Con Maradona riusciva magnificamente. Quando il calciatore semina come coriandoli sei avversari in un percorso di cinquanta metri e finisce quasi per entrare in rete col pallone dopo aver beffato perfino il portiere è il diavolo in lui. Lo abbiamo visto tutti nella famosa finale tra Argentina e Inghilterra in Messico. Così come quando con la mano segna il gol che farà infuriare gli inglesi per la vita è ancora il diavolo che lo comanda, un diavolo argentino, che si prende la rivincita per la sconfitta militare delle Malvinas.

Lo ricordiamo ancora noi juventini quando in una punizione dal limite, a pochi metri di distanza dalla porta, con la barriera da superare in una famosa partita che vale lo scudetto, beffa il povero Zoff con una micidiale strafottente falciata al pallone fermo.

Ce ne sono tante di simili diavolerie sul campo operate dal diavolo tramite Maradona che è inutile star qui ad elencarle tutte; e, poi, le opere buone del diavolo sono belle se le vedi e dunque corriamo tutti a vedercele ogni tanto. 

Ma il diavolo non è lui se non fa anche il male; e il male lo fa in un modo altrettanto beffardo. Il Maradona degli ultimissimi tempi era una caricatura, qualcosa di grottesco, malfermo su quelle stesse gambe di tante incredibili imprese. Con Maradona si scapriccia e col male che gli fa fare a se stesso riesce perfino ad eguagliare il bene che gli aveva consentito, abbrutendolo in tutti i modi possibili: con la droga, con le donne, con l’alcool, con la malavita, con l’esaltazione di tutti i regimi populistici dell’America latina. Maradona andava con chiunque avesse il potere, specialmente quello diretto, violento, totalitario come in genere quello dei dittatori. A suo modo anche la camorra è un potere diretto e totalitario; e per questo entusiasmava quell’uomo, abituato a convivere col diavolo che aveva in corpo. Trascorrere una nottata in compagnia di potenti camorristi, fra belle donne e fiumi di cocaina, per lui, per il suo demone, valeva una partita di pallone vinta su poveri avversari annichiliti dalle sue imprese diaboliche, a volte su avversari degni del massimo rispetto, bravissimi ma umani. Oggi il termine populismo coi suoi derivati è di moda, è facile usarlo anche per Maradona. Ma così è. Egli è stato l’incarnazione del populismo più bello e chiassoso, più diretto e aggressivo.

Non si potrà mai stabilire se come calciatore è stato lui il più grande di tutti perché ogni confronto non regge, perché gli altri, pur immensi, non “godevano” dell’ispirazione e dell’aiuto del diavolo. Pelè resta per ora insuperato, ma Pelè non ha mai fatto, né in campo né fuori, cosa che possa minimamente far pensare al soprannaturale, all’incredibile. Sicuramente altri ne verranno – è il bello della storia – non tantissimi, ma capaci di far pensare che qualcosa di diabolico si nasconda nei loro piedi, nella loro testa o nelle loro…mani. Allora forse si potrà tentare un paragone. Inutile, peraltro, perché il diavolo, comunque si vesta, è sempre simile a se stesso e come Paganini non si ripete. Per ora a Maradona auguriamo pace e riposo, umanamente intesi.

sabato 21 novembre 2020

Donald Trump e l'incredibile America

 

A me Donald Trump non è mai piaciuto e faccio ancora oggi fatica a capire gli americani che lo elessero quattro anni fa e gli hanno dato settanta milioni di voti il 3 novembre scorso. Che, però, non gli sono bastati per essere rieletto. 

L’errore fondamentale di Trump, se di errore si può parlare, è che dopo aver diviso l’America in due parti ha parlato solo ad una, alla sua, lasciando intendere che avrebbe fatto un mazzo così all’altra. Biden, invece, ha parlato a tutti gli americani. Si potrebbe racchiudere così il carattere dominante di una campagna elettorale intensa ed aspra. 

Gli americani non li capisco per tante cose, la più incredibile delle quali è che giudici o sceriffi in alcuni Stati vengano eletti dai cittadini, come fossero dei politici. Come può un giudice essere giudice, interpretare e applicare la legge senza condizionamento alcuno se deve pensare a farsi eleggere? Ed altrettanto fare lo sceriffo? Chi deve stare al di sopra delle parti non può stare, per incominciare, incardinato nella propria. Sono delle assurdità. Come inconcepibile è una sanità pubblica che non garantisca assistenza all’intera cittadinanza. Parlo da un pulpito che non è di simpatie democratiche né tanto meno di sinistra. Ritengo che alcune situazioni non dovrebbero più essere valutate di destra o di sinistra, ma essere conquiste acquisite, dalle quali prescindere. Giudici e sceriffi non devono dipendere da un voto popolare e la sanità è un diritto universale. Specialmente se consideriamo che stiamo parlando di un grandissimo paese, il più ricco e potente del mondo, e di una consolidata liberaldemocrazia.

Di più. Trump ha sempre manifestato una sorta di infantilismo, tradito dal timbro della voce e dalla gestualità improbabile, con quelle due piccole mani che sfigurano davanti alla mole del suo corpo che senbrano muoversi come a voler proiettare delle ombre cinesi. Le sue iniziative di licenziare in tronco tanti suoi uomini, importanti figure istituzionali, e di sostituirli con altri, per un piccolo sgarbo o per un nonnulla che sgarbo o inefficienza a lui sia parso, dimostra che si comporta come un bambino capriccioso, che rompe il giocattolo che non gli piace più. Questo voglio! Questo non lo voglio! Il suo esercizio di potere non trova riscontro se non in alcuni despoti orientali di tanti e tanti secoli fa. Anche la sua ostinatezza a non voler riconoscere la sconfitta elettorale del 3 novembre rientra in questa sindrome.

Ma tutto questo rende di per sé grandi gli altri? Può farli preferire a lui, sicuramente, ma non può alterare in alcun modo il loro valore. La sua inadeguatezza, le sue stravaganze, non possono elevare i suoi competitors a dei geni, come sta accadendo ora a Joe Biden, il presidente eletto.

Incominciamo col dire che Trump è pur sempre un uomo di successo e se è arrivato dove è arrivato deve per forza avere dei talenti. E, come accade spesso agli uomini di talento, ci si mette anche in loro favore la fortuna, intesa come coincidenza di situazioni favorevoli del tutto indipendenti dai loro meriti. Se divenne presidente quattro anni fa è perché l’altra parte, quella che gli contendeva l’elezione, la democratica Hillary Clinton, secondo tanti osservatori e analisti politici, non era competitiva. La presidenza di Barack Obama aveva lasciato degli scontenti e dei guasti nella complessa e difficile società americana. Trump vinse nonostante avesse preso tre milioni di voti meno della Clinton, grazie ad un macchinoso sistema elettorale, che fra l’altro prevede il voto anticipato e quello per corrispondenza. Altra cosa difficile da capire! Così, se oggi Trump è stato battuto da un candidato di 78 anni, che, a vederlo, non mette certo di buon umore né ti fa nutrire grandi speranze, è perché si è mosso l’universo mondo delle fasce sociali deboli offese dalla presidenza Trump e dei poteri forti che di Trump non volevano più saperne. E’ stato un combinato in genere difficilmente realizzabile, che ha trovato nella circostanza il modo di realizzarsi e di infliggere al discusso presidente miliardario la sconfitta. Segno, questo, che Trump, se pur qualche cosa di positivo ha fatto in questi quattro anni, soprattutto in economia, come dicono, era per gli Stati Uniti d’America e per il mondo occidentale uno sproposito, del quale liberarsi costi quel che costi. C’è chi pensa che a fargli perdere le elezioni sia stata la pandemia da Covid 19. Probabilmente avrebbe perso lo stesso anche senza questa crisi, da lui gestita malissimo.   

Quel che lascia Trump, un paese diviso e lacerato, fa tremare le vene e i polsi al successore. Il quale, peraltro, a molti ammiccamenti buonisti è giunto di recente in funzione elettorale. Joe Biden, il “buono” che tanti neri e ispanici hanno votato, nel 1994 ebbe un ruolo importante nella stesura della legge Violent Crime Control approvata durante la presidenza Clinton quando allora era a capo della Commissione Giustizia del Senato, una legge che prevede pene pesantissime anche per reati minori, che in tutti questi anni ha mandato in galera milioni di americani per lo più neri.

Ci sono nelle promesse del democratico e cattolico Biden delle enormi incompatibilità. Una è veramente colossale. Se si auspica che si arrivi negli Usa ad una più diffusa giustizia sociale, che si metta fine o si attenui il razzismo, che si copra l’intera popolazione con la sanità, che si dia a tutti un posto di lavoro, allora è evidente che il Paese deve darsi una regolata interna, stabilire il perimetro entro cui questi obiettivi sono raggiungibili. Allora occorre chiudere i confini ai migranti, come già aveva iniziato a fare Clinton facendo costruire il muro per arginarli sul confine col Messico. Se si apre a tutti in nome dell’accoglienza o della fatalità delle migrazioni, è del tutto evidente che non si può garantire sempre tutto ad un “tutti” in continua crescita. Come nessun recipiente, per grande che sia, può accogliere tutta l’acqua di un rubinetto continuamente aperto così nessun paese al mondo può farsi invadere e nello stesso tempo dare a tutti la sistemazione voluta. Una cosa simile la può dire – si badi: dire! – solo Papa Francesco, che dice e basta, non può pensarlo e tanto meno dirlo un politico responsabile, un uomo di cultura, un cittadino con un minimo di discernimento critico.

Quanto all’altro problema che è stato ingigantito e che ha caratterizzato l’ultimo anno di presidenza Trump, ossia il razzismo, nello specifico la violenza dei poliziotti americani nei confronti della popolazione nera, è appena il caso di dire che tra i poliziotti ci sono anche molti neri e che tra le vittime ogni anno ci sono anche molti bianchi. Ma se muore un bianco per le violenze di un poliziotto non fa notizia e scalpore come fa quando a morire è un nero, perché in questo caso è razzismo, con tutto quello che consegue sul piano della propaganda. Che, come si sa, è l’anima della politica. 

domenica 15 novembre 2020

Conservatori, è la fine?

 

Quando un conservatore non ha più nulla da conservare, non intendo beni materiali, essendo stato tutto il suo patrimonio ideale sovvertito dagli uomini e dagli eventi, allora o se ne fa una ragione, elaborando il danno ricevuto come si elabora un lutto, o diventa un reazionario, nel vano tentativo di recuperare qualcosa. La qual cosa, in verità, è assai improbabile.

Dal secondo dopoguerra, in un crescendo sempre più tumultuoso, la cultura di destra, ovvero il conservatorismo spirituale, imperniata su alcuni capisaldi, stato-nazione-società, dio-patria-famiglia, legge-ordine-libertà, è stata sconfitta su tutto il fronte. Tanto è accaduto in tutto il mondo occidentale, complice l’Europa dell’Unione, con lievi variazioni da paese a paese, dovute più che altro alla resilienza di ciascun paese. In buona sostanza c’è stata una vera rivoluzione nel campo della bioetica e del costume: non più l’insieme ma l’individuo, chiunque esso sia, viene prima di tutto.

Tutte le battaglie di emancipazione individuale la sinistra le ha vinte. Si iniziò in Italia col divorzio e poi con l’aborto. La famiglia? Non c’è più. Il matrimonio è un’opzione cui la gente ricorre sempre di meno. Si preferisce convivere. E la convivenza, per forza di cose, sfuggita alle leggi ferree del matrimonio dello Stato e della Chiesa, è legalmente riconosciuta a tutti, perfino a maschi con maschi, femmine con femmine. Del resto, ognuno è libero di cambiare sesso come gli pare e piace, non solo per oggettive fisiologiche ragioni, laddove ci sono, ma per il solo piacere di essere altro. E queste, chiamiamole famiglie per intenderci, hanno tutti i diritti delle famiglie storiche, compreso il diritto di adottare e di allevare bambini. Un bambino può avere la mamma una e la mamma due, oppure il papà uno e il papà due, a seconda se la coppia è formata da due femmine o da due maschi. Nella logica papo-francescana ogni individuo, maschio femmina omosessuale transgender, ha il diritto di avere una famiglia; e non una famiglia come le istituzioni comandano ma come ognuno la intende. Stato e Chiesa, ognuno nella sua sfera di competenza, hanno lasciato fare quando non hanno addirittura favorito il processo eversivo.

Quanto alla procreazione, ormai il discorso del maschio e della femmina che si accoppiano per procreare è un fossile. Oggi la procreazione può avvenire in tantissimi modi, più o meno assistiti, compreso quello dell’utero in affitto, come se l’utero fosse un vaso in cui si impianta un seme per poi travasarlo; compresa la clonazione, come riprodurre un oggetto con una stampante 3D. Si va verso l’eugenetica, la progettazione di un figlio secondo gusti personali. Ogni individuo è libero di darsi la morte assistita ed ogni persona è libera di assistere chi sceglie di morire. L’individuo, insomma, è il dominus assoluto. Li chiamano genericamente diritti civili.

In tutto questo processo una parte di primissimo piano ce l’hanno la scienza e la tecnologia, senza le quali molte di queste “conquiste” non sarebbero materialmente possibili. Ma ad avere la parte più importante è stata la politica, fortemente intrisa di spirito libertario e di ideologia materialista, ovvero di una sorta di cristianesimo senza Cristo, basato su una lettura superficiale del Vangelo, non più testimonianza di una vicenda sacrificale salvifica ma fonte dove attingere ogni gratuita concessione edonistica. La Chiesa, specialmente col papato di Francesco, in cui sociologia e marxismo sono nascosti dalla foglia di fico del Vangelo, ha offerto a questo permissivismo legittimazione piena.

La politica, a sua volta, ha influenzato la giustizia, che, anche in difetto di una legge specifica, sentenzia secondo lo spirito del tempo, non in base ad una legge che c’è, come dovrebbe fare, ma in base ad una legge che si vorrebbe che ci fosse e che probabilmente ci sarà. A difesa di questo processo, che si può ritenere democraticamente eversivo, una serie di leggi vieta al cittadino di esprimere pareri difformi dal mainstream, con tutta una serie di minacce legali. Basta dire negro e non nero per essere accusato di razzismo. Basta avere idee diverse su alcune problematiche storiografiche inerenti il nazismo e gli ebrei per essere accusato di negazionismo. La sigla Lgbt è come i fili dell’alta tensione: chi li tocca viene fulminato.   

Anche i confini della patria, termine ormai del tutto improprio, non hanno più la valenza di una volta e si tende a svilirli a mere indicazioni amministrative. Per cui chiunque giunga in Italia deve essere accolto, perfino chi, per esplicita ammissione è di una religione che per alcune questioni, non di poco conto, confligge con le leggi dello Stato ospitante. E’ notorio che l’Islam non si riconosce in alcune leggi dei paesi componenti l’Europa sia in materia di religione che di politica. Ma intanto l’Europa, a cui alcuni anni fa non furono riconosciute le radici cristiane, ospita milioni di musulmani ed altri ne accoglie ogni giorno.

In tutti questi anni ci sono stati tentativi da parte dei conservatori di opporsi o per impedire che certe trasformazioni passassero o che fossero meno radicali. Ci sono stati per questo fenomeni anche di opposizione forte, ma poi tutto è passato e l’esercizio quotidiano di queste trasformazioni ha conquistato progressivamente la società, certificando la sconfitta e la mortificazione dei conservatori.

La lezione che si trae è che opporsi a questo processo di trasformazione dell’uomo e della società in senso sempre più eversivo è inutile, e vale, quando accade, come riflesso condizionato ad un’offesa ricevuta. Come chi, ricevuto uno schiaffo, anche se si rende conto che chi glielo ha dato è più forte e potrebbe dargliene altri,  lì per lì reagisce lo stesso. I conservatori, di fronte all’ennesimo attacco eversivo, reagiscono creando nella società rimostranze e battaglie politiche, ma poi tutto si normalizza come accade ormai da più di settant’anni. Ricordiamo i referendum su divorzio e aborto.

In Italia, dal 2018 al 2019, in poco più di un anno, Matteo Salvini, capo della Lega e ministro degli Interni, si creò un consenso in Italia per la sua politica di respinzione dei migranti. Come è andata a finire? Che Salvini non è più ministro degli Interni e i migranti arrivano in Italia a migliaia e migliaia e la gente non se ne cura più. Non diversamente sta accadendo negli Stati Uniti d’America, dove Trump per quattro anni ha dato fiato a conservatori, sovranisti e primatisti, ed ora, perse le elezioni, lascia ai democratici di ristabilire il flusso delle concessioni a migranti, a chi vuole cancellare la storia del paese abbattendo monumenti e a tutta quell’umanità che in genere è favorita dalle politiche democraticamente eversive.

Di fronte al processo inarrestabile della storia i conservatori rischiano di essere cancellati, di ridursi ad una sorta di minoranza “religiosa”, con la speranza che le vengano riconosciuti gli stessi diritti riconosciuti a tutte le minoranze. A loro non resta  che svolgere un’opera di ferma testimonianza, in attesa che il processo di svuotamento dell’umanità giunga ad un punto oltre il quale per ragioni di sopravvivenza occorre ricominciare recuperando per primi quei valori universali di ordine e di disciplina indispensabili per ogni forma di costruzione o di ricostruzione. 

E i conservatori di beni materiali? Essi hanno capito che per ben conservare i loro beni e anzi moltiplicarli devono schierarsi coi progressisti, con gli avversari del conservatorismo. Ne va della bottega e, come ognuno sa, questa per un conservatore di beni materiali viene prima di qualunque altra cosa.

lunedì 9 novembre 2020

Il Movimento femminile di Azione Cattolica a Casarano 1929-1969

 

Un libro di storia è il punto d’arrivo di una ricerca, a volte perseguita intenzionalmente, a volte per così dire “trovata”, sempre però partendo da un’affidabile base documentaria. Capita a tutti gli storici di seguire questo duplice percorso. Luigi Marrella è uno storico di Casarano ormai di provata esperienza nel mondo delle “piccole cose di grande importanza”. Ben noti sono i suoi lavori sui materiali scolastici durante il regime fascista, dai quaderni ai diari, agli oggetti più minuti, a cui lo storico ha conferito dignità storiografica riconosciuta ai più alti livelli. Parimenti le tematiche cittadine, dalle quali egli parte per ricondurle nel più vasto fenomeno culturale e sociale di riferimento. Si tratti dell’inaugurazione del Monumento ai Caduti o dell’iniziativa di aiutare i terremotati di Reggio e Messina del 1908, della vita e delle opere di poeti e artisti locali (Adele Lupo, Antonio Natale, Quintino Toma) o del centenario di una Unione Cooperativa di Consumo, lo storico parte sempre dall’evento per allargare lo sguardo ad un contesto assai più ampio, con annotazioni critiche che segnano momenti particolari del processo conoscitivo della propria città ed offrono spunti di riflessione e input per nuove ricerche. Il suo è un percorso che salda le cose piccole di paese alle cose grandi della nazione.  

Nel suo ultimo lavoro “Il Movimento Femminile di Azione Cattolica nella comunità di S. Domenico in Casarano (1929-1969)”, che s’inserisce al n. 15 della collana da lui fondata e diretta, “Quaderni di Kèfalas e Acindino”, Manduria, Barbieri Edizioni, 2020, pp. 270, parte da una serie di quaderni in cui sono raccolti i verbali delle adunanze della Gioventù Femminile e dell’Unione Donne dell’Azione Cattolica della comunità parrocchiale di S. Domenico in Casarano nel quarantennio 1929-1969. Intento dichiarato dello storico è di vedere, attraverso la loro analisi, quanto e come questa micro e periferica esperienza socioreligiosa abbia recepito dalla chiesa nazionale e quanto a sua volta abbia inciso nella maturazione della società nel suo insieme, della donna in particolare, come individuo e genere, e della coscienza democratica del paese. Si consideri che il periodo in esame abbraccia fatti e fenomeni tra i più importanti del ‘900, a partire proprio dal 1929, anno del Concordato tra Stato e Chiesa, il regime fascista, la seconda guerra mondiale, il dopoguerra e la ricostruzione del Paese su basi democratiche, il Concilio Vaticano II. In compagnia di questo nucleo operativo, il gruppo donne cattoliche, è possibile vedere come a Casarano si vissero periodi di cambiamenti epocali e come le donne si adeguarono o resistettero ai condizionamenti. Rapporti col regime, per esempio; comportamenti e impegni nel corso della guerra; partecipazione alle elezioni per la prima volta delle donne nel 1946 e alle successive; la “rivoluzione” conciliare nell’ambito della religiosità. Sono tutte tematiche che costituiscono materia di discussione continua a ben altri livelli, puntualmente contestualizzati da Marrella in apertura. 

I materiali di cui si è servito, conservati nell’Archivio Parrocchiale di S. Domenico, costituiscono un fondo che si compone di due registri e di sessanta quaderni, in gran parte di verbali, ma anche di appunti e di relazioni, che il parroco don Antonio Schito gli ha messo a disposizione dopo averglieli fatti vedere “con la segreta speranza – dice Marrella – che scattasse in me la molla dell’interesse”, senza tuttavia chiedergli nulla.

Marrella cerca in quei verbali di individuare problematiche e proposte di quelle donne che ebbero in un’insegnante di scuola primaria, Giuseppina De Matteis, il “vero elemento trainante della comunità…autentica madre spirituale”, a cui è dedicato un intero capitolo (pp. 53-62). Una donna a cui si deve in gran parte anche la produzione dei materiali documentali di quell’esperienza, ovvero di quei verbali, in gran parte da lei stessa regolarmente e puntualmente redatti, che oggi ci consentono di conoscere momenti importanti della vita di quella comunità. Ci chiediamo quante altre esperienze sarebbero note al pubblico e agli storici se ci fossero state persone come la De Matteis con simili attenzioni metodologiche e organizzative. Quelle donne – dice lo storico – costituivano un “gruppo impegnato in un personale progetto di vita…a rendersi utile alla comunità sociale…ad operare secondo il dettato evangelico, al fine di costruire gradualmente, a piccoli passi, una società autenticamente cristiana”. I tempi non erano facili. Si trattava di dover “affrontare sacrifici, a sopportare talvolta persino lo scherno”. Le donne, a quei tempi, erano considerate nella loro esposizione pubblica come delle intruse e, benché il regime fascista le avesse anche mobilitate e in un certo senso emancipate, molte erano restie. In alcune riflessioni personali, all’interno della verbalizzazione, la De Matteis annota a volte lo scontento per l’insufficiente impegno delle stesse. “Per ogni attività si resta da parte – si legge in un verbale –, si assiste a questo sonno profondo che ha preso l’Associazione”.

Il volume, riccamente illustrato – costante cifra dei lavori di Marrella – comprende un’appendice documentaria, con testi e documenti che completano il quadro storiografico di uno dei più complessi e ricchi periodi del passato ormai meno recente di Casarano.

sabato 7 novembre 2020

Convivere con il Covid, ma alle sue condizioni

 

Col Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (Dpcm) del 2 novembre, il 13° dall’inizio dell’epidemia, si è certificato che col Covid 19 non è possibile convivere; o per lo meno si può, ma come piace a lui, non come piacerebbe a noi. Si pensava che sarebbero bastate le mascherine, il distanziamento, il gel e tutte le precauzioni suggerite. Non è così. Il virus è troppo invadente, diffusivo, fagocitante. Se gli dai una mano, ti prende il braccio e poi pian piano il resto. La metafora spiega la ragione per la quale politici ed esperti, dopo aver assicurato per mesi e mesi che non si sarebbe mai giunti ad un altro confinamento, per intenderci lockdown, puntuali invece lo hanno decretato, sono stati costretti a decretarlo. Come si è giunti a tanto, però, non viene detto. Solo colpa del virus o ci sono altre colpe da addebitare? La risposta è sottintesa, per pudore, per non dire che durante i mesi estivi si è lasciato vivere tutti alla menefotto, mentre il governo centrale e i governatori delle regioni nulla hanno fatto, con qualche eccezione, per affrontare la seconda ondata. Di colpe dunque da ripartire ce n’è che ce n’è. I responsabili della cosa pubblica hanno fatto i conti senza l’oste? Non lo si può neppure dire quando si ha a che fare con persone che non sanno vivere che alla giornata. Non sanno prevedere, pianificare, organizzare. All’oste, nel nostro paese, non si pensa neppure o si spera che muoia mentre si sbafa.

Le elezioni regionali di settembre segnano da questo punto di vista uno spartiacque di umore popolare. Dove si è votato, i governatori uscenti sono stati arcipremiati (Zaia, Toti, De Luca, Emiliano), caterve di voti, proprio per la loro politica del laissez faire, per la quale gli elettori si sono dimostrati riconoscenti. Se invece di votare a settembre si fosse votato in questi giorni, fra ottobre e novembre, ci sarebbe da scommettere che gli stessi non se la sarebbero cavata allo stesso modo. Le proteste di piazza di Napoli, di Milano, di Torino, di Firenze, di Palermo e di tante altre città dimostrano che la gente è nera per l’insipienza del governo che, come nulla fosse, ha scaricato sul paese, sulla gente, le conseguenze delle sue tristi incapacità. Il che non esime da responsabilità anche quei cittadini che si sono abbandonati a feste e festini.

Questo secondo confinamento darà il colpo di grazia all’economia, travolgerà molti operatori, e metterà in crisi settori importanti del lavoro e dell’arte; farà diminuire il Pil e aumentare il debito pubblico. I ristori, se pure ci saranno, non potranno mai risarcire convenientemente produttori e commercianti per quello che perdono. Non è solo questione di cifre. Per non parlare della scuola, per la quale si fa finta di credere alla bontà della didattica a distanza. Roba da ridere! Come se il processo educativo di un bambino o di un giovane fosse fatto di messaggi frammentati e per di più ricevuti male in un rapporto di solitudine e lontananza. Ci saranno a breve i diplomati e i laureati del tempo del Covid, come negli anni Quaranta del secolo scorso ci furono i diplomati e i laureati del tempo di guerra.

Il Paese è stato diviso in tre zone, gialla arancione rossa, che nulla hanno a che fare con la tradizionale suddivisione geografica, Nord Centro Sud. Si parla di 21 parametri con cui il governo ha stabilito se una regione era da zona gialla (regione a rischio moderato) o arancione (regione con elevato livello di rischio) o rossa (regione con gravi criticità di rischio). Ma se si capisce perfettamente la distinzione dettata dal rischio contagio, indice di trasmissione, ricettività degli ospedali, ecc., si capisce di meno o non si capisce affatto come ciascuna regione sia stata compresa nella zona di “caratterizzazione”, per i tanti criteri inclusivi o esclusivi. Per questi parametri può star dentro, per questi altri resta di fuori! Ma il di più, come si dice, è del maligno. Succede sempre così: quando si vuole sottilizzare troppo si nasconde sempre la magagna. Tanto era valso fare un lockdown per tutti, senza fare i soliti figli e figliastri.

Negli ultimi quindici giorni precedenti il Dpcm, c’erano regioni, come Campania, Lazio e Toscana, che erano fra le più indiziate di confinamento, dunque zona rossa, in base proprio alle criticità di rischio di contagio. Queste regioni si ritrovano inaspettatamente in zona gialla, la meno sacrificata dalle restrizioni. Di qui le proteste e le lamentele dei vari governatori delle regioni in zona arancione (Puglia e Sicilia) e in zona rossa (Lombardia, Piemonte, Valle D’Aosta, Calabria). Il pugliese Emiliano ha taciuto, ma il siciliano Musumeci è arrabbiatissimo.

Ma paradossalmente chi dovrebbe gioire per essere stato più garantito da rischi contagio grazie alle imposte restrizioni si lamenta di più. Non si percepisce ancora correttamente la pericolosità del virus, a nessun livello e si continua a considerarlo un male minore rispetto alla prospettiva di rimanere senza lavoro e senza reddito. Morire per morire, tanto vale morire di virus anziché di fame. A dirlo durante il primo lockdown fu proprio Renzi, interpretando il comune sentire popolare. Si ha l’impressione che alla gravità del virus e alla sua diffusione non si creda neppure tanto perfino ai più alti livelli. Ne sono prova i difformi pareri degli scienziati.

Questo secondo lockdown, in parte mascherato da diversi livelli di restrizioni – più alto il rischio di contagio più dure le restrizioni, come ha spiegato Conte – sicuramente influirà negativamente perfino sulla salute psichica delle persone, facendole ammalare di depressione o le renderà più cattive ed aggressive. Si spera solo, ma forse unicamente per non bere nell’amaro calice tutto d’un fiato, che la curva delle infezioni di qui a breve cali. Se così non dovesse essere – e nulla fa pensare che lo sia – dovremmo armarci tutti di pazienza e di coraggio e incamminarci nel tunnel di questi sei mesi di viaggio che ci restano di qui alla prossima primavera, consci tutti che se ne usciamo o non ne usciamo è merito o colpa anche dei nostri comportamenti singoli.    

domenica 1 novembre 2020

Perché un governo di unità nazionale no?

 

 

Disgraziati, sono stati dei disgraziati. Hanno avuto cinque mesi di tempo per preparare quanto era necessario per fare fronte alla seconda ondata di Covid. Ci riferiamo a quanti per tutta l’estate ci hanno detto che la seconda ondata era improbabile, ma che comunque era necessario non abbassare la guardia, mentre spiagge e discoteche erano piene quanto neppure negli anni precedenti lo erano state. E si poteva capire il perché. La gente usciva da tre mesi di confinamento, di chiusura, di proibizioni; e, come accade in casi simili, la libertà riconquistata non poteva che essere celebrata in maniera sfrontata, quasi di rivalsa di fronte alle costrizioni subite. E tutti si sono dati alla pazza gioia, perfino alcuni scienziati che hanno fatto passare, in lite coi loro colleghi Cassandre che non erano del loro parere, l’idea che il virus non esisteva più e che se pure esisteva non faceva più male. Sappiamo come funziona, lo conosciamo, lo teniamo sotto controllo. Così dicevano politici e scienziati. Non tutti, a dire il vero. Ma si sa, alla gente piace sempre di più l’ipotesi più comoda.

Ora allo sciogliersi della neve, come s’usa dire in un proverbio paesano, ecco la realtà. Il Covid è tornato e circola alla grande. Conseguenza è che tutti sono contro tutti. Né sorprende che alla partita si siano inseriti i rivoltosi, tra i più vari, con veri e propri moti di guerriglia urbana in varie città. Si è detto subito per delegittimarli che si è trattato di moti pilotati dalla camorra, dagli ultras di calcio, dai centri sociali, dai fascisti. Probabilmente è così. E’ da mettere in conto. Quando mai nelle insorgenze e nelle rivolte non c’è stata la presenza di criminali e profittatori? Il Sud Italia fu annesso anche con l’apporto della camorra. Che anche questa volta sia accaduto è normale. Ciò non toglie che alla base delle proteste ci siano ragioni sacrosante che interessano i cittadini più laboriosi, i commercianti, gli operatori delle più varie attività produttive e culturali, che con le restrizioni dei Dpcm praticamente devono chiudere bottega e precipitare nella fame più nera. E poi ci sono i poveri derelitti delle periferie urbane, che approfittano per dare addosso al potere e a chi sta bene.

Irrita soprattutto i cittadini il fatto che il governo adotti provvedimenti restrittivi ad alcune componenti sociali ed economiche, vedi tutto il mondo della ristorazione, dello sport e della cultura, dove il contagio se pur ci fosse sarebbe assai meno di tante altre parti, mentre non ha fatto e non fa nulla per evitare che gli assembramenti sui mezzi di trasporto diventino i luoghi del contagio più diffuso. Mezzi di trasporto sì, ma di Covid! I cittadini vanno convincendosi che le autorità governative, mentre nascondono le loro colpe e difendono le loro poltrone, infieriscono contro alcune categorie e scaricano le colpe sui soliti fascisti e centri sociali, camorristi e spacciatori.

Nel migliore dei casi dicono che in fondo da noi non accade nulla di diverso da quel che accade in tanti altri paesi europei, che anzi da noi la situazione è migliore. Beh, a parte che l’aver compagni al duol non scema affatto la pena, come si dice per autoconsolarsi, c’è che il governo non ha fatto nulla per affrontare il ritorno autunnale della pandemia. In un paese serio chi avrebbe dovuto provvedere e non ha provveduto quanto meno dovrebbe mettersi da parte o far sedere allo stesso tavolo del governo quell’opposizione tenuta testardamente lontana, come a difendere posizioni che vanno ben oltre il pubblico interesse e il pubblico bene.

Talchè la domanda che viene di porci è perché di fronte alla confusione, all’inefficienza, agli scontri tra politici prima ancora che tra manifestanti e forze dell’ordine, non si provvede a correggere la rotta: fare un governo di unità nazionale, con obiettivi e tempi precisi, per poi andare a nuove elezioni? Tutti sostengono che sarebbe necessario che maggioranza di governo e opposizione si mettessero d’accordo e cooperassero per il bene del paese. Ma, diciamo la verità, a chi interessa, politicamente parlando, che maggioranza e opposizione collaborino? A nessuno. Nel momento in cui maggioranza e opposizione collaborano ipso facto cessa la democrazia, il dibattito, la politica. Si resterebbe, invece, nella ratio politica se si unificassero le due parti in un unico soggetto politico: un governo di unità nazionale. Tutti avrebbero ragione di impegnarsi per il meglio e ad emergenza finita proporsi all’elettorato. Soluzioni del genere non sono mancate neppure nella storia italiana più recente, vedi il governo Monti, ideato e realizzato dal Presidente Napolitano.

Se tanto non accade ci deve essere una ragione. La ipotizziamo anche perché è talmente ovvia che il non farlo sarebbe come un’omissione dolosa. Chi oggi detiene il potere vuole conservarlo fino alla nuova elezione del Presidente della Repubblica, che per Pd & compagni è un obiettivo irrinunciabile, una sorta di linea del Piave. Sicché il paese paga le conseguenze nefaste della politica intesa come mors tua vita mea: il potere ce l’ho io e me lo tengo. Chi potrebbe intervenire e trovare una soluzione è il Presidente della Repubblica. Come si sa, esso nel nostro ordinamento ha un ruolo importantissimo, specialmente in determinate circostanze. Facciamo un esempio. Se nell’agosto del 2019, dopo la sortita di Salvini, comunque la si voglia considerare, il Presidente della Repubblica avesse privilegiato la situazione politica del paese, stravolta rispetto alle elezioni precedenti, invece di arroccarsi al rispetto formale della soluzione parlamentare e conservare una situazione non più rispondente alla realtà politica, non avrebbe commesso nulla di anormale, entrambe le scelte essendo nella dinamica politica corretta. Accade spesso che tra situazione formale e situazione sostanziale si creino degli scarti. Ecco, allora, quando e come il Presidente della Repubblica ha un forte potere di intervento. Ancora oggi, se partisse da lui, attraverso le vie costituzionalmente rispettate, l’iniziativa di favorire un governo di unità nazionale, di fronte alla grave emergenza Covid, nessuno potrebbe gridare allo scandalo. Del resto, una figura come quella del Presidente della Repubblica, super partes e fortemente tesa al bene del paese reale, se non ci fosse bisognerebbe crearla. Fuori da questa soluzione c’è l’inutile scontro fra maggioranza e opposizione, le quali si scaricano reciprocamente le responsabilità della mancata collaborazione e si rinfacciano, sapendo di mentire, atteggiamenti precostituiti.