domenica 25 aprile 2010

Fini, dalla successione all'alternativa

Che il re possa nascere con corona in testa, scettro in mano e manto sulle spalle, oggi come oggi, non lo crede più neppure il più sciocco dei bambini. Semmai oggi si è convinti del contrario, che il re non è mai vestito. Sicché, quando Gianfranco Fini, giovedì, 22 aprile, alla Direzione Nazionale del PdL, ha gridato che il re è nudo, che – fuor di metafora – Berlusconi non è il signore indiscusso del suo governo e del suo partito, compiacendosene più che per la scoperta per il fatto di poterlo gridare agli altri e di farlo apparire ridimensionato per il piacere degli avversari, non ha fatto una bella figura. Ha fatto pena. Perché Fini non era il cavalier servente del re, che ad un certo momento trovava il coraggio di ribellarsi, Fini era stato a sua volta un re. Noblesse lo obbligava ad avere un comportamento più dignitoso. Se non altro per il popolo che rappresentava, che aveva rappresentato; per la carica di Presidente della Camera che ancora rivestiva.
Fino a qualche tempo fa Fini, politicamente parlando, era un pari di Berlusconi e di Bossi; era il capo di un partito, dell’unico che era uscito da Tangentopoli con una reputazione di tutto rispetto. Aveva un potere contrattuale importante, poteva, simmetricamente, condizionare Forza Italia al pari della Lega. Era uno dei leader più stimati dagli italiani. Come gradimento, stando ai sondaggi, era preferito perfino a Berlusconi.
Perché ad un certo punto ha commesso l’errore di sciogliere An per confluire nel PdL, il vituperato partito del “predellino”, da lui salutato con ironia e disprezzo con la frase “siamo alle comiche finali”? Qualcuno in vena di saggezza popolare potrebbe dire che tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino. Fini aveva già sciolto il Msi, aveva abiurato ad un’infinità di altre importanti cose. An, in fondo, era l’ultima cosa che buttava dalla finestra in quella che era la notte di San Silvestro del suo passato. Fini s’avvicinava ancora al lardo, anche facendo inversioni ad u su strade politiche a senso unico.
Va bene la scelta bipolare. Ma non va affatto bene cercare un’identità nuova, un’improbabile destra moderna ed europea che in Italia è appannaggio della sinistra, lasciando valori e sensibilità della destra parte alla Lega, parte a Berlusconi e parte – sissignori! – all’IdV di Di Pietro. Il patrimonio ideale e politico del Msi-An è stato miseramente devoluto. Oggi dietro a Fini non c’è più nessuno; come contenitore è vuoto.
Non è vero che ministri e sottosegretari, parlamentari e presidenti di enti e di commissioni, una volta di An, non lo seguano per opportunismo; il fatto è che non lo segue più la base, che si sente tradita dai suoi continui “voltafaccia”, dalle sue continue pose di saggio, d’improbabile patriarca.
Ecco, sono due gli errori pedestri che ha commesso Fini. Il primo è stato quello di privarsi del partito, che lo rendeva forte all’interno della coalizione e competitivo nel paese. Ha detto: mi sono pentito di essere entrato nel PdL. Il secondo di passare dalla successione all’alternativa a Berlusconi, cercando una nuova identità per la destra allo scopo di differenziarsene fino all’assurdo di sposare tesi di chiara sensibilità di sinistra appiccicando sopra l’etichetta “destra moderna ed europea”. Come se ciò bastasse. Ingessato ma nello stesso tempo impennacchiato sulla cattedra della Presidenza della Camera, per due anni ha fatto il controcanto a Berlusconi; ma ha anche mortificato la sua parte politica, la cui sensibilità, che non può essere cambiata come si cambia una camicia, è chiaramente di destra, facendola passare per retriva, inadeguata, culturalmente inferiore.
Come si può essere d’accordo sulla facile e breve concessione della cittadinanza e del voto agli immigrati; sull’uso della pillola abortiva; sull’eutanasia; sulla procreazione assistita; sui matrimoni gay e via di questo passo continuando a dirsi di destra? Intendiamoci, si tratta di posizioni assolutamente legittime, degne del massimo rispetto, ma esse appartengono inequivocabilmente a culture e sensibilità di sinistra. Altre sono le sensibilità di destra, esse s’inscrivono in quel pensiero conservatore che può anche rivedere qualcosa ma non abiurare alle proprie radici: la famiglia, lo Stato sociale, l’identità nazionale, la legalità, l’ordine, la sicurezza, l’orgoglio di appartenenza, la tradizione, il dover essere nella vita. Valori, questi, che non sono inferiori o superiori ad altri; semplicemente sono propri di una visione della vita, che per dirla con una parola sono di destra.
Qualche anima generosa, votata alla cause perse, potrebbe anche oggi essere tentato di andare in soccorso di Fini, in nome di antiche appartenenze o soltanto perché in effetti le cose in Italia stanno prendendo una piega decisamente contraria ad una visione dello Stato, della Nazione e della Società quale la destra ha sempre avuto e coltivato. Ma si pone un problema insormontabile: dove va Fini? E soprattutto, quali altri giravolte potrebbe fare, costringendo chi lo segue a comportarsi come chi mettendosi in viaggio domanda le previsioni meteorologiche?
Gli avversari del governo, del centrodestra, i mass media – ognuno per proprio interesse – cercheranno nei prossimi giorni di creare nel paese una sorta di rivalità tra Berlusconi e Fini che di fatto non esiste o è irrilevante. Ma, si sa, siamo tutti dipendenti dal battage pubblicitario, propagandistico, mediatico, per cui si farà di Fini una sorta di Robin Hood, di eroe che si batte contro il mostro, contro il minotauro per liberare il paese. Questo lo renderà ancora più prigioniero della finzione mediatica, fino a quando non commetterà l’errore di superare il limite di sopportazione e verrà cacciato dal PdL. Allora non potrà dire come disse Mussolini quando fu espulso dal Partito socialista ai suoi ex compagni: “voi mi odiate perché mi amate ancora”. Mussolini è un’altra storia!

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domenica 18 aprile 2010

Il caso "Quotidiano": da Minicucci a Scamardella

Il problema dei problemi, la mamma di tutti problemi – come si ama dire oggi – della democrazia è come sorvegliare i sorveglianti. Se lo pose già Platone, che nella sua Repubblica asserì che i sorveglianti devono astenersi dal bere per non ubriacarsi ed avere essi stessi bisogno di essere sorvegliati. In maniera più caustica il problema se lo pose il poeta satirico latino Giovenale, che, in un passo della sua celeberrima sesta satira contro le donne dice: Pone seram, cohibe, sed quis custodiet ipsos custodes? Cauta est et ab illis incipit uxor, che letteralmente significa: “Metti la spranga, tienila costretta, ma chi sorveglierà i sorveglianti? La donna è astuta, comincerà da quelli.
La donna per noi è la metafora della politica; e, da quanto accaduto da un anno a questa parte, non solo la metafora. Essa ubriaca, mandando fradici i suoi sorveglianti, per dirla col filosofo Platone; li corromperà, per dirla col poeta satirico Giovenale.
Ora, chi sono in una democrazia i sorveglianti? Verrebbe di dire tutti, perché tutti dovrebbero essere sorvegliati e sorveglianti allo stesso tempo. In realtà non è così: i sorveglianti per eccellenza sono i magistrati e i giornalisti. Gli uni hanno per legge l’obbligo dell’azione penale. Gli altri hanno per compito l’obbligo di informare, commentare, giudicare secondo verità. Essi costantemente e istituzionalmente sorvegliano, gli uni per colpire chi non rispetta le leggi; gli altri per informare il pubblico su tutto, sul bello e sul brutto, sull’utile e sul dannoso, sul bene e sul male, per lasciargli la possibilità di farsi un’opinione. Ci sarebbero i sacerdoti, ma essi appartengono più alla Civitas dei che alla repubblica dei cittadini; si limitano a fare pratiche di sdoganamento per peccatori.
Lasciamo stare i magistrati, in questa sede; e parliamo dei giornalisti, che, invece, ci interessano pour cause. Non siamo giornalisti per professione; siamo pubblicisti, essendo altra la nostra professione, educatori per l’esattezza, ed operiamo nel campo dell’informazione, come per continuare il lavoro scolastico extra moenia. Lo facciamo con spirito magistralis. Siamo – come dire – un’anomalia nel campo del giornalismo, che pure è uno dei più compatti e solidali in Italia.
Dire che i giornali informano e basta significa non aver mai aperto un manualetto di politica. I giornali sono rubricati come strumenti di lotta politica. Certo informano. Ma come? E’ raro che di questo argomento se ne parli. Sono caduti tutti i tabù di questo mondo, tranne questo. Si gira attorno al ruolo degli intellettuali, si dicono cose bruttissime sul loro conto; ma dei giornali nessuno parla. Si capisce perché, essi sono come il latino primum vivere; sono il ramo su cui il rimondatore sale per il suo lavoro. Che fa il rimondatore, se la piglia col ramo d’appoggio?
Veniamo al punto. Qualche mese fa Giancarlo Minicucci, direttore da dieci anni del “Nuovo Quotidiano di Puglia” fu rimosso e al suo posto l’Editore, che è la famiglia Caltagirone da Roma, mandò Claudio Scamardella. Per la cronaca, ora Minicucci insieme con un’altra nostra vecchia conoscenza, Alessandro Barbano, è vice direttore del quotidiano romano “Il Messaggero”, di proprietà sempre dei Caltagirone, fra cui Azzurra, moglie di Casini, il leader dell’Udc. “Il Messaggero” e “Nuovo Quotidiano” sono l’accoppiata del prendi due e paghi uno del giornalismo nazionale. Naturalmente uno lo paghiamo noi, l’altro lo Stato munifico elargitore.
Minicucci, quando giunse a Lecce, trovò un giornale che aveva notevoli difficoltà proprio nel suo farsi. Non era male, ma ad un occhio esperto balzavano aspetti quasi artigianali, del “si fa quel che si può”, per intenderci; con gli abiti puliti e ordinati, ma rivoltati. Prima di lui c’era stato Giulio Mastroianni, il quale negli ultimi tempi era come se non ci fosse. Di fatto il giornale era nelle mani dei due vice: Alessandro Barbano e Adelmo Gaetani; tanto che si pensava che o uno o l’altro ne sarebbe diventato il direttore. Né l’uno né l’altro: arrivò Minicucci.
Questi, nel giro di dieci anni, restituì una forte identità al “Quotidiano”, forza e salute, facendo aumentare la tiratura a livelli mai conosciuti prima. Scriveva poco. Se ha scritto una ventina di editoriali in dieci anni saranno stati pure troppi. Ma era molto presente nel giornale. Con lui si ricompose e si rinsaldò la redazione, molto professionale nella cronaca sia cittadina che provinciale, sia ordinaria che politico-amministrativa. Ridusse lo spazio della cultura ad una sola pagina, privilegiando peraltro la letteratura e lo spettacolo, meno la saggistica e la storiografia. Qualcuno, evidentemente, gli aveva detto che qui una casa sì ed una no c’è uno storico o un poeta o tutt’e due le cose insieme. Consentì, tuttavia, un ampio e continuo dibattito politico agli esterni, sia della società politica sia della società civile, sia di destra che di sinistra. Interventi che trovavano nel “Periscopio” di Giacinto Urso il punto di equilibrio. Rispettava i notabili politici locali ma dimostrava di non temerli, tanto da entrare in rotta di collisione sia con Alfredo Mantovano che con Giovanni Pellegrino; e quando c’era da difendere il giornale e i suoi uomini non si tirava indietro.
Nessuno ha spiegato la ragione del cambio. Eppure si tratta di una questione molto importante. L’uomo, come animale, sarà pure ciò che mangia, per dirla con Feuerbach, ma come cittadino è ciò che legge. La lettura è la sua biada: corre, lavora, crea, resiste se si alimenta con una buona biada-lettura. I giornali producono lettura. Ecco perché di essi si dovrebbe parlare ogni giorno. Invece tutto si fa e si disfa nel silenzio più assoluto.
Qualcosa, però, sebbene non detta, traspare. Per prima cosa Scamardella esce sempre ogni domenica con un suo fondo, alla Scalfari di “Repubblica” per intenderci. E, come Scalfari, si propone come interlocutore dei politici. Dice loro come stanno le cose e come dovrebbero stare; cosa sarebbe opportuno fare e come si dovrebbero comportare. Egli sta cercando di dare un’identità politica precisa al “Quotidiano”, meno plurale sul piano partecipativo ma più efficace su quello politico. Ne ha perso il dibattito, che, in un ambiente povero di intelligenze e di coraggio, com’è il nostro attuale, è sempre fastidioso ai politici, pronti a impermalirsi e a minacciare. Il pensiero politico del “Quotidiano” – dice Scamardella, anzi non lo dice, ma lo fa capire – c’est moi. Ha poi ampliato gli interventi dei suoi redattori ai campi più diversi, impegnandoli di più, evidentemente per sottrarre spazio alla partecipazione esterna. Immutata la pagina culturale, sempre molto contenuta, anche se il nuovo direttore ha aperto spazi, prima riservati al dibattito politico, a vagabondaggi lirico-ricreativi.
E’ presto per dire se Scamardella farà meglio di Minicucci, in termini sia di qualità che di quantità (tiratura). Non è affatto presto, però, ipotizzare le ragioni del cambiamento, che si esauriscono per ora in un dibattito politico più sorvegliato, quasi inesistente, ma incanalato verso una direzione. Verso dove? La fine del “Quotidiano” bipartisan per una sorta di irenismo politico, per ora praticato piuttosto che teorizzato, porta a pensare che esclusi gli estremi, che in ogni caso fanno sempre risaltare le idee nella loro forza e nel loro colore, in uno spazio comunque ben delimitato, com’è quello politico, andar verso il centro, dove le forze si svigoriscono e si confondono e i colori s’ingrigiano, è quasi un obbligo.
Si capirebbe, se così fosse, che l’operazione Scamardella per Minicucci ha un obiettivo, che si può benissimo cercare nella formula usata dal “Quotidiano” del 13 aprile nell’annunciare la vittoria a Galatina dell’ex Msi-An, poi Io Sud, Giancarlo Coluccia: “Ha vinto il moderato Coluccia”. Forse non è così, ma sembra che Scamardella sia venuto a Lecce per farci diventare tutti “moderati”.

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domenica 11 aprile 2010

Democrazia alle pezze

Continuano a chiamarla democrazia. Ma della democrazia, ossia potere del popolo, non ha più nulla. Forse confondono il potere, la concreta partecipazione alla res publica, con la libertà di chiacchierare oziosamente. Si continua a votare, è vero. Ma del potere di voto vero non è rimasto che la liturgia. Il voto è vuoto. Niente più preferenza. Gli eletti, fino all’ultimo di essi, li decidono i vertici. Il cittadino ratifica la messinscena. I fenomeni dell’astensionismo crescente e dei vari grillismi e dipietrismi, che hanno ridotto la politica a risse e spettacoli da quartieri malfamati, sono conseguenze della degenerazione democratica.
Salutarono con entusiasmo, qualche anno fa, la morte delle ideologie, come se esse fossero state delle tare mentali, responsabili di tutti i misfatti di un secolo. E non pensarono che una lingua senza l’idea che la muova e che la guidi fa solo frinire come le cicale. Le ideologie sono le ali del pensiero; senza, si starnazza come fanno le galline nel cortile, al massimo per beccare nella propria stessa cacca.
Ma chi sono quelli che “continuano”, “confondono”, “salutarono”, “non pensarono”? I soliti innovativi, quelli che basta che una cosa sia diversa dalla precedente per andare in brodo di giùggiole. Quelli che frettolosamente mettono a confronto situazioni diseguali: negative reali con positive ipotetiche; come se si potesse confrontare il reale con l’immaginario. Dice l’innovativo: basta con questa pioggia; evviva il sole. Sa per certo – lo ha sperimentato – che la pioggia gli procura il raffreddore e i dolori reumatici, ma non immagina che col sole può prendere un’insolazione.
Si tratta di saper accettare e mediare. C’è un bellissimo romanzo dello scrittore sardo Salvatore Niffoi, “L’ultimo inverno”, in cui pioggia a non finire e siccità prolungata sono metafora della vanità umana in fatto di aspettative.
Quando entrarono in crisi i partiti e le ideologie che li animavano, questi signori inneggiarono ad una nuova libertà. Oggi sono ridotti alle pezze della democrazia. Infierivano contro i partiti, che avevano adulato fino al giorno prima, come tanti Tersite sul corpo esanime di Ettore. Oggi sono dei fazionari, dei tifosi, e chiamano bipartitismo il sistema politico attuale per illudersi del nuovo, mentre sulle due rive, come litiganti pronti alla zuffa, invocano cancri, malattie inguaribili, incidenti mortali ai politici della fazione avversa. Si curano così la frustrazione di fottuti.
Ovviamente ai livelli alti del dibattito politico-culturale c’è una diversa offerta di partecipazione. I grandi giornali hanno i loro editorialisti strapagati, che in qualche modo compensano il difetto di partecipazione della base. Sono professori d’università, saggisti, scrittori, che garantiscono un livello alto al dibattito; non sono quasi mai ascoltati, ma è indubbio che si fanno sentire, vengono citati, offrono spunti di discussione, qualche volta proposte e suggerimenti.
Ma, ai livelli più bassi, non c’è assolutamente nulla. Cittadini derubati, espropriati di tutto. C’è qualcuno che li rappresenti? I politici no di certo. I sindacati sono l’altra ruota del carro che non c’è. Dovrebbero essere i mezzi di comunicazione a svolgere un’azione di supplenza, di sussidiarietà popolare; ma questi sono nelle mani di capitalisti “lontani” che li usano strumentalmente per le loro aziende, sempre bisognose dell’appoggio dei politici per i loro affari. I direttori dei giornali sono i nuovi travet, dei Fantozzi che possono fare tutto tranne andare contro il proprio datore di lavoro e i suoi amici politici. Guai a sospettare di loro! Si ritengono come assunti in cielo, ma non contano nulla, tra editori finanzieri e politici finanziati. Sui “loro” giornali, infatti, continuano a tenere banco i politici, con periodiche interviste ed interventi diretti. Il dibattito è limitato, esclusivo.
Le tante piccole testate che circolano a scadenza più o meno mensile, tutte uguali, figlie di improvvisate cooperative, giocano a fare i giornali. In realtà dello schema della comunicazione non hanno che il mittente. Vivono di sovvenzionamenti pubblici, di pubblicità commerciale, il più delle volte di fame, e di propaganda politica in campagna elettorale. Si sono sostituite agli spazi pubblici di affissione, ai grandi striscioni degli anni Sessanta che andavano da una parte all’altra delle strade e alle auto con gli altoparlanti sopra. Le notizie di questo o quel paese, quando escono, sono abbondantemente scadute, già ampiamente trattate dai quotidiani maggiori. Non hanno finalità, non hanno un pubblico cui rivolgersi. Si autogiustificano.
E i cittadini? Niente! Fino a qualche tempo fa, forse retaggio della vecchia partitocrazia, si dava spazio a opinionisti di provate competenze e capacità. Non erano Sartori o Panebianco, Ricolfi o De Rita, Magris o Citati; ma non erano neppure i grafomani che vengono sprezzantemente considerati. Oggi non c’è più posto per loro. Essi, infatti, dovendo rappresentare il punto di vista dei cittadini o forse il proprio per personale civetteria di intellettuali, non hanno riguardi per i politici. Ma non avere riguardo per i politici è cosa gravissima. Qualcosa che somiglia al reato di lesa maestà di una volta.
Si è passati dal sessantottino “vietato vietare” al “vietato non vietare”. Si assiste all’assurda situazione di direttori di quotidiani che sono mandati dalla proprietà come una volta gli intendenti dai loro signori feudali per curare nei feudi più lontani le rendite, il più delle volte oziose.
Altrettanto fanno le emittenti televisive. Esse riservano spazio ed esposizione ai soliti politici, che se la cantano e se la suonano; mentre lasciano ai cittadini solo i circenses, nelle nuove versioni deamicisiane – qui nel leccese, ma non diversamente da altri luoghi – di “cuore amico” e di “Salento d’amare” e di altre amenità turistiche, tra pìzziche, tarante e sagre.
Si è passati dalla democrazia partecipativa e finalizzata alla democrazia dei canti e dei suoni, pezzente ma allegra.

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domenica 4 aprile 2010

Il karakiri della destra in Puglia

Una volta gli dei, per compassione, facevano uscire di mente quelli che erano destinati a perdersi; per evitar loro la consapevolezza della tragedia. Così deve essere stato per i responsabili della sconfitta del centrodestra in Puglia, i quali si sono comportati in maniera incredibilmente dissennata.
Dei a parte, in cui non crede più nessuno, era talmente scontato che il centrodestra di Rocco Palese avrebbe perso le Regionali in favore del centrosinistra di Nichi Vendola che a momenti veniva il sospetto che si cercasse proprio la sconfitta.
Non perché il medico di Acquarica del Capo fosse un personaggio piuttosto grigio, con l’aria del ragioniere, dall’eloquio poco spigliato, ma semplicemente perché i numeri parlavano chiaro. Ma come? Neppure unito il centrodestra era sicurissimo di vincere contro il centrosinistra, figurarsi sottraendogli un buon 9 %, formato dall’Udc e da Io Sud di Adriana Poli Bortone. Sì, il sospetto che c’era gente nel centrodestra che ad una vittoria con la Poli Bortone preferisse una sconfitta senza di lei è più che fondato. Et voilà, accontentati!
Non era stato messo in conto che la sconfitta, per le circostanze in cui sarebbe maturata, avrebbe aperto una gravissima crisi nello schieramento, dalla quale difficilmente si uscirà di qui a diversi anni. I responsabili? Sono stati i nuovi “signori” della politica, qualcuno più esposto come Raffaele Fitto, qualcun altro più defilato come Alfredo Mantovano; altri rampanti, che, dalla candidatura di Palese a Presidente, pensavano che avrebbero tratto maggiori chances di elezione. E lasciamo stare la caterva di avvelenati “missini”, che, in tutta la loro vita, non sono mai riusciti ad andare oltre l’astio e il livore per piccoli miserevoli risentimenti personali.
Berlusconi ha respinto, come di prammatica, le inutili dimissioni di Fitto, presentate, per atto dovuto, all’indomani della sconfitta. Ma Berlusconi che si comporta come un politico qualsiasi, come un fondo di magazzino doroteo, dà la misura di un mutamento in progress. Il vero Berlusconi le dimissioni a Fitto gliele avrebbe fatte firmare prima ancora dell’esito elettorale. Ma, al limite, avrebbe avuto ragione di dire: “caro Raffaele, d’accordo, la colpa è anche di altri, ma perché non hai fatto capire ai tuoi che senza l’unione del centrodestra si sarebbe perso? Non mi risulta che tu o altri abbiate minimamente preso in considerazione questa pacchiana evidenza. E se tu, personalmente, non te ne sei accorto, allora, riposati!”.
In verità le cose sono andate diversamente. Già all’indomani delle elezioni del 2008 Berlusconi aveva cercato di decantare la situazione in Puglia offrendo alla Poli Bortone un posto di ministro nel suo governo. Ma già fin d’allora fu messo il veto: Fini volle Ronchi a quel ministero e per gli equilibri geopolitici non c’era altro dopo il sottosegretariato agli Interni a Mantovano. Sicché le responsabilità di Fitto, dimissioni o non dimissioni, restano come un macigno sulla sua strada.
Certo, in questo disastro è difficile salvare qualcuno. Lo spettacolo offerto da Io Sud, per esempio, il movimento politico della Poli Bortone, non è stato davvero decoroso, non solo e non tanto per la problematicità delle prospettive politiche, quanto per la “fuga” di molti suoi rappresentanti. Sarebbe bastato che quanti avevano aderito alla Convention di Bari del 14 febbraio 2009, appena un anno prima, fossero rimasti al loro posto, allora altro che quattro per cento! Invece si sono defilati uno dopo l’altro quando hanno incominciato a temere che per la propria personalissima posizione non c’era nessuna sicurezza di successo e quello che poteva essere un risultato temuto per sondaggio è stata la premessa di una sconfitta certa.
Ora, di fronte allo sfacelo politico della destra in Puglia, occorre avviare un nuovo processo, le cui modalità e i cui esiti sono tutti da pensare e da scoprire. Gli sconfitti di oggi non avranno più la parte di protagonisti, questo è certo. Ma in assenza di uomini di un certo valore e di una certa credibilità si corre il rischio che vengano fuori dei berlusconini, soggetti dalle idee anarco-liberali, spregiudicati arrampicatori senza un minimo di cultura sociale, individualisti in cerca di affermazione, secondo il modello brianzolo.
Né in questo processo avranno presenza e ruolo uomini capaci di portare avanti quelle istanze sociali che furono già del Msi e che ancora oggi costituiscono i valori di un socialismo del bisogno e del merito da coniugare con gli interessi dello Stato e della Nazione. Nell’area politica “missina” o socialnazionale, davvero maledetta, sono stati buttati uno dopo l’altro tutti gli agganci ideologici ed ora si è come sospesi nel vuoto. Si è partiti con Mussolini e il Fascismo “male assoluto”, si è passati ad orpelli e coreografie del Ventennio – via simboli, via tutto – ma poi è toccato alla dottrina sociale e quel che è peggio a quelle sensibilità di giustizia, di correttezza, di legalità, di assistenzialità, che erano l’anima del partito, sola per cui si aveva rispetto anche per cose meno condivisibili. Tutto quel patrimonio di idee è stato lasciato alla sinistra. E chissà che a rimpinguare Vendola non abbiano concorso anche quei missini che a quelle idee di giustizia sociale erano sinceramente legati!
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