domenica 31 luglio 2011

Il Cardinal Martini e la questione etica

Il Cardinale Carlo Maria Martini, che era, alla morte di Giovanni Paolo II, uno dei papabili a succedergli, è intervenuto sul “Corriere della Sera” (31 luglio 2011) sulla questione dell’etica pubblica. Ha detto, come al solito, delle cose per certi versi scontate e per altre rivelatrici di un approccio alla vita pubblica piuttosto ambiguo. Ha detto, per esempio, che “Se tutti i politici si attenessero ai grandi principi etici, come quello del primato del bene comune insieme con il rispetto dovuto ad ogni persona, molte cose non succederebbero né sarebbero successe” (ovvio e scontato). Ha poi aggiunto: “…la Chiesa non ha come suo primo dovere quello di sostenere il comportamento morale degli uomini. Essa deve soprattutto proclamare il Vangelo, che ci dice che Dio accoglie tutti gli uomini, nessuno escluso. Essa deve proclamare il Vangelo della misericordia senza badare a chi ne approfitta per i suoi comodi. Essa fornisce quel tanto di più che ci vuole per fare dell’uomo onesto uno che si ispiri alla povertà di Gesù. Se uno non lascia (almeno interiormente) tutto ciò che possiede non può essere discepolo di Gesù” (ambiguo).
Lasciamo stare l’ovvio. Ci chiediamo, primo, perché la Chiesa non deve “sostenere il comportamento morale degli uomini…come suo primo dovere”? Secondo, perché si dice in premessa terrena che Dio, nella sua misericordia, accoglie tutti, cattivi e buoni, ladri ed onesti, assassini ed assassinati? Terzo, che significa lasciare, almeno interiormente, tutto ciò che si possiede per vivere da buon cristiano? E perché poi solo interiormente?
Con tutta l’umiltà e con tutto il rispetto, che si deve ad una personalità tra le più autorevoli di questa nostra poco esaltante contemporaneità, non possiamo dirci d’accordo.
Primo punto. La Chiesa è istituzione che opera sulla terra, è fatta di uomini e per gli uomini, dunque i comportamenti umani sono o dovrebbero essere il punto più importante della sua funzione. Non è il suo primo dovere, ma sarà il secondo, il terzo, il quarto o no? Se la Chiesa non si preoccupa di rendere gli uomini più buoni e più onesti, se non stabilisce un collegamento di premio o di pena coi comportamenti, incominciando proprio dalla terra, senza attese celesti, vuol dire che il suo compito è davvero svuotato. Non si può dire: buoni e cattivi saranno ugualmente accolti da Dio. O diciamolo pure, ma noi sulla terra non siamo Dio e abbiamo il compito di premiare i buoni e di punire i cattivi. Se a tanto la Chiesa non vuol provvedere vuol dire che è inadeguata a guidare gli uomini, che ha rinunciato a farlo in nome di generiche visioni, a causa di antistorici pentimenti, di una reductio dell’universalità, propria della Chiesa, ad una dimensione individuale, come se la Chiesa non fosse una grande istituzione, la civitas Dei sulla terra, ma una singola persona, che prega, si pente e si contrista. Ma la Chiesa non può pentirsi, pena la sua delegittimazione.
L’ambiguità più patente del ragionamento del Cardinal Martini è quell’invito al buon cristiano a rinunciare a tutto ciò che possiede, almeno interiormente. E che significa? Francesco d’Assisi non lo fece “almeno interiormente”. La rinuncia deve essere totale o non è. Sulla terra contano i comportamenti, le azioni. Non contano le intenzioni nascoste nel proprio animo. Non si può pensare una cosa e farne un’altra. Vorrei vedere un imprenditore, che ha a carico centinaia o migliaia di famiglie, che contribuisce alla vita economica del Paese, rinunciare interiormente a tutto ciò che ha. Tutto ciò che ha è frutto di intenzioni, di pensieri, di ambizioni. Non si può rinunciare al mondo mentre si è sul mondo. Ci sono paesi europei, dove politici e imprenditori sono di gran lunga più cristiani degli italiani, perché nel loro credo, spesso protestante, puritano o calvinista, legano le proprie azioni al successo del loro essere uomini pubblici e questo successo lo legano alla loro destinazione finale. La galera, tanto per capirci, o il fallimento sono già prove di insuccesso e dunque di perdizione. La gratificazione sociale, l’ingrandimento e l’arricchimento dell’azienda, costituiscono il successo, che è prova terrena di salvazione. E' su questa dicotomia, perdizione-salvazione, che si pone Dio.
Poco conta se queste credenze siano vere o false, frutto di timori o di speranze; quello che conta è che c’è gente che ci crede e coerentemente agisce ed opera. Sapere che alle proprie azioni, qualunque esse siano, non segue un premio o una pena è sul piano politico e sociale devastante.
Il Cardinal Martini insiste sul Vangelo, ma il Vangelo, inteso come lui lo intende, non è una guida verso Dio, dato che a Dio giungono tutti, con o senza Vangelo. Il Vangelo va osservato per come e per quel che serve sulla terra. Gli uomini, come diceva Kant la legge la devono avere dentro per osservarla; ma se dentro non ce l’hanno, allora è necessario che lo stato gliela fornisca dall’esterno, con tutti gli annessi e i connessi.

martedì 26 luglio 2011

Fini, il suicida parlante, si reincarna nel marchese del grillo

A nome del Terzo Polo – ha detto – propongo che si faccia un governo con tutte le opposizioni più la Lega, con la presidenza del consiglio da affidare a Maroni. Così parlò Fini. Sissignori, proprio lui: il suicida. Penosa sorte quella dei morti che vagano tra i vivi perché non hanno ancora trovato sepoltura. Retaggio classico. Con quanta pietas ne parla Virgilio! Con quanta pietas ne parliamo!
In nome di antiche pietose consuetudini quel Fini va seppellito.
Ma fuori da immagini evocative c’è che Fini sbava di rientrare in gioco. Nella sua fregoliana genialità spera di poterlo fare indifferentemente a sinistra come a destra; l’importante che non ci sia Berlusconi di mezzo. Al “che fai, me ne cacci?” ora vorrebbe aggiungere: vedi? son ritornato! Sarebbe il sogno della sua vita, il trionfo.
Ma la sua sortita, che una volta avrebbe avuto il sapore della balneazione, è caduta come una pietra in uno stagno, dove non ci sono neppure rane a gracidare. Neppure i suoi sodali, in nome dei quali dice di parlare, ci credono più di tanto. Spallucce a destra, a sinistra e al centro.
Certo, per uno abituato a cambiare idee come si cambiano i calzini, non fa specie sfregiarsi la faccia un’altra volta. Ormai il suo volto è solcato da tanti tagli che sembrano bocche spalancate. Ma come, non era lui che rimproverava a Berlusconi di essere succube della Lega? Non era lui che fino alla vigilia del suo fli-fli asseriva che lui era di destra, ma di una destra moderna ed europea? Ed ora, fa come l’eroe di Guido Gozzano, che sognava attrici e principesse e finiva nottetempo a farsi la servetta di casa.
E’ penoso che la politica italiana sia in mano a gentucola di nessun peso politico, arrampicatori ed arruffoni, a cui è andata fin troppo bene per fin troppi anni, tanto che si sono convinti che il popolo italiano è un popolo di coglioni, che seguono i loro pifferai a prescindere, come diceva il buon Totò. Certo, avere un partito, e poi un altro per ritrovarsi con un pugno di mosche, che peraltro volano via ad una ad una, dopo avergli solleticato la mano, non dev’essere una gran bella condizione. Essere stato un leader, un vice presidente del consiglio e ministro degli esteri e presidente della camera e non avere più prospettive è da suicidio. Già, ma Fini si è già suicidato.
E allora? Niente-niente medita di fare il grande salto, si agita, si confonde tra i suoi vecchi competitors, con la speranza che nella confusione nessuno lo noti e che si ritrovi con loro dall’altra parte. Sarebbe la sua reincarnazione; poi sa Dio a chi dare i guai!
Ma il problema della politica italiana sono proprio i frègoli e i trasformisti, come lui, che sono tanti, che sono i più, che si cambiano d’abito per continuare ad esser se stessi. Dopo Berlusconi – quando ci sarà un dopo – ci deve essere un governo che nulla ha a che fare con l’attuale. Questo significa alternanza. Il resto, quello immaginato da Fini, è continuanza, becera e truffaldina, vergognosa convinzione che il popolo si governa ingannandolo. Perché il popolo, per i tanti marchesi del grillo di questo Paese, deve continuare a non essere un cazzo.

domenica 24 luglio 2011

Terrorismo cristiano: l'Europa dopo Oslo

92 vittime, quelle fino a questo momento contate, sono tante, tantissime. Verrebbe di pensare ad un ordigno micidiale posto in un luogo affollato chiuso, come per l’attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, che provocò 85 morti e 200 feriti. Invece l’ordigno, un’autobomba, ha provocato solo sette vittime; le altre ottantacinque sono cadute sotto le raffiche di mitra azionato da un solo uomo: il trentaduenne norvegese Anders Behring Breivik.
E’ accaduto ad Oslo (l’ordigno) e nell’isola di Utoya (la sparatoria), dove erano riuniti in campeggio i giovani laburisti, il pomeriggio di venerdì, 22 luglio.
Al di là del dato tecnico – è possibile ma improbabile che il terrorista abbia agito da solo – su cui indagheranno gli inquirenti, c’è che l’Europa si è svegliata improvvisamente da una comoda poltrona, quella della bella convivenza multietnica e multireligiosa. Che sia accaduto in un paese tranquillo e dallo status sociale privo di tensioni è assai significativo. La gente spara e uccide non solo per un posto di lavoro o per un pezzo di terra; ma anche per un credo religioso, a difesa di un’identità, per un’idea di appartenenza.
Che il terrorista sia stato solo sul piano operativo è da provare; ma che sul piano ideativo abbia avuto dei complici o abbia dei sodali ci sono pochi dubbi. In Norvegia, come in molti altri paesi dell’Europa del Nord, i movimenti e i gruppuscoli di un nazionalismo nuovo e vecchio insieme sono tanti e non sono affatto espressione di folklore o di fanatismo innocuo, da confinare o emarginare. Gli europei del Nord sono meno abituati degli europei del centro e meno ancora di noi mediterranei a convivere con gente di altro colore, di altra etnia, di altra cultura e di altra religione. Gli scandinavi non hanno peccati da piangere per il colonialismo.
Ancora una volta l’Europa non vuole fare i conti con se stessa o, tutta presa dagli affari, dimentica di avere una storia, non vuole più avere una faccia. Non ha voluto considerare le radici cristiane nella sua costituzione, ha abbattuto tutte le frontiere, ospita flussi immigratori senza limiti, si sta facendo invadere pacificamente da gente proveniente da ogni angolo della terra, addirittura contrabbandando per sicuro bene ciò che ad alcuni può apparire quanto meno foriero di problemi.
Detto che il terrorismo è un modo criminale per farsi le proprie ragioni, il gesto folle di chi non può fare altro che subire l’onta alle sue idee, è sbagliato non considerare che le ragioni ci sono. Se così non fosse gli ebrei non sarebbero ricorsi ieri al terrorismo quando rivendicavano la loro terra ai palestinesi, e questi non ricorrerebbero oggi al terrorismo per rivendicare la loro terra agli ebrei; e così per gli islamici e per quanti nella storia hanno perseguito giuste cause con metodi sbagliati.
Allora, di fronte alla novità del terrorismo cristiano, che in Norvegia si è prodotto contro un governo laburista reo di aver aperto il paese ad ogni accoglienza, è necessario che i governi europei non pensino solo all’euro, ma anche alle ragioni, rispettabilissime di chi certi progetti politici non gradisce. Il che non significa che si deve cedere al terrorismo, ma non si deve neppure insistere a politiche che il terrorismo ingenerano e producono. “Atroce e necessario” è stato definito dallo stesso autore il gesto compiuto. Dietro al giovane norvegese probabilmente ci sono altri che a tanto non arrivano e non arriverebbero, ma che al pari di lui non condividono le scelte del proprio governo e soprattutto condannano l’indifferenza o la strafottenza nei confronti di chi ha pur diritto ad avere le sue idee. Ricordiamo che in Norvegia un abitante su quattro non è norvegese.
E’ pur vero che chi governa ha la responsabilità di portare il proprio paese dove meglio gli aggrada, ma non può non tenere conto che a molti o a pochi altri suoi concittadini la meta può non piacere. Deve cambiare strategia politica? No, ma rispettare chi non condivide. Perché democrazia significa anche questo. In che cosa allora si differenzierebbe una democrazia da una dittatura, solo nella possibilità di cambiare un parlamento e un governo con libere elezioni? Importante, ma non sufficiente. I governi pur democratici non possono essere delle dittature a tempo.
Se un Paese ha dieci porte per aprire agli altri, piuttosto che aprirle tutte, ne potrebbe aprire alcune, e lasciar chiuse le altre a difesa o a rispetto di chi non è d’accordo. Non è un reato essere un conservatore e coltivare l’identità del proprio paese. Liquidare, poi, l’atto terroristico come un gesto di un folle sarebbe la peggiore delle risposte politiche. Ciò che accade può essere anche follia, ma per ciò stesso che è accaduto ha una sua ragione.

domenica 17 luglio 2011

Il relitto di Otranto un monumento? Meglio un monumento vero!

Il relitto della nave albanese “Kater I Rades”, affondata il venerdì santo del 1987, un monumento? Così pare, dopo che il sindaco di Otranto, Luciano Cariddi, ha accolto la richiesta della presidente di “Integra Onlus”, l’albanese Klodiana Cuka, di recuperare da Brindisi il relitto e di ergerlo a monumento ad Otranto, in memoria delle 108 vittime di quella tragedia. Com’è noto la corvetta della marina militare “Sibilla” speronò, nel tentativo di dissuadere l’imbarcazione albanese, carica di immigrati, dal proseguire la sua rotta verso l’Italia, affondandola. Era il periodo dell’immigrazione albanese massiccia nel nostro paese e non era ancora chiaro quale dovesse essere il comportamento delle autorità governative. Accoglienza o cannoneggiamento, come suggeriva la Lega? Si finì per scegliere una via di mezzo: la dissuasione; e fu la tragedia!
Ricordare, anche con un monumento, quel tragico episodio e le sue vittime, è un gesto nobilissimo; direi doveroso. Meno opportuno che lo si compia conservando il relitto, per tante ragioni.
Dico io, non c’è giorno che in queste nostre contrade non si denunci un bene artistico, una struttura museale, un monumento, dei reperti abbandonati nel degrado più assoluto e vergognoso. La casa di Carmelo Bene è in vendita: giusto allarme del mondo culturale. I suoi angeli di resina, corredo scenico della pièce “Hommelet for Hamlet”, trascurati in un sottoscala del Museo Castromediano, in balia degli agenti atmosferici: altra giusta lamentela. Il parco archeologico delle “Veneri” di Parabita chiuso e lasciato alle erbacce e alle stoppie. Strutture dell’archeologia industriale consegnate alla fatiscenza. Il faro della Palascìa a rischio di abbandono e di degrado. Non c’è comune che non abbia qualcosa da restaurare, recuperare, valorizzare. Tele Rama ha una rubrica all’uopo per segnalare e denunciare, una specie di “Striscia la notizia” nostrana. Gli enti pubblici ormai non hanno fondi. Non si capisce, a questo punto, chi debba occuparsene.
E dopo tutta questa giornaliera geremiade, ecco che c’inventiamo l’ennesima iniziativa di problematica gestibilità. Quel relitto, lasciato come monumento, pone diversi problemi. A parte i costi di sistemazione e manutenzione, sicuramente non sarebbe un bel vedere, darebbe l’idea di qualcosa di abbandonato, di un’incipiente discarica. Sarebbe sicuramente ricettacolo di animali e focolaio di infestazione, con problemi di igiene pubblica. Stupisce come il sindaco di Otranto, una città di mare, non si renda conto di questi aspetti.
Il tribunale ne aveva ordinato la demolizione, non già perché privo della sensibilità della signora Klodiana e del sindaco Cariddi, ma perché conscio delle difficoltà di gestione di un oggetto del genere.
Valore simbolico a parte, su cui non c’è chi non sia d’accordo, conservare quel rottame è veramente uno sproposito. Non sarebbe molto meglio realizzare un vero monumento a ricordo di quella tragedia, nello spirito e nello scenario di una delle più belle, pulite e ordinate cittadine del Salento, quale Otranto è? Non sarebbe una soluzione più urbana, meno costosa e di gran lunga più gestibile? Un monumento figurativo con caratteri che ricordassero perfino i nomi di quelle vittime?
Rifletta il Consiglio Comunale di Otranto. Potrebbe trovare la soluzione più giusta e conveniente. Se tanto non accadrà, prepariamoci di qui a qualche anno ad ascoltare l’ennesima denuncia di abbandono di un altro “monumento”, per non dire di peggio.

venerdì 15 luglio 2011

Vendola: tra amici e compagni si parla umano

Vendola ne ha fatta un’altra delle sue. Sembrerebbe che stessi parlando di un discolo. Non è così. Vendola lo si può condividere o meno, ma non si può non riconoscergli una straordinaria capacità di gestire i percorsi politici che intende fare. Non viene immediatamente capito, dai suoi o dagli altri, e più di uno è costretto a riconoscerlo. Accadrà la stessa cosa anche questa volta.
Quando ha detto che lui preferisce rivolgersi ad una persona chiamandola “amico” e non “compagno”, indipendentemente se della sua o di altra parte politica, ha come messo le mani su un nido di vespe nel bel mezzo di un meriggio assolato della controra pugliese. E difatti gli sono giunte punture su tutto il corpo. Sono sicuro che nei prossimi giorni da quelle stesse persone gli arriverà l’aglio come antidoto.
Perché lo ha fatto? E’ evidente che nella corsa alla leadership del suo schieramento vuole conquistare le più ampie zone umane ed elettorali della società. Per questo cerca di scomunistizzarsi quanto più gli è possibile, rivelandosi ancora una volta il più vivace fra tutti gli altri della partita, che aspirano al pari di lui, ma che di lui non hanno, neppure alla lontana, quell’appeal che ormai in tutta Italia gli è riconosciuto.
Alla domanda della Costamagna: ma per te, che cosa è il comunismo, Vendola ha risposto che è una cosa fantastica quando è una domanda, un incubo quando è una risposta (La Sette del 14 luglio). Allora, si capisce che non è più questione nominalistica: compagni o amici. E’ una questione un po’ più di sostanza. Insomma, tranquilli, italiani – sembra abbia voluto dire Nichi – il mio comunismo è sogno, affabulazione, fascino e suggestione, ma mi guarderò bene dal farlo diventare un incubo. Per lui si può essere comunisti e fare lo stesso una politica sociale per favorire i poveri e i deboli senza spaventare i forti e i ricchi anche in un contesto di democrazia capitalistica. E’ rivoluzionario. La gente sembra averlo capito, se in Puglia Vendola è riuscito a detronizzare Fitto e a Milano la Moratti, due autentiche dinastie. Il che significa che essere prioritariamente amici e non esclusivamente compagni è un arricchimento nei rapporti umani e sociali. Qualcosa di ovvio e scontato, a riflettere bene, ma che in un ambiente umano e politico, come quello della sinistra culturalmente più impantanata, ha un po’ spiazzato.
Vendola ha raccontato un aneddoto della sua vita. Non so se realmente accaduto; ma così vero che ci sarebbe da meravigliarsi se non lo fosse stato. Negli anni in cui essere compagno significava una cosa soltanto e cioè un comunista militante, teso esclusivamente alla salvaguardia degli interessi del partito, anni in cui in Russia alti esponenti finivano per autoaccusarsi di nefandezze mai compiute perché questo veniva loro richiesto dal partito, è del tutto credibile e direi normale che il compagno più adulto raccomandasse al compagno più giovane che nei rapporti politici non c’era posto per l’amicizia se non dopo la politica. La stessa storia del partito comunista italiano ha registrato nel corso del Novecento, primo e secondo, tantissimi episodi incredibilmente di priorità assoluta dell’aspetto politico su ogni altro aspetto, compreso quello amicale, famigliare o più genericamente umano. Una realtà che solo un grandissimo Guareschi riusciva ad esorcizzare coi suoi personaggi della Bassa.
Mi è capitato in diverse occasioni di vedere degli amici comunisti ricorrere ad incredibili menzogne pur di non mettersi contro i compagni o il partito. Non giudico; i tempi a volte comandano su tutto e tutti. Ma ritengo che la sinistra faccia bene oggi a recuperare la dimensione umana anche nelle faccende politiche. E che questo accada per merito di Nichi Vendola non può essere un caso.

domenica 10 luglio 2011

Presenza Taurisanese Luglio-Agosto 2011

“Presenza Taurisanese” – “Brogliaccio Salentino”
di Luglio-Agosto 2011

E’ stata consegnata al CPO di Lecce, venerdì, 8 luglio, “Presenza Taurisanese” di Luglio-Agosto 2011. In questi giorni le Poste dovrebbero distribuirla agli abbonati di tutta Italia. Dati i tempi di quintali di corrispondenza facilmente e ingiustificatamente mandati al macero, è opportuno che gli interessati si preoccupino di chiederla al loro postino.

I sommari di questo numero

Editoriale del Direttore: Se la Lega si …slega.

Cose di Taurisano

* Conversazione col Sindaco Lucio Di Seclì, a cura di Gigi Montonato.

* Esposto alla Direzione Centrale di Poste Italiane per ritardi e smarrimenti nella consegna di “Presenza” agli abbonati.

* Taurisano sott’occhio: Varata la Giunta Di Seclì tra malumori e polemiche, Referendum del 12-13 giugno: Taurisano in linea coi SI, La Sel attacca la maggioranza “Uniti per Taurisano” col manifesto “La coerenza non è acqua”, Doverosa correzione per Gianni De Pascalis.

* Carmelina Coda va in pensione di Marilena De Pietro.

* La Corale Taurisanese ha 35 anni.

* Il Preside Salvatore Erminio va in pensione.

* Pellegrinaggio dei parrocchiani “Santi Martiri Giovanni Battista e Maria Goretti” a Medjugorie di Romeo Erminio.

* Rosa Trullo vedova Romano ha compiuto cent’anni. Benedizione di Mons. Vito Angiuli.

* Le facce vincenti del calcio taurisanese: Totò Ciullo, Bruno Stifani, Totò Preite, Piero Orlando, Antonio Macagnino di Ro.S.

* Associazione Mc Taurus dei Taurisanesi in Svizzera.

* L’eclisse di luna del 15 giugno a Taurisano nascosta dalle nuvole.

* Una parola per volta: fatta.

* Necrologi per Ennio Botrugno e Grazia Cera.

* In memoriam per Gigi Branca.

* Lucia Ungaro ricorda il papà Antonio (Mondi).

B R O G L I A C C I O  S A L E N T I N O 

A proposito di…Poesie di Cosimo Corvaglia, Leandro Ghinelli, Elio Marra; Riviste: Spicilegia Sallentina 8/Maggio 2011, Massimo Cacciari a Lecce, Per Aldo de Bernart, A Gallipoli una lapide per Bonaventura mazzarella.

Agostino Nifo e la filosofia nella corte. Un classico del Cinquecento curato da Ennio De Bellis di Gigi Montonato.

Antonietta De Pace. Sulla biografia ed il falso ritratto di Federico Natali.

• Gallipoli, Sala consiliare intitolata a Bonaventura Mazzarella.

Rileggere Giuseppe Berto oggi: conoscere i suoi tempi per capire meglio i nostri di Cosimo Corvaglia.

Briganti e pellirosse di Gaetano Marabello, edito da Capone.

Il “Tramontana” di Rina Durante di Carlo Petrachi.

* Stroncature semiserie: Dalla “Tarantola di Borgagne” al Liborio Romano “barese”, ai Briganti di Gallipoli, passando per Soleto di Mario Cazzato.

Revoca della ragione per un parassita di Stato

I giudici d’appello hanno condannato la Fininvest di Silvio Berlusconi a risarcire la Cir di Carlo De Benedetti con 560 milioni di Euro, avendo riconosciuto che Berlusconi vinse il cosiddetto Lodo Mondadori per la corruzione di uno dei giudici. Una vicenda che dura da vent’anni e che avrà un’appendice in Cassazione.
A prima vista sembra un affare tra privati come ce ne sono tanti. Aziende che comprano, vendono, dividono, in un ambiente dove il più intelligente o il più scaltro, il più forte o il più spregiudicato, da che mondo è mondo, da che fiera e fiera, riesce a spuntarla sul suo concorrente. Ma così non è. Da quando ha avuto inizio l’affare Mondadori, in cui erano coinvolti Carlo De Benedetti ed Eugenio Scalfari, le cose sono molto cambiate.
Il duo De Benedetti-Scalfari, potenti boiari nell’Italia della Prima Repubblica, ha progressivamente ceduto il passo a Silvio Berlusconi, dominus della Seconda Repubblica. Non è più una questione privata, ancorché posta davanti al giudizio del Tribunale dello Stato, ma una contesa tra il tesserato nr. uno del Pd, il più grande partito dell’opposizione, e il tesserato nr. uno del PdL, il più grande partito di governo. Sugli spalti i tifosi sono agitati.
La magistratura, ieri, secondo lo stesso Berlinguer, capo del Pci, non era immune da “improvvisazioni…fretta…strumentalizzazioni” (Mixer del 27 aprile 1983), oggi è con la Costituzione della Repubblica una delle due Marie Vergini Assunte in Cielo. Ebbene, questa Madonna Assunta, ha dato ragione a De Benedetti, ad uno che appartiene alla Prima Repubblica catto-comunista come le ghiande alle querce e ai porci, condannando Berlusconi – finalmente! – a risarcire il “nemico politico” con una somma stratosferica; roba da schiantare una pur solida azienda.
Francamente non mi appassiona né m’intriga prendere la parte di uno dei due. Resto coerentemente legato agli interessi dello Stato e del Popolo, in cui non ricadono gli interessi dei due nostri rivali. Dico soltanto che sono di fronte De Benedetti, un parassita di Stato, uno che “inculacchiò” allo Stato macchine obsolete della Olivetti per svariati miliardi di lire ai tempi di Visentini e Malagodi, e un Berlusconi che per fas et nefas e al netto di bunga-bunga, ha creato un impero economico, che ha dato e dà allo Stato svariati miliardi di lire prima e di euro dopo, oltre che risolto diversi problemi sociali, come creazione di posti di lavoro, produzione, commercio, ricchezza e pil. Il confronto è emblematico: il profittatore di Stato, difeso dalle sinistre vecchie e nuove, e lo spregiudicato imprenditore privato, difeso dalle destre, anche qui vecchie e nuove.
Non c’è chi in Italia non arrossisca di fronte ad una sentenza del genere. Chi per rabbia e chi per vergogna. Dire, come fanno a destra, rossi di collera, che è una sentenza politica, a mio parere, è troppo riassuntivo e non considerano che in fondo la politica entra sia per l’uno che per l’altro. Ma dire, come fanno a sinistra, rossi di vergogna -  ma lo sono? - che le sentenze vanno rispettate è come ribadire un dogma: la magistratura è come la verginità della Madonna o l’infallibilità del Papa.
Fideistici gli uni e gli altri, ma mentre quelli di destra non si sono mai fatto un problema sui loro atti di fede, vera o strumentale, quelli di sinistra – pensiamo pour cause all’ateo Scalfari – si sono sempre dichiarati laici e razionalisti, ovviamente sinceri. Difendere, come fanno, De Benedetti può anche valere la pena, ma devono rendersi conto che in questo caso la pena è la revoca della ragione.
Un cittadino, che voglia identificarsi con lo Stato, invece, non può non inorridire di fronte ad un giudizio che premia un punteruolo rosso ai danni di uno che – ripeto di riffa e di raffa – tanto per stare nella metafora, le palme le produce e le cura. Il resto è tifo politico, come già s'era capito.

domenica 3 luglio 2011

Lecce: 29 quintali di corrispondenza al macero

Ecco dove va a finire la posta non recapitata: al macero! Le reti televisive nazionali e locali hanno informato, sabato 2 luglio, che la Guardia di Finanza leccese ha scoperto in un sito di raccolta di carta da macero tra Nardò e Galatone 29 quintali di corrispondenza. C’era di tutto: lettere, cartoline, stampe, bollette, cartelle.
Cinque funzionari di Poste Italiane sono indagati. Ma i vertici dell’azienda hanno tenuto a far sapere che l’operazione della Guardia di Finanza è stata possibile per il loro fattivo contributo. Il messaggio è chiaro: Poste Italiane funzionano così bene che appena si accorgono che qualcosa non va puniscono i loro funzionari. Ma, per favore!
Non viviamo nel paese di Alice, sappiamo perfettamente che la gestione di Poste Italiane da un po’ di anni è in mano ai privati, i quali dovrebbero garantire il servizio, secondo una leggenda metropolitana, meglio della gestione pubblica. Pubblico o privato, gestito da persone oneste e competenti, non dovrebbe esserci nessuna differenza, perché il servizio è quello che è e se espletato come si deve con attaccamento al lavoro e lealtà verso l’azienda dovrebbe avere la stessa qualità e gli stessi costi. Ma siamo in Italia, paese in cui il cialtronismo è una “virtù” perché viene furbescamente contrapposto al “vizio” di considerare l’ufficio alla latina (officium), ossia un dovere, che facilmente traligna in qualcosa di coattivo e perciò insopportabile.
Poste Italiane, prima che cedessero la gestione ai privati, avevano una pletora di impiegati ad ogni livello, tranne che in quello terminale dei portalettere, segmento lavorativo sempre sacrificato. Si segnalavano sì dei disservizi, ma sostanzialmente le cose funzionavano. La gestione dei privati, tesa ossessivamente al profitto, ha ridotto i dipendenti ad ogni livello. Man mano che dirigenti, impiegati e portalettere si mettono in pensione, vengono sostituiti all’interno: i portalettere diventano impiegati, gli impiegati dirigenti e via di seguito. Conclusione: ci sono settori delle Poste che funzionano bene, altri, invece, i più vicini all’utenza popolare, come la consegna della corrispondenza, che funzionano malissimo o non funzionano affatto.
I primi a non capire l’importanza del portalettere sono proprio i dirigenti di Poste Italiane, che assumono giovani senza nessun criterio, se non quello dell’occupazione, per licenziarli o trasferirli altrove dopo qualche mese. Questi giovani sono fortemente penalizzati. Si ritrovano in un paese dove non conoscono nessuno e devono recapitare la corrispondenza, che a volte non ha l’indirizzo correttamente indicato, dove molti cittadini non hanno il numero civico e se ce l’hanno a volte non corrisponde per mutata numerazione, molti non hanno la cassetta delle lettere. E tuttavia, dopo un po’ di tempo, questi sfortunati giovani riescono a prendere possesso della situazione e a distribuire la corrispondenza più o meno regolarmente. Ma ecco che vengono trasferiti. A questo aggiungasi che l’organico dei portalettere è sempre al di sotto delle necessità dell’ufficio. A volte addirittura per malattia o per altro qualcuno si assenta; e allora la zona resta priva di portalettere per l’intero periodo di assenza.
Aggiunta ad aggiunta: il boicottaggio passivo, che ormai è più di un sospetto. Alcuni dirigenti d’ufficio lasciano che si crei disagio pubblico per costringere Poste Italiane ad assumere personale più qualificato e in maniera stabile o solo per vendicarsi di un’azienda che non pensa che a spremere i suoi dipendenti.
In cosiffatta situazione, davvero Poste Italiane pensa di scaricare la colpa ai primi funzionari che incontra e punirli quali responsabili del fattaccio della corrispondenza al macero?
L’impressione che si ha è che Poste Italiane di cambiare strategia non ne vogliano sapere e riducono tutto ai soliti casi di “infedeltà” di alcuni loro funzionari. La chiamano proprio così: infedeltà. E intanto le cose continueranno ad andare come prima, fino al prossimo fattaccio.