domenica 24 luglio 2011

Terrorismo cristiano: l'Europa dopo Oslo

92 vittime, quelle fino a questo momento contate, sono tante, tantissime. Verrebbe di pensare ad un ordigno micidiale posto in un luogo affollato chiuso, come per l’attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, che provocò 85 morti e 200 feriti. Invece l’ordigno, un’autobomba, ha provocato solo sette vittime; le altre ottantacinque sono cadute sotto le raffiche di mitra azionato da un solo uomo: il trentaduenne norvegese Anders Behring Breivik.
E’ accaduto ad Oslo (l’ordigno) e nell’isola di Utoya (la sparatoria), dove erano riuniti in campeggio i giovani laburisti, il pomeriggio di venerdì, 22 luglio.
Al di là del dato tecnico – è possibile ma improbabile che il terrorista abbia agito da solo – su cui indagheranno gli inquirenti, c’è che l’Europa si è svegliata improvvisamente da una comoda poltrona, quella della bella convivenza multietnica e multireligiosa. Che sia accaduto in un paese tranquillo e dallo status sociale privo di tensioni è assai significativo. La gente spara e uccide non solo per un posto di lavoro o per un pezzo di terra; ma anche per un credo religioso, a difesa di un’identità, per un’idea di appartenenza.
Che il terrorista sia stato solo sul piano operativo è da provare; ma che sul piano ideativo abbia avuto dei complici o abbia dei sodali ci sono pochi dubbi. In Norvegia, come in molti altri paesi dell’Europa del Nord, i movimenti e i gruppuscoli di un nazionalismo nuovo e vecchio insieme sono tanti e non sono affatto espressione di folklore o di fanatismo innocuo, da confinare o emarginare. Gli europei del Nord sono meno abituati degli europei del centro e meno ancora di noi mediterranei a convivere con gente di altro colore, di altra etnia, di altra cultura e di altra religione. Gli scandinavi non hanno peccati da piangere per il colonialismo.
Ancora una volta l’Europa non vuole fare i conti con se stessa o, tutta presa dagli affari, dimentica di avere una storia, non vuole più avere una faccia. Non ha voluto considerare le radici cristiane nella sua costituzione, ha abbattuto tutte le frontiere, ospita flussi immigratori senza limiti, si sta facendo invadere pacificamente da gente proveniente da ogni angolo della terra, addirittura contrabbandando per sicuro bene ciò che ad alcuni può apparire quanto meno foriero di problemi.
Detto che il terrorismo è un modo criminale per farsi le proprie ragioni, il gesto folle di chi non può fare altro che subire l’onta alle sue idee, è sbagliato non considerare che le ragioni ci sono. Se così non fosse gli ebrei non sarebbero ricorsi ieri al terrorismo quando rivendicavano la loro terra ai palestinesi, e questi non ricorrerebbero oggi al terrorismo per rivendicare la loro terra agli ebrei; e così per gli islamici e per quanti nella storia hanno perseguito giuste cause con metodi sbagliati.
Allora, di fronte alla novità del terrorismo cristiano, che in Norvegia si è prodotto contro un governo laburista reo di aver aperto il paese ad ogni accoglienza, è necessario che i governi europei non pensino solo all’euro, ma anche alle ragioni, rispettabilissime di chi certi progetti politici non gradisce. Il che non significa che si deve cedere al terrorismo, ma non si deve neppure insistere a politiche che il terrorismo ingenerano e producono. “Atroce e necessario” è stato definito dallo stesso autore il gesto compiuto. Dietro al giovane norvegese probabilmente ci sono altri che a tanto non arrivano e non arriverebbero, ma che al pari di lui non condividono le scelte del proprio governo e soprattutto condannano l’indifferenza o la strafottenza nei confronti di chi ha pur diritto ad avere le sue idee. Ricordiamo che in Norvegia un abitante su quattro non è norvegese.
E’ pur vero che chi governa ha la responsabilità di portare il proprio paese dove meglio gli aggrada, ma non può non tenere conto che a molti o a pochi altri suoi concittadini la meta può non piacere. Deve cambiare strategia politica? No, ma rispettare chi non condivide. Perché democrazia significa anche questo. In che cosa allora si differenzierebbe una democrazia da una dittatura, solo nella possibilità di cambiare un parlamento e un governo con libere elezioni? Importante, ma non sufficiente. I governi pur democratici non possono essere delle dittature a tempo.
Se un Paese ha dieci porte per aprire agli altri, piuttosto che aprirle tutte, ne potrebbe aprire alcune, e lasciar chiuse le altre a difesa o a rispetto di chi non è d’accordo. Non è un reato essere un conservatore e coltivare l’identità del proprio paese. Liquidare, poi, l’atto terroristico come un gesto di un folle sarebbe la peggiore delle risposte politiche. Ciò che accade può essere anche follia, ma per ciò stesso che è accaduto ha una sua ragione.

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