giovedì 19 settembre 2019

Di Battista: Robin Hood o don Chisciotte?




Alessandro Di Battista ha postato su fb una dura filippica contro il Pd, che, a prescindere dalla condivisione o meno, in tutto o in parte, riapre la questione del Movimento 5 Stelle, del governo Conte bis e dell’uscita di Renzi dal Pd, dove il furbastro ha lasciato diversi suoi “pali”. Renzi si è comportato alla grande: ha messo in sicurezza Parlamento e Governo e poi ha fatto le parti: questo a me e questo a te al povero Zingaretti, che continua a dire di non aver capito.
Di Battista, invece, ha capito perfettamente. Ha detto che il Pd è il partito più ipocrita d’Europa, con cui mai e poi mai i grillini avrebbero dovuto allearsi. E’ un soggetto politico del quale non fidarsi. Considera questo partito il vero responsabile del degrado della politica italiana. Ricorda che il M5S è nato con una funzione storica, quella di annientare il sistema di cui il Pd è centrale. Non vuole destabilizzare – dice Di Battista – ma intanto mena botte da orbi. Che in lui ci sia anche, consapevolmente o inconsapevolmente, la delusione per le mancate elezioni anticipate, che gli avrebbero permesso di rientrare in Parlamento, è comprensibile. Ciò non sminuisce il suo attacco.
Quali conseguenze potrà avere nel Movimento questa autentica spedizione punitiva in perfetto stile squadristico, ancorché Di Battista sia un solitario cavaliere senza macchia e senza paura?
Domani, 20 settembre, i grillini voteranno sulla piattaforma Rousseau se essere o meno d’accordo sulla proposta del loro capo politico, Luigi Di Maio, neo ministro degli Esteri, di candidare in Umbria per il Presidente della Regione uno o una della società civile in concorso con quanti vorranno unirsi alla sua elezione (patto civico). In parole povere, la proposta di Di Maio è la stessa lanciata giorni fa da Zingaretti e in un primo momento respinta da Di Maio. Ora l’ha fatta sua con qualche variante e chiama i suoi ad esprimersi. Sorvoliamo sull’appropriazione indebita della proposta. Di Maio può sempre dire che non è la stessa, che quella di Zingaretti era politica e che la sua è civica. La sostanza non cambia: si cerca la fusione degli elettorati. Addio diversità grillina!
Perché è importante quanto ha detto Di Battista sul Pd? Per la sua novità? Nient’affatto! Di Battista dice queste cose da sempre. A dire il vero, queste cose le hanno sempre dette i grillini, tutti i grillini Ma ora tutto è cambiato. Nicola Morra, il presidente della Commissione Antimafia, ha ribadito che effettivamente il Pd è il partito più ipocrita, ma l’alleanza con lui l’hanno voluta i grillini. Essi dicono di non essere né di destra né di sinistra e che perciò possono stare con chi è di destra e con chi è di sinistra, indifferentemente. Con gli ipocriti pure? Evidentemente sì, purché i grillini facciano le cose che da sempre intendono fare. Ma intanto ieri i loro destri-sinistri hanno negato l’arresto del deputato Sozzani di Fi. E, allora, come la mettiamo? Se continua così, e non c’è davvero di che convincersi del contrario, i grillini finiranno per essere testimoni volontari del perpetuarsi della solita politica democristiana e postdemocristiana, di cui il Pd è simbolo e sostanza.
Lo stesso Grillo dovrà prendere atto che il Movimento non è proprio tutto votato a contrastare Salvini, che a fronte dei veri nemici, quelli del Pd, è uno col quale si è anche governato per quasi un anno e mezzo e realizzato cose nient’affatto scontate.
Grillo sarà costretto a riconoscere che Di Battista ha ragione, salvo che non abbia lui stesso decretato la fine del Movimento. Cosa non del tutto peregrina, se si pensa che il Movimento è nato da una sua arrabbiatura quando gli fu impedito di partecipare alle primarie del Pd un po’ di anni fa. Una specie di odio-amore il suo: odio per un po’ di anni finché non si è preso la rivincita ed oggi amore ritrovato. Lo scopo di impedire a Salvini di “impadronirsi” dell’Italia con “pieni poteri” è in realtà una colossale bufala, che non regge ad un minimo di raziocinio. Non dimentichiamo che Grillo più volte si è espresso contro l’immigrazione in termini salviniani e peggio. Ora, improvvisamente, è diventato evangelico. Non sarà che stia facendo di tutto per salvare il figlio dall’accusa di stupro?
Ora, se la sortita di Di Battista non è una voce nel deserto, domani i grillini dovrebbero sotterrare la proposta di Di Maio sotto una valanga di NO. Se invece passerà anche questa, come probabilmente accadrà, vuol dire che il Movimento non c’è più come la pancia dopo una cura dimagrante e che Di Battista è un incastigato ex missino, per eredità paterna, ancora convinto che in Italia le cose possano veramente cambiare. L’eterno destino di chi si crede un Robin Hood e finisce per essere un don Chisciotte!

mercoledì 18 settembre 2019

Lo Stato del Grillo...il Marchese




I sostenitori della democrazia parlamentare, dal suo pontefice massimo ai sacerdoti ai diaconi ai sagrestani ai chierichetti alle perpetue, dovrebbero spiegare agli italiani com’è possibile che un partito, in questo caso il Pd, perda le elezioni e poi si ritrovi al governo nazionale; e perfino ai massimi livelli delle istituzioni europee: presidenza del parlamento (Sassoli) e commissario per l’economia (Gentiloni). Un trionfo assoluto, neppure se avesse stravinto le elezioni.
Non si suoni il disco graffiato che in una democrazia parlamentare le maggioranze si fanno in Parlamento e finché è possibile farne una non si va a nuove elezioni. Questo l’abbiamo capito tutti. Non è il meccanismo che non si capisce, del resto abbastanza chiaro; quel che non si capisce è come si continui a considerare democratico un processo che porta al rovesciamento della ratio stessa della democrazia, secondo la quale chi vince governa, chi perde sta all’opposizione. Qui siamo in presenza di una situazione rovesciata: chi ha vinto è all’opposizione, chi ha perso governa. Se tanto ci dà tanto si è autorizzati a pensare che forse qualcosa in questa democrazia o negli uomini che la rappresentano non va. E forse sarebbe il caso di rivedere alcune cose dell’una e degli altri. Partiamo prima di tutto dalla comprensione del fenomeno.
In buona sostanza non è un partito che oggi è al governo, nonostante abbia perso le elezioni, mi riferisco al Pd, ma il cosiddetto establishment, cioè quell’insieme di élite che dominano nei vari settori del Paese, che quel partito ha egemonizzato e inglobato. Parimenti ha fatto l’establishment nel momento in cui, accorgendosi che il Pd non è più sufficiente, ha egemonizzato e inglobato il M5S, che pure era nato espressamente contro di lui e che nel 2013 aveva resistito alle sue lusinghe. Il Moloch ha avuto ancora una volta ragione dei suoi apprendisti stregoni che volevano scalzarlo.
L’establishment è il vero “partito dello Stato”, una sorta di partito “unico”, che per fas et nefas si perpetua al potere. Così Ernesto Galli della Loggia ce lo spiega in un suo articolo sul “Corriere della Sera” del 12 settembre, Il Paese dei trasformismi: “Sotto l’etichetta della «difesa della Costituzione» i Democratici sono diventati … il vero partito delle élite  della penisola, quello che ne raccoglie in misura maggiore il consenso elettorale (basta vedere come votano i quartieri bene delle grandi città). I Dem sono il partito dell’europeismo ortodosso e dell’atlantismo ufficiale, di tutte le magistrature, dell’alta burocrazia, della «Civiltà cattolica» e delle altre gerarchie della Chiesa, dei «mercati», del vasto stuolo dei professionisti della consulenza e degli incarichi pubblici ad personam, dei vertici dei sindacati, delle forze armate e degli apparati di sicurezza, nonché  dell’assoluta maggioranza di coloro che operano nel settore dell’elaborazione delle idee e del consenso (letterati di successo,  accademici con ambizioni più ampie, giornalisti, pubblicitari, gente del cinema, addetti di rango alla comunicazione di ogni tipo). In senso proprio può dirsi che oggi il Pd è per antonomasia il «partito dello Stato»”.  E ancora: “Ovviamente il «partito dello Stato» e dell’establishment non può che avere un rapporto particolare con il capo dello stesso”, che è “da molti anni il vero dominus incontrastato (anche perché di fatto incontrastabile) di tutte le dinamiche politiche oltre che in vari modi dell’accesso alle maggiori cariche pubbliche”.
Basterebbe questo per rendere chiaro quanto è successo con la formazione del secondo governo Conte. Ma c’è un’obiezione importante da fare: questo partito non vince le elezioni, vince il dopoelezioni. E se le vince vuol dire che usa tutti i suoi potentissimi strumenti per vanificare la volontà del popolo. Un fatto grave, tanto più grave quanto più si rifletta sul fatto che il vecchio establishment, quello che s’incardinava nella Democrazia cristiana, le elezioni le vinceva regolarmente. Questo non riesce a vincerle in alcun modo, né regolarmente né irregolarmente. Questo le perde sistematicamente e non se ne preoccupa, tanto al potere va lo stesso, provvede Moloch a mangiarsi gli avversari, ancorché vincenti. Essi, infatti, vengono volta per volta delegittimati in nome dell’antifascismo e messi da parte. Quando nell’establishment parlano della destra, oggi leghista e salviniana, ieri forzista e berlusconiana, l’altro ieri missina e almirantiana e domani pincopalloniana, gli spaventatori di professione non parlano mai come di una normale forza politica che si avvicenda nella conduzione del Paese, ma come di Annibale alle porte di Roma, dei Turchi alla marina di Otranto, come di una catastrofe imminente. Questi signori non escludono concettualmente la destra, ma non sono mai della destra che c’è. Ricordate Montanelli? Diceva: io sono di destra, ma non di questa riferendosi a  quella reale.
Nelle due circostanze in cui la destra nonostante tutto ha raggiunto il potere, con Berlusconi prima e con Salvini dopo, in verità i suoi leader si sono prestati all’indignazione di un’ampia parte del Paese, che, pur riconoscendosi nella loro politica, non ne condivideva i comportamenti personali. Ma questo, lungi dal costituire la sostanza di una politica, riguarda la facciata; dietro ci sono i problemi del Paese, che una classe politica di sinistra cerca di risolvere in un modo e una classe politica di destra cerca di risolverli in un altro. Nessuno che abbia votato Salvini vota Zingaretti per le sconcezze del Papeete o per lo sbaciucchiamento della Madonna. Allo stesso modo non si può delegittimare una parte politica per i comportamenti del suo leader e surrettiziamente stravolgere la volontà del popolo che l’ha eletta, sostituendola con la parte minoritaria e sconfitta del Paese. Non si può applicare la regola dell’uno vale uno ad ogni maggioranza parlamentare. Ci sono maggioranze e maggioranze. Quella che tiene insieme Pd e M5S è una maggioranza numerica, un imbroglio parlamentare pur di non fare elezioni anticipate, che avrebbero aperto le porte ai barbari, come li ha chiamati Grillo il comico. La verità è che aveva ragione un altro Grillo, il Marchese, il quale, rivolgendosi ad alcuni del popolo che non si spiegavano il diverso trattamento della giustizia nei loro confronti, disse: “io so’ io e voi non siete un cazzo”. Lo stesso tra il partito dello Stato e quello del Popolo!

lunedì 9 settembre 2019

Quanto conta il popolo in una democrazia parlamentare




La crisi di governo conclusasi col ritorno al potere del Pd, ormai da anni partito cardine dell’establishment, ha dimostrato quanto conti il popolo in una democrazia parlamentare. Giova ricordare quanto la Costituzione della Repubblica gli riconosce. All’art. 1 si legge che “La sovranità appartiene al popolo”, che è chiamato a votare ogni cinque anni per il rinnovo delle Camere (art. 60) salvo che non accada prima per lo scioglimento anticipato delle stesse (art. 88).
Qui per popolo si vuole indicare più che l’insieme di individui cittadini di uno stato la sua componente di base, le cui aspirazioni attivistiche danno vita al populismo.
Il popolo, dunque, vota, E’ così che esercita la sua sovranità. Quella sua componente populistica può vincere le elezioni, ma non necessariamente va al potere e neppure riesce ad influenzarlo. A volte la sua volontà è prevaricata dalla componente che si riconosce nell’assetto politico-istituzionale, tendenzialmente conservativa. Può accadere che l’establishment, temendo il voto anticipato del popolo, ne impedisce l’esercizio, risolvendo la crisi con una raccogliticcia maggioranza parlamentare. Che – sia detto per inciso – è formalmente corretta, ma quando non lo è altrettanto politicamente si risolve per un fraudolento escamotage antipopulistico.  
Come può accadere? In un sistema elettorale proporzionale o misto, come è oggi il nostro, è possibile che in Parlamento si formi un’alleanza di sconfitti che mette all’angolo chi, pur avendo vinto le elezioni, non è in grado di governare da solo.
La situazione politica italiana, nella circostanza del secondo governo Conte, è arrivata ad un punto limite: la legittimazione di ogni capriola politica pur di trovare i numeri in Parlamento e impedire di votare. Con l’aggravante che a questo si accompagni una politica in controtendenza con quanto indica e chiede il popolo. Oggi, attraverso i sondaggi, si può seguire l’elettorato nei suoi umori e nelle sue tendenze con attendibile riscontro.
Facciamo un esempio per capire. Una delle criticità più forti e insistenti, da qualche anno in qua, è la sicurezza, messa in discussione dall’immigrazione, ossia da quell’invasione lenta e costante che di qui ad una decina di anni potrebbe modificare in maniera decisiva l’Europa e i suoi singoli paesi.
L’establishment cerca di tener calmo il popolo con pietismi e bugie. Che volete che siano poche migliaia di poveri disgraziati a fronte di un paese di sessanta milioni di abitanti? Oppure con scene di toccante umanità, a volte confezionate ad arte: come si può rimanere insensibili di fronte a tanta sofferenza? Un problema biblico, epocale, viene così stemperato in figurine deamicisiane.
E’ chiaro a tutti che alla maggioranza del popolo italiano l’immigrazione non piace. Ha torto? Ha ragione? Non conta: è il popolo!
Populismo e antipopulismo, come si può arguire, non sono affatto ideologie, sono modi di essere e di sentire. Ed è sbagliato associarli sic et simpliciter alla destra o alla sinistra. Tant’è che il popolo si riconosce, a seconda dei tempi e delle problematiche in atto, ora nella destra, ora nella sinistra, ora nel qualunquismo. Nell’immediato dopoguerra il populismo, specialmente quello socialcomunista, era di sinistra; oggi in gran parte è di destra, mentre il M5s ha comportamenti qualunquistici.
I populisti ragionano così: c’è un problema, noi, popolo, indichiamo le nostre istanze dando il nostro voto ad una classe politica di cui ci fidiamo. Quando questa volontà viene disattesa, sia pure con pezze costituzionali e all’insegna di un presunto superiore fine, come può essere l’antifascismo, semplicemente si impedisce al popolo di esercitare il suo potere o la sua influenza.
Ora, è vero che la Costituzione dice al suo art. 1 che la sovranità del popolo va esercitata “nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ma questo non può giungere mai fino al paradosso di mistificarne l’assunto e di negarne la titolarità, trasferendola dal popolo ad una rappresentanza che del popolo non ha nessuna considerazione. La forma non può mai prevaricare la sostanza; se accade si pone un grave fatto politico. Quando Romano Prodi, campione dell’establishment e principe dell’antipopulismo, dice “una legge elettorale non è fatta per fotografare il Paese, ma per dargli una maggioranza di governo possibilmente stabile” (Corsera del 4 settembre 2019), esprime un pensiero anche condivisibile ma nello stesso tempo tradisce tutta la sua lontananza dal popolo reale: a me non interessa come è fatto il popolo o che vuole, a me interessa il potere “possibilmente stabile”.
Dopo la caduta del primo governo Conte, c’erano due vie: una, prioritaria, cercare una maggioranza politica in Parlamento; l’altra, conseguente, fare elezioni anticipate. L’una e l’altra erano formalmente ineccepibili, ma, mentre la prima era del tutto incentrata sull’establishment, la seconda si ancorava al popolo ed era quella che nella sostanza rispondeva alle istanze del paese. Averla impedita non è stato un colpo di stato, ma un colpo politico, del tutto legittimo dal punto di vista formale, che, però, in sostanza ha impedito ad una parte politica, la populistica, di esercitare un suo diritto, di cogliere un successo nel momento in cui poteva riuscirci. La maggioranza che si è formata in Parlamento non era una maggioranza politica, ma numerica, composta al solo scopo di impedire le elezioni, riconoscentesi unicamente nel comune intento di danneggiare l’avversario.Lo hanno detto loro stessi. Una bravata politica!  Che rischia di produrre non pochi guasti nel sentire democratico della gente, che nelle istituzioni non vede trasparenza e rispetto ma trame e imbrogli.