domenica 28 agosto 2011

Libia: una storiaccia vergognosa


L’ultimo nostro capitolo sulla Libia è sconcertante. A cento anni dalla guerra di conquista, in atmosfere colonialiste ed imperialiste, abbiamo scritto pagine di infamia e di vergogna. La democrazia ha mostrato la sua vera faccia: flaccida, grottesca, cinica, oscena, mostruosa; la solita, quella disegnata dal tedesco George Grosz nella prima metà del Novecento.
Ci aveva quasi convinti la democrazia che per mantenere la pace era necessario anche subire qualche onta; che per avere le risorse di cui abbiamo bisogno dovevamo piegare il capo; che per poter esportare i nostri prodotti e vincere la concorrenza dovevamo andare a braccetto anche con tiranni e tirannelli. Dopo tutto in casa sua ciascuno è re; ogni stato va rispettato nella sua sovranità. Ci aveva quasi convinti che solo i dittatori fanno le guerre, che violano i diritti degli altri, che spengono nel sangue la luce dei popoli, che distruggono ciò che altri hanno costruito.
Ora tutto questo è svanito, in un silenzio incredibile, in un vuoto di ragioni imbarazzante. E quel che è più grave che a tutto questo noi italiani siamo stati indotti da altri, che fanno, in maniera anche provocatoria, una politica ai nostri danni.
Piange il cuore assistere ogni sera all’immenso disastro libico. Vedere quelle belle piazze, quelle strade larghe e lunghe, quei palazzi moderni, quegli ospedali in tutto simili alle più moderne strutture occidentali ridotti a cumuli di macerie. Vedere un popolo precipitato di colpo allo stadio ferino, prepolitico, ridotto a branco; è la giungla di ritorno. Vedere tanti aerei bombardare per mesi, in migliaia di raid, i palazzi di Tripoli non può che suscitare sdegno: la Nato, ossia l’alleanza delle più ricche ed armate potenze del mondo contro uno stato di poco più di sei milioni di abitanti. Vedere tutti quei cadaveri, tanti corpi straziati per le strade, nelle case, è tanto più crudele e insensato quanto ancora nessuno ha dato una spiegazione di quanto è avvenuto. Dicono: per la libertà e la democrazia!
Ma non si rendono conto che voler attribuire ai necessari costi della libertà e della democrazia, dopo che per quarantadue anni quel regime non solo era stato tollerato ma anche rispettato e riverito, è una intollerabile menzogna; è come voler chiudere una falla allo scafo di una portaerei con un cerotto da pronto soccorso.
Il ministro degli esteri Frattini non sa che inventarsi per convincere gli italiani che Gheddafi andava eliminato. “Voleva far diventare nera d’africani l’isola di Lampedusa – dice – abbiamo le prove”. Le prove di che, ministro dell’ipocrisia? L’altro ministro, quello della difesa, La Russa, ex fascista, difensore della repubblica sociale di Mussolini, per certi aspetti edizione datata ed italiana della Libia di Gheddafi, si è preso forse per il culo per cinquant’anni? O l’onore e la lealtà li ha persi sulla via degli affari e del conformismo più becero e cialtrone?
A chi vogliono raccontarla questa storiaccia senza capo né coda? Forse avranno anche qualche ragione gli americani, che si sono affidati ad un predicatore di quart’ordine. Affari loro! Stanno fallendo ed altro non sanno fare che fomentare guerre in casa d’altri. Qualche ragione possono averla i francesi, gli eterni velleitari, che vogliono così imporre un’improbabile egemonia nel Mediterraneo e soppiantare l’Italia nei rapporti commerciali con la Libia. Qualche ragione possono averla gli inglesi, che amano tenersi in esercizio con la guerra. Li conosciamo. Ma noi, che interesse avevamo noi a fare la guerra alla Libia? Che cosa ci aveva fatto Gheddafi per andare a bombardargli la casa e la famiglia? A distruggergli ciò che con le sue risorse aveva costruito? Solo qualche settimana prima aveva sfilato con accanto Berlusconi, l’uno più tronfio dell’altro, per le ex strade dell’Impero a Roma.
Oh, sì, avevamo noi italiani ragione di sotterrarlo vivo nel 1969 quel Gheddafi, da poco padrone della Libia, per aver cacciato i nostri connazionali come cani ed insultati i nostri morti. Ma allora non avemmo il coraggio di rispondergli con un minimo di dignità nazionale. Certo, ci saremmo potuti pure arrabbiare quando nel 1986 lanciò un missile su Lampedusa, non per il danno subito, che non ci fu, ma per l’atto di guerra compiuto. Ma neppure allora avemmo un sussulto di dignità nazionale. L’abbiamo avuto ora, forti delle ragioni degli altri, ad aggredire quello che ormai da più di quarant’anni era il capo di stato straniero più corteggiato dai nostri governi.
La guerra alla Libia ha tutti i caratteri della prepotenza delle democrazie occidentali, quelle che Mussolini chiamava plutocrazie, arroganti come il lupo di Fedro, anzi peggio, perché almeno quello prima di sbranare l’agnello un motivo cercava di averlo. Non che Gheddafi sia paragonabile ad un agnello, ma il modo come è stato provocato con la rivolta interna prima, sapientemente orchestrata dall’esterno, poi attaccato e infine distrutto, fa capire quel che da sempre è la morale della favola. I più forti eliminano i più deboli. Le solite democrazie, che quando decidono di farla finita con un paese che non fa parte della confraternita lo fanno, che quando sono in difficoltà cercano di risolvere i loro problemi aggredendo gli altri.
In questa campagna di destabilizzazione di tutta la fascia mediterranea dell’Africa c’è un piano tanto appariscente quanto inconfessabile. Esso è fondato su due motivi ben precisi: uno ideologico e l’altro economico. Quello ideologico è che deve essere chiaro a tutti che non ci sono stati sovrani, c’è un solo mostro imperialistico a più teste, e tutti gli altri o sono servi obbedienti o ribelli distrutti. Quello economico è ancora più chiaro nella sua oscenità. Le democrazie occidentali, tutte in grave crisi economico-finanziaria, hanno bisogno di alimentare le proprie economie ricostruendo ciò che oggi hanno distrutto. S’illudono i cosiddetti ribelli libici, che hanno annientato Gheddafi con le armi straniere di essere liberi e padroni del proprio paese e di poter veramente disporre delle loro risorse. Chissà per quanti anni dovranno dare il loro petrolio ad americani, francesi, inglesi ed italiani (speriamo, anche agli italiani!) perché questi ricostruiscano ciò che i loro bombardieri hanno distrutto. La Libia, più della Tunisia, dell’Egitto e forse anche della Siria, deve pagare la crisi dei suoi aggressori.
Ma i libici non sono solo quelli che oggi s’illudono di essere i vincitori. Un nuovo terrorismo incombe sul mondo occidentale. E questo, come gli altri e più degli altri, ce lo siamo confezionato con le nostre mani!

domenica 21 agosto 2011

Salento: quarto regno dell'aldilà

Se uno volesse farsi un’idea di come potrebbe essere un quarto regno ultraterreno – un regno che neppure Dante con la sua fervida fantasia seppe immaginarsi – potrebbe venir giù nel Salento e avrebbe modo addirittura di viverci dentro.
Visto sulla carta geografica, attaccato all’Italia, il Salento appare nella sua inequivocabile peninsularità; Messapia era detto, ossia “Terra di mezzo, tra due mari”. Più da vicino, sempre sulla carta geografica, appare nella sua mesta pendularità.
Sta sulla terra, ma vive al di là, come fosse in una dimensione ultraterrena, in una sorta di pre-inferno o di post-paradiso. Sta oltre le colonne d’Ercole della fatica, del lavoro, della produttività. La sua vita è insieme vera e virtuale. Il Salento non ha latte e vende ricotta.
Canti e suoni, danze e spettacoli, sagre e mostre, notti bianche e rosse, della pizzica o della taranta, caratterizzano le lunghissime estati salentine, una volta grondanti sudori agricoli. Il grano, l’orzo, il tabacco, i pomodori, i legumi, i fichi, che impegnavano le famiglie e le tenevano inchiodate ai campi, sono diventati folklore, attrazione turistica. Cultura la chiamano. Il Salento laborioso non c’è più. Al suo posto una sorta di Las Vegas dilatata. Trionfano le godurie più varie, i gozzovigli, le sfrenatezze, con la complicità delle classi politiche locali, che offrono sostegni, spazi, strutture. Panem et circenses, esattamente come una volta. L’importante è che la gente s’illuda di stare bene. La benzina corre verso i due euro al litro più veloce delle auto che alimenta. Ma chi se ne frega! Ai distributori devi fare la coda.
Da più di tre anni la società occidentale è depressa, vuoi per testa vuoi per croce. In questi ultimi tempi, poi, è un martellamento continuo del calo delle borse. Ma l’importante è che quella della gente sia ben piena o tale appaia, per fare gioco e festa.
Il ciclo è continuo, con un altipiano estivo. Seguono le altre feste comandate, a partire da San Martino e via continuando per le feste natalizie, carnacialesche, pasquali e di nuovo estive. Lo spirito del giovane Lorenzo de’ Medici aleggia su tutto il Salento – siamo o non siamo la Firenze del Sud? – con qualche aggiustatina: quanto è bella l’allegrezza, che già dura tuttavia; chi vuol esser lieto, sia, del doman c’è la certezza. Le risorse del Salento sono il cielo, il mare, il vento. Chi potrà mai portarcele via? I turisti vengono in massa. E se non dovessero aver più la possibilità di venire?
In verità, del domani non v’è certezza alcuna. Il Salento non produce più materialità, produce immaterialità, inconservabilità, volatilità, effimero. E carta, tanta, tantissima carta. Un profluvio di giornali di ogni formato invade i bar, i locali pubblici, le strade. Li scaricano a pacchi e li abbandonano sulle soglie degli esercizi pubblici, tutti gratis. Li pagano i contributi dello Stato e la pubblicità tanto sfavillante quanto pidocchiosa di imprenditori e commercianti stitici. Si perde il conto di quanti sono e di quanti ne escono a getto continuo, come se uno si alzasse la mattina e sentisse il bisogno di un nuovo foglio. Li leggo, per curiosità. Faccio il… giornalista. Riprendono notizie da altri giornali, dai quotidiani locali soprattutto. Non hanno una linea politica o culturale. Incapaci di uno sbadiglio critico. Non hanno cognizione alcuna di partiti o di classi, di poteri o di dinamiche sociali. Non hanno uno spazio proprio. La cultura che esprimono è superficiale, copiata, orecchiata, piena di immarcescibili luoghi comuni. Prevale una vaga cultura del territorio, ma senza militanza alcuna. Il giornale come il campanile: ce l’hai tu, lo devo avere anch’io. Lo Stato finanzia le cooperative; e, allora, c’è la possibilità di farsi qualche centinaio di euro, giusto per le spese o per qualche maglietta, su cui si legge qualche breve modo di dire popolare, rigorosamente in dialetto. Pochi giovani, ma meglio di nessuno, sbarcano il lunario così; non sono del tutto disoccupati.
Chi non se la spassa da una sagra all’altra, si chiude nelle discrete cabine di certi locali, dove si gioca a tutto, ad accanirsi soprattutto ai videogiochi, fino a giocarsi come si dice il culo; mentre le donne, notoriamente più sfacciate, trascorrono interi quarti d’ora a grattare per vincere, poi perdono grattando, tra la spesa delle patate e quella della carne. Per mezzogiorno c’è sempre tempo! E i mariti? Ma sì, chi se ne fotte dei mariti. Se fanno i fessi, c’è lo stalking, il reato di chi in casa chiede giusta ragione del loro comportamento.
Se pure non ci fossero altri indicatori della gravissima crisi che la società attuale sta vivendo basterebbero i divertimenti e i giochi a farla apparire in tutta la sua vastità e profondità. Come la nostra solo la società del Seicento, sissignori, quella del barocco, che, nel Salento sta come il pesce nel mare. Anche nel Seicento dominavano lo sfarzo, le stravaganze, i divertimenti, le lotterie. Non si credeva nel lavoro e nel progresso, ma nella fortuna.
E chi lavora, nel senso che produce o rende servizi? Pochissimi, autentiche mosche bianche. Se hai bisogno di un contadino non lo trovi neppure a pagarlo a peso d’oro. I pochi artigiani, idraulici, falegnami, fabbri, pavimentisti, intonacatori, elettricisti, tinteggiatori o altrimenti detti pittori, guadagnano dai duecento ai trecento euro al giorno, esentasse, nel senso che non rilasciano fattura alcuna. Del resto la stragrande maggioranza della gente non sa che farsene della fattura; e non pretenderla fa risparmiare. Oggi questi unici “laboratores” hanno redditi da medici specialisti, da luminari della scienza. Nei soldi che ti chiedono c’è una sorta di tassa del prestigio: paga, professore o medico della minchia, io guadagno dieci volte più di te. Se chiedi loro la fattura o la ricevuta fiscale, li irriti, ti fanno pagare l’iva, e poi scordati che li puoi più chiamare nel caso di bisogno. Col passaparola son tutti informati. Quello lì? E’ un rompicoglioni, ne va trovando tante; meglio lasciarlo perdere!
Non so quanto possa durare una simile condizione “ultraterrena”, di non produzione, di virtualità economica, di sbafo, di pezzenteria allegra. Il Papa lo denuncia ad ogni latitudine, ma si guarda bene dall’assumere toni da Gerolamo Savonarola, sa come andò a finire per il frate ferrarese.
Ad ogni buon conto io dalla buonanima di mia madre appresi di distinguere le erbacce dalla verdura commestibile. Non si sa mai. E – Dio mi perdoni i cattivi pensieri – vorrei tanto verificare le mie competenze con cicorine e zanguni.

domenica 14 agosto 2011

Casta per casta: i giornali

Nell’infuriare della bufera finanziaria – leggi crisi – c’è stato uno tsunami di accuse alla casta dei politici, rei di essere un rubinetto a getto continuo di soldi. In verità l’accusa non era e non è campata in aria. Ci sono aspetti dei costi della politica veramente assurdi, a prescindere dalla crisi. Sull’argomento si sono esercitati giornalisti e saggisti, i quali hanno dimostrato l’esosità e la stravaganza della politica. Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella hanno creato il caso col volume pubblicato nel 2007 e intitolato “La casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili”. Più di recente Mario Giordano, ex direttore del “Giornale” berlusconiano, ha pubblicato “Sanguisughe. Le pensioni d’oro che ci prosciugano le tasche” (2011).
Gli stessi Rizzo & Stella sul “Corriere della Sera”, di cui sono editorialisti, sono intervenuti nei giorni della bufera suggerendo come la classe politica poteva e doveva dare il buon esempio tagliando i costi che la riguardavano. E suggerivano come, “Costi della politica? Ecco sei (facili) modi per ridurli da subito”: “dimezzare il numero dei parlamentari, equilibrare le pensioni ai contributi versati, rendere trasparenti i costi della politica, non esercitare altre attività durante il mandato, affidare alle Camere la gestione dei portaborse, abolire le province più piccole” (8 agosto). E due giorni dopo (10 agosto) tornavano sull’argomento con un editoriale dal titolo perentorio “Sì ai sacrifici. Cominci la casta”. Se mai qualcuno non l’avesse capito, i due giornalisti si riferivano alla casta dei politici.
Ma in Italia è la sola casta esistente? O la casta va declinata in ogni suo caso, leggi settore della vita pubblica e privata? Sempre nel 2007 il giornalista Beppe Lopez, già direttore del “Quotidiano di Lecce”, pubblicò un saggio, intitolato “La casta”, ma questa volta si riferiva a quella “dei giornali”, in cui trattava del finanziamento pubblico della stampa, non solo politica, ma perfino di costume, di gossip, di sport e di religione. Assurdo per assurdo, certi finanziamenti alla casta dei giornali sono davvero così vergognosi che al loro confronto impallidiscono perfino le stravaganze politiche.
L’ammontare complessivo dei finanziamenti giunge ad un miliardo di Euro all'anno. Chi sono i beneficiari? I giornali, divisi per categorie. I dati si riferiscono al 2007, oggi probabilmente i finanziamenti sono lievitati. I maggiori riceventi sono quelli del gruppo rcs (Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport), con 23 milioni e mezzo di Euro; Sole 24 ore, con circa 20 milioni; gruppo Espresso-Repubblica, con oltre 16 milioni; La Stampa, con 7 milioni; Conquiste del Lavoro, con 6 milioni e mezzo; il gruppo Giorno-Resto del Carlino-Nazione, con quasi 3 milioni; il gruppo Messaggero-Mattino-Gazzettino, con 3 milioni; Corriere dello Sport, con quasi 2 milioni.
Seguono i giornali di partito. E qui, prima di passare alle profende, facciamoci quattro risate, si fa per dire; ché ci sarebbe da farli inseguire da una muta di cani. Anzitutto, perché i giornali di partito non sono pagati dal partito, che a sua volta beneficia del finanziamento pubblico? Ma, faccia Dio. Perché un giornale potesse avere la qualifica di partito e ricevere il finanziamento, in un primo momento era sufficiente che due parlamentari lo sponsorizzassero, poi si richiese che si costituisse in cooperativa. Oggi un giornale di partito deve essere sostenuto da un gruppo parlamentare, formato da dieci deputati. Per fare qualche esempio. “Libero”, prima di diventare una cooperativa risultava essere l’organo del Movimento Monarchico Italiano. I contributi vengono erogati dal dipartimento editoria che dipende dalla Presidenza del Consiglio. Quale il criterio del quantum? Il contributo si basa sui costi e sulla tiratura. Ma anche qui trionfano i soliti furbi, perché si stampano copie che si sa di non vendere; e allora il giornale viene svenduto o addirittura distribuito gratis, tanto paga lo Stato. Più hai da svendere o regalare e più lo Stato ti paga.
Ebbene, di fronte a tanto ingiustificato spreco, nessun giornalista, dico nessuno, ha sollevato il problema. Come al solito, il marcio sta sempre nella Danimarca degli altri.
Ma vediamo quanto prendono i giornali di partito. L’Unità (circa 7 milioni), La Padania (4 milioni), Liberazione (quasi 4 milioni), Europa (oltre 3 milioni), Secolo d’Italia (oltre 3 milioni), La Discussione (oltre 2 milioni e mezzo), Zukunft in Sudtirol (oltre 1 milione), Il Sole che ride (oltre 1 milione), Rinascita della Sinistra (circa 1 milione), Avanti! (600 mila), Liberal (circa 600 mila), Le Peuple Valdôtain (circa 300 mila), Democrazia Cristiana (circa 160 mila).
Poi c’è la seconda categoria, formata da giornali costituitisi in cooperative, con giornali come Libero (circa 5 milioni e mezzo), Foglio (oltre 3 milioni e mezzo), Il Giornale d’Italia, Linea, Torino Cronaca, Il Borghese e Roma (con oltre 2 milioni e mezzo per testata), Il Denaro (oltre 2 milioni), Il Riformista (oltre 2 milioni), Opinione delle libertà (oltre 2 milioni), La Cronaca (circa 2 milioni), Campanile Nuovo (oltre 1 milione), Gazzetta Politica (oltre 500 mila), Metropoli Day (oltre 500 mila) Avvenimenti (circa 500 mila), Area (circa 500 mila), Voce Repubblicana (oltre 200 mila), Aprile, Patto, Angeli, Cristiano-Sociali News, La Nuova Provincia e Milano Metropoli (tra i 169 mila e i 10 mila).
Alla terza categoria appartengono sessantotto quotidiani e periodici, tra cui – citiamo i più noti – l’Avvenire (6 milioni), Italia Oggi (più di 5 milioni), Il Manifesto (circa 4 milioni e mezzo) ecc. ecc..
Alla quarta categoria appartengono testate che fanno riferimento direttamente o indirettamente alla chiesa cattolica, fra cui, per limitarci alle più note, Famiglia Cristiana (più di 200 mila), Jesus (49 mila).
Poi ci sono giornali italiani pubblicati all’estero e la caterva di pubblicazioni locali, pieni di pubblicità da elemosina, che nessuno legge, distribuiti gratuitamente, che infestano di carta bar, locali pubblici, piazze e strade; ma regolarmente finanziati dallo Stato.
Questa è l’estrema sommaria sintesi della situazione della stampa in Italia. Alcuni giornali hanno evidentemente bisogno del finanziamento, senza il quale non potrebbero esistere; ma altri assolutamente no, perché appartengono a gruppi industriali che dovrebbero essere in grado di mantenersi da sé. Il riferimento è netto: Corriere della Sera, Sole 24 Ore, Repubblica, Stampa, Messaggero ecc. non hanno nessun diritto. I soldi che prendono dallo Stato non hanno giustificazione alcuna; o, per lo meno, ce l’hanno in virtù di una legge che andrebbe cambiata se non addirittura abrogata. E’ inaccettabile l’assistenzialismo della stampa quando questa appartiene a gruppi industriali che fatturano miliardi in altre attività. Quanto agli altri, i signori liberali, che tanto insistono sul mercato e sulla libertà d’impresa, non possono chiedere l’assistenza ad imprese che da sé non si reggono. I giornali che non si reggono da sé semplicemente devono chiudere, altrimenti si altera il rapporto tra domanda e offerta, in questo caso non solo economico ma anche e soprattutto politico.
Ora, si potrebbe dire che coi soldi risparmiati dal non giustificato finanziamento dei giornali, come è stato detto per tanti altri sprechi, non si risolverebbe il problema. Sbagliato! Al paese mio si dice ancora che ogni pietra serve a far crescere il muro. E il paese mio non sta sulla luna!

domenica 7 agosto 2011

Obama, dalla primavera africana all'autunno americano

Si fa presto a dire che in Italia nessuno parla delle responsabilità del presidente Barack Obama nella grave crisi economico-finanziaria degli Stati Uniti d’America. Dico si fa presto perché in verità non conosco l’universo della stampa italiana per poterlo affermare con cognizione di causa, ma ne conosco tanta, tra carta stampata e televisioni, che il sospetto che nessuno ne parli francamente viene. In questo paese in cui si critica tutto e tutti, e a volte anche in maniera feroce – ancora si sentono gli echi dei giudizi stroncatori nei confronti di Bush junior – nulla invece che sfiori l’attuale presidente americano, cui, evidentemente, si attribuisce il dogma dell’infallibilità.
Eppure l’attuale crisi americana non ha precedenti. Per la prima volta il sistema economico americano è declassato; la sua economia non è più il riferimento dell’economia mondiale. Il suo obiettivo di essere a capo di un sistema di governo bipartisan, con repubblicani e democratici d’accordo almeno sui problemi più importanti del paese, è ben lontano dall’essere raggiunto; anzi!
Certo, una simile crisi non può essere solo il frutto di scelte sbagliate di un presidente alla scadenza del suo primo mandato; altre, più consolidate e pregresse cause, sono a monte. Ma non si può dire che lo stesso sia del tutto estraneo; una parte evidentemente ce l’ha. Quale?
Nessuno in Italia ne parla, nessuno ha voglia di parlarne. Forse perché è di colore e non si vuole correre il rischio di razzismo? Forse perché le sue idee democratiche, che in Italia mandano in visibilio i tipi alla Veltroni e compagni del Pd, si ha paura di considerarle inadeguate a governare una grande potenza come quella americana, per gli inevitabili riflessi che il giudizio negativo si estenda alla sinistra italiana? La consegna del silenzio è ancor meno spiegabile.
Obama, per la sua storia personale e per la sua ideologia, ha costituito fin dall’inizio una sorta di “terra promessa”. Le sue scelte erano giuste a prescindere. Alcune, in effetti lo sono state. Prendiamo la meritoria estensione della copertura sanitaria a diversi milioni di americani che ne erano sprovvisti. Come non salutarla positivamente? Ma a quella sono seguiti i disastri in politica estera, quelli africani su tutti. Se – anche qui – non si può dire che li abbia provocati lui, almeno per ora, non si può dire nemmeno che lui ne sia estraneo. E lasciamo da parte l’affare afghano, ereditato.
Fin dalle prime manifestazioni antiregime prima in Tunisia, poi in Egitto e infine in Libia, i suoi continui incoraggiamenti ai rivoltosi e i suoi inviti ai governi contestati di abbandonare il potere e il paese sono stati pressanti, salvo ad incepparsi con la resistenza di Gheddafi e con l’incredibile non intervento in Siria, benché in questo paese il regime sia ancor più duro e violento coi rivoltosi di quanto non lo fossero stati il tunisino, l’egiziano e il libico.
Viene il sospetto che tutta la buriana in Africa sia stata creata a bella posta, per mascherare l’imminente crisi economica e coinvolgere l’Europa nel disastro. Ecco perché dovremmo essere davvero incazzati con Obama, col presidente dello Yes, We Can e della predicata “primavera africana”.
I danni provocati all’Italia da questo maldestro figlio di Apollo, cui è stato affidato il carro del sole, finiremo col doverli pagare chissà per quanto tempo. Quale interesse avevamo noi europei e noi italiani in particolare di destabilizzare l’Africa mediterranea, dopo che per decine di anni avevamo buoni e ottimi rapporti coi paesi ora in completo e diffuso marasma? Prima o poi qualcuno ce lo dovrà pure spiegare.