domenica 7 agosto 2011

Obama, dalla primavera africana all'autunno americano

Si fa presto a dire che in Italia nessuno parla delle responsabilità del presidente Barack Obama nella grave crisi economico-finanziaria degli Stati Uniti d’America. Dico si fa presto perché in verità non conosco l’universo della stampa italiana per poterlo affermare con cognizione di causa, ma ne conosco tanta, tra carta stampata e televisioni, che il sospetto che nessuno ne parli francamente viene. In questo paese in cui si critica tutto e tutti, e a volte anche in maniera feroce – ancora si sentono gli echi dei giudizi stroncatori nei confronti di Bush junior – nulla invece che sfiori l’attuale presidente americano, cui, evidentemente, si attribuisce il dogma dell’infallibilità.
Eppure l’attuale crisi americana non ha precedenti. Per la prima volta il sistema economico americano è declassato; la sua economia non è più il riferimento dell’economia mondiale. Il suo obiettivo di essere a capo di un sistema di governo bipartisan, con repubblicani e democratici d’accordo almeno sui problemi più importanti del paese, è ben lontano dall’essere raggiunto; anzi!
Certo, una simile crisi non può essere solo il frutto di scelte sbagliate di un presidente alla scadenza del suo primo mandato; altre, più consolidate e pregresse cause, sono a monte. Ma non si può dire che lo stesso sia del tutto estraneo; una parte evidentemente ce l’ha. Quale?
Nessuno in Italia ne parla, nessuno ha voglia di parlarne. Forse perché è di colore e non si vuole correre il rischio di razzismo? Forse perché le sue idee democratiche, che in Italia mandano in visibilio i tipi alla Veltroni e compagni del Pd, si ha paura di considerarle inadeguate a governare una grande potenza come quella americana, per gli inevitabili riflessi che il giudizio negativo si estenda alla sinistra italiana? La consegna del silenzio è ancor meno spiegabile.
Obama, per la sua storia personale e per la sua ideologia, ha costituito fin dall’inizio una sorta di “terra promessa”. Le sue scelte erano giuste a prescindere. Alcune, in effetti lo sono state. Prendiamo la meritoria estensione della copertura sanitaria a diversi milioni di americani che ne erano sprovvisti. Come non salutarla positivamente? Ma a quella sono seguiti i disastri in politica estera, quelli africani su tutti. Se – anche qui – non si può dire che li abbia provocati lui, almeno per ora, non si può dire nemmeno che lui ne sia estraneo. E lasciamo da parte l’affare afghano, ereditato.
Fin dalle prime manifestazioni antiregime prima in Tunisia, poi in Egitto e infine in Libia, i suoi continui incoraggiamenti ai rivoltosi e i suoi inviti ai governi contestati di abbandonare il potere e il paese sono stati pressanti, salvo ad incepparsi con la resistenza di Gheddafi e con l’incredibile non intervento in Siria, benché in questo paese il regime sia ancor più duro e violento coi rivoltosi di quanto non lo fossero stati il tunisino, l’egiziano e il libico.
Viene il sospetto che tutta la buriana in Africa sia stata creata a bella posta, per mascherare l’imminente crisi economica e coinvolgere l’Europa nel disastro. Ecco perché dovremmo essere davvero incazzati con Obama, col presidente dello Yes, We Can e della predicata “primavera africana”.
I danni provocati all’Italia da questo maldestro figlio di Apollo, cui è stato affidato il carro del sole, finiremo col doverli pagare chissà per quanto tempo. Quale interesse avevamo noi europei e noi italiani in particolare di destabilizzare l’Africa mediterranea, dopo che per decine di anni avevamo buoni e ottimi rapporti coi paesi ora in completo e diffuso marasma? Prima o poi qualcuno ce lo dovrà pure spiegare.

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