domenica 17 marzo 2019

Contratto di governo, la formula è fallita




La politica non sembra ma ha una sua sacralità. La presenza nel suo tempio di una profanità, per quanto ben nascosta e mimetizzata, salta subito agli occhi dei suoi fedeli.
Da quando tra il M5S e la Lega è nato il “governo del contratto”, per la prima volta in Italia – prima si era sempre parlato di governi di più o meno larghe intese, di alleanze tattiche, di transizione, di scopo, ecc. ecc. – è apparso chiaro che si trattava di una novità. Del resto gli stessi protagonisti, i 5S soprattutto, lo accreditavano come il governo delle “cose mai viste” in un continuo paragonarsi ai precedenti governi, nella formula “mentre gli altri, noi”.
Lo scrittore politico Filippo Ceccarelli si sarà felicemente ispirato proprio a questa formula nell’intitolare il suo libro “Invano. Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua”. Ecco, la vera formula di governo 5S-Lega è proprio “dei questi qua”, come a sottolinearne l’assoluta mancanza di colore politico o come a marcarne la distanza  “da quelli là”, i politici della prima e seconda repubblica.
Alla formula del contratto, un po’ anche per nobilitarla in qualche modo, si è voluto dare una dimensione populistica, peraltro ben accetta ai protagonisti. I quali, come pirandelliani personaggi in cerca d’autore, se ne sono calzati immediatamente. Vedi il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il quale si è subito presentato come l’avvocato del popolo, nemmeno fosse uno di quegli avvocati della rivoluzione francese, un Robespierre, un Desmoulins. Anche se dopo, più che porsi tra il governo e il popolo in difesa di quest’ultimo, si è accomodato in una più modesta posizione tra i due vice, in difesa del suo mandante Di Maio.
Ci poteva pure stare questo nuovo arricchimento dell’inedita formula. In fondo tutti nel mondo ci riconoscono il merito di reinventare all’occorrenza la politica. Dietro le parole, però, ci sono i fatti. Nel contratto non è scritto: noi abbiamo raggiunto un’intesa su ogni singola cosa da realizzare, ma noi parti contraenti abbiamo stabilito di fare queste cose come ognuna delle due parti le ha promesse al suo elettorato, queste a me e queste a te. Io non m’impiccio delle cose tue e tu non t’impicci delle cose mie. E il popolo italiano? Quello ha votato e tanto gli basta!
Può un governo, che abbia la pretesa di durare per l’intera legislatura, attenersi rigorosamente a quanto sottoscritto nel contratto? Salvini, che la sa più lunga di Di Maio, ha fatto finta di crederci, sapendo che dopo sarebbe venuto il “bello”. Per Di Maio, invece, quel che è venuto dopo è stato il “brutto” della situazione. I litigi tra i due nascono e si consumano in questa diversa visione della politica: flessibile per Salvini, rigida per Di Maio. Ovvio che abbia buon gioco Salvini perché la politica è appunto flessibilità.    
Il contratto 5S-Lega, con le approvazioni incrociate, fa pensare ad una spartizione di ambiti di potere e di soluzioni, senza offesa, da patto mafioso. Diviso il potere delle cose da fare in mandamenti ciascuno realizza le cose sue nel proprio senza che l’altro ci metta il becco. Così, invece di trovare un’intesa sulla Tav, sulla Fornero, sul reddito di cittadinanza, sulla tassa piatta, sull’immigrazione, sulla sicurezza e via contrattando, i due soggetti politici-boss, si sono spartito il potere mandamentale: io faccio quel che mi pare su questi punti benché tu non li condivida, in cambio io ti lascio fare le tue cose che io non condivido. Così, catafottendosene (Camilleri copyright) dei rispettivi elettorati, ovvero dei loro tanto adorati popoli.
Ad avere la peggio in termini di consenso non potevano che essere i 5S, i quali sono nati per non spartire niente con nessuno, all’insegna dell’antipolitica. Ovvio che nel momento in cui il M5S ha dovuto concedere alla Lega alcuni punti il suo popolo in parte è rimasto deluso, in parte si è arrabbiato.
Era inevitabile che prima o poi si sarebbe arrivati allo scontro. Il punto è arrivato con la Tav. In un paese normale, governato perfino da ministri corrotti ma competenti e capaci, dotati del senso dello Stato, si realizzerebbe senza problemi. Ci sono degli accordi internazionali approvati dal Parlamento, i lavori preparatori per l’inizio dello scavo del tunnel che deve congiungere Torino a Lione sono stati iniziati da anni, si devono fare i bandi con le imprese, ci sono i finanziamenti europei… E, allora, che si aspetta? C’è che nel contratto di governo la Tav è prevista, ma come ridiscussione: “Con riguardo alla Linea ad Alta Velocità Torino-Lione, ci impegniamo a ridiscuterne integralmente il progetto nell'applicazione dell'accordo tra Italia e Francia". Questo dice il contratto. Perciò pacta sunt servanda, dicono con parole loro i 5S. Se il capo dell’altro mandamento fa il furbo, perché il suo popolo la Tav la vuole senz’altro, deve sapere che si ritorceranno contro tante altre cose che gli sono state concesse solo per rispettare il contratto. “Bada, Salvini – ha detto Di Maio – che per il caso Diciotti deve ancora votare il Senato, perciò, regolati”. E Salvini, che tanto sa che la Tav prima o poi si farà, si è regolato, accettando la soluzione provvisoria di congelare la questione fino alle elezioni europee del 26 maggio.
Le opposizioni hanno ragione a denunciare il fallimento del governo e soprattutto della formula contratto. Questo, infatti, prevede sempre che le parti contraenti siano sovrane, che non debbano rispondere a nessuno delle loro scelte. Ma in politica non è così. Non c’è rappresentanza che non debba dar conto. Se di questo se ne impipa, prima o poi ne paga le conseguenze. In politica come in natura il corso delle cose non lo puoi cambiare, perché sia l’una che l’altra si riprendono ciò che appartiene loro: la natura si riprende il territorio, la politica i voti e dunque il potere.       

venerdì 15 marzo 2019

Primarie Pd, ma non è solo questione di uomini




Le Primarie del Pd del 3 marzo hanno fatto registrare un trend di calo rispetto alle precedenti. Un milione e ottocentomila elettori, tuttavia, coi tempi che corrono, sono tanti. Lo spettacolo ai gazebo, con la gente in fila per votare, ha avuto un effetto rigenerante. La percentuale del vincitore, Zingaretti, intorno al settanta per cento, è rassicurante. Habemus papam! E non è davvero poco.
Al di là del metodo discutibile di una simile consultazione – se ne parla dalla sua introduzione nel 2005 – e degli effetti che questa performance politica avrà in prospettiva, consideriamola nell’immediato. Oggi, si sa, tutto scorre velocemente e tutto cambia nel volgere di poco tempo. Previsioni non se ne possono fare.
Nell’immediato il mezzo (le primarie) si è rivelato essere il messaggio (successo politico), un po’ secondo la formula di MacLuhan per la comunicazione. Un partito, il Pd, che sembrava spento, con la testa abbassata a guardarsi le punte dei piedi, ha rialzato la testa, guarda avanti, con rinnovata volontà di riscatto. Il mezzo miracolo c’è stato. E lo si nota anche nell’interesse che ha suscitato attraverso i media nel paese. Il che significa che la politica ha bisogno dei suoi riti, della sua fisiologia, della comunicazione, delle discussioni, del confronto, del voto. Un risultato tanto più importante quanto più intorno regnano il vuoto e pseudoconsultazioni di nessuna credibilità. Mi riferisco ai pochissimi che votano sulla piattaforma Rousseau, nella più grigia opacità, con la pretesa di essere maggioranza e di determinare anche scelte importanti per tutto il paese.
Detto questo non si può non considerare la risposta che il rigenerato Pd intende dare agli elettori; soprattutto che cosa è e dove vuole andare. Prima del voto i tre candidati alla segreteria, Zingaretti, Martina e Giachetti, più o meno dicevano le stesse cose, ovvero non dicevano nulla, specialmente su quei temi sensibili che gli erano costati il crollo elettorale: immigrazione, sicurezza, sudditanza all’Europa. Si limitavano ad attaccare episodicamente il governo ora per un provvedimento ora per un altro, ora per un’espressione di Salvini ora per una gaffe di Toninelli, senza mai proporre alcunché di chiaro e di positivo, sia in termini tattici di alleanze che in termini strategici di traguardi. E se polemica facevano la circoscrivevano agli affari loro interni. Vedi Giachetti nei confronti di D’Alema e compagni.
Ora è tempo che si parli di prospettive. Il che non è facile; di sicuro è più roba per commentatori e analisti. La situazione politica italiana è assai complicata con tre schieramenti che per giungere a formare un governo è ragionevole pensare che due debbano allearsi e lasciare il terzo a fare l’opposizione. Con chi si alleerebbe il Pd? E per fare che cosa?
Il dibattito politico seguito al 4 marzo 2018 ha dimostrato che Renzi aveva ragione ad escludere qualsiasi ipotesi di intesa col M5S. Che cosa avrebbe potuto o potrebbe tenere insieme questi due soggetti politici? Ma altrettanto improbabile è un’alleanza del Pd con qualche spezzone del centrodestra. Non certo con la Lega di Salvini. Ma neppure con Forza Italia di Berlusconi. E, allora? Aspettiamo tutti il Congresso di questo partito per cercare di vedere dove ci possono portare gli ultimi eventi, in una situazione in cui persistono molte incertezze. Le ripetute dichiarazioni di non belligeranza di Renzi non lasciano presagire disponibilità di accordi.
Intanto sono tornati a farsi sentire i soliti artisti e intellettuali che ruotano attorno al partito e che di politica non hanno mai dimostrato di capire nulla. Si son sentiti importanti esponenti di questa intellighenzia tornare a parlare di immigrazione e di sicurezza con gli stessi temi e toni di prima della batosta elettorale. Non vogliono rendersi conto che c’è un paese che non la pensa come loro.
La politica di Salvini può non piacere alle anime più sensibili dei dem per la forma con cui viene presentata e soprattutto per i contenuti, lontani dalla concezione cristiana e solidaristica della vita, inconciliabili con lo spirito europeistico dominante. Ma se il paese nella sua maggioranza la pensa in un certo modo su taluni problemi, un partito democratico che si propone di vincere le elezioni, che fa? Delle due l’una. O cerca di elaborare proposte che vadano incontro al popolo senza tradire la propria visione della vita, una sintesi chiara e comprensibile che convinca la gente che è necessario e conveniente andare in quella direzione; oppure fa come già si torna a fare, predica accoglienza senza limiti, jus soli ed altre cose simili, che finora sono costate il consenso elettorale. Così si ritorna al punto di partenza. E allora la crisi è assai più grave di come la si immagina, poiché appare di tutta evidenza che la democrazia per come oggi funziona non sarebbe adeguata a far corrispondere alla volontà del popolo una giusta e adeguata élite rappresentativa. Sarebbe cessata definitivamente la stagione di quando la rappresentanza politica riusciva a guidare l’elettorato dove  riteneva fosse più opportuno, quando era l’élite ad indicare e il popolo a seguire. Se oggi accade il contrario, il popolo impone e l’élite lo segue, può essere che non ci siano politici all’altezza o che il sistema non funzioni più; o entrambe le cose. Il problema non cambia, resta da trovare il punto d’incontro. Le élite non possono governare con le bugie, il popolo non può pretendere che si governi senza competenze e capacità.
Ad uscire da una simile situazione dovrebbero concorrere i partiti o i movimenti moderati, che per loro natura tendono a conciliare. Ma dovrebbero farlo con uno spirito nuovo e soprattutto senza le vecchie contrapposizioni dell’altro secolo, quando ben altra era la situazione politica e culturale.  Il Pd, che è l’unico partito rimasto del vecchio sistema politico, ha il compito gravoso e difficile di fare delle scelte coraggiose, prima fra tutte quella di uscire dall’equivoco di partito di centro che va a sinistra, come De Gasperi battezzò la Democrazia Cristiana nel dopoguerra.  Non fosse altro che per il fatto che oggi la sinistra è come l’araba fenice, che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa.           

domenica 3 marzo 2019

Io i Cinquestelle li ho conosciuti in un'altra vita




Io i cinquestelle li ho conosciuti in una mia precedente vita, allora si chiamavano missini; gli stessi che oggi sono sgravati da orpelli nostalgici, duceschi, fascisti. Il papà di Di Maio era missino, e non solo come semplice elettore; il papà di Di Battista lo era e lo è ancora, anzi questo si autodefinisce “fascista”. Moltissimi che oggi votano M5S o sono ex missini o figli di ex missini. Alcuni importanti intellettuali missini, penso a Marco Tarchi e a Pietrangelo Buttafuoco, oggi guardano ai cinquestelle con simpatia. Nei paesi, dove tutti conoscono tutti, è ancor più facile rendersi conto di questo fenomeno di trasmutazione.
Ora i missini hanno sempre oscillato tra destra e sinistra, esattamente come il fascismo storico fu, secondo la famosa distinzione defeliciana, regime e movimento.
Gli eredi del fascismo salodiano – nominazione mai rifiutata – erano sistematicamente esclusi da alleanze politiche e perciò erano particolarmente risentiti e aggressivi nei confronti degli altri; ma quando potevano allearsi perfino coi comunisti, in regime di partitocrazia, lo facevano senza tanti complimenti. Il caso siciliano, la famosa giunta regionale milazziana (1958), non è il solo nella storia della Repubblica.
Per non andare troppo lontano, anche a Taurisano ci fu un’esperienza del genere tra il 1968 e il 1970, quando, per far cadere un’amministrazione democristiana, tutti gli altri si misero insieme, democristiani dissidenti, comunisti, socialisti e missini. A Ruffano, uno dei più radicali missini della provincia, Ennio Licci, entrò a far parte come vicesindaco di una giunta che comprendeva anche comunisti (1991). Di casi simili ce ne saranno stati in Italia chissà quanti.
Non solo a livello di alleanze amministrative, dove poteva prevalere l’opportunità del momento, ma anche a quello più genuino di mentalità. A Taurisano ricordo, nella mia breve e marginale esperienza politica nel Msi, che i consiglieri comunali missini negli anni sessanta volevano mettere nel programma per le elezioni amministrative l’istituzione di un panificio comunale per far pagare alla gente meno caro il pane, che a quel tempo era quasi appannaggio esclusivo di un forno gestito da un parente del sindaco democristiano. Io ero perplesso. Ma come, osservavo, non sono i comunisti che vogliono comunizzare, che combattono il libero mercato? Che c’entriamo noi con simili iniziative? Mi si obiettava che era una misura che andava verso il popolo e che faceva crescere il consenso.
I cinquestelle si sono imposti soprattutto come gli incorrotti e gli incorruttibili, quelli che non cambiano mai, che non tradiscono la causa, che fanno giustizia di qualsiasi ingiustizia, con atteggiamenti verbali radicali e violenti. Si sono imposti come quelli della democrazia diretta, dell’uno vale uno. Molte di queste cose erano già presenti nell’armamentario politico e ideologico dei missini. Del resto, non erano essi gli eredi, duri e puri, del fascismo di Salò?
Soprattutto sul piano temperamentale le affinità tra missini e cinquestelle sono sorprendenti. Anche il transito di molti missini dal dipietrismo di mani pulite va collocato in quest’ottica.
Molti ricorderanno i comizi di Almirante, nel corso dei quali il segretario missino, peraltro figlio d’arte, infilava esilaranti attacchi caricaturali nei confronti degli uomini di regime, dai democristiani ai comunisti, dai socialisti ai repubblicani e ai liberali. I comizi di Almirante erano uno spettacolo. Ad ascoltarlo si organizzavano pullman da tutti i paesi. Il suo linguaggio non era violento e volgare come quello di Grillo, ma puntava a screditare e a delegittimare gli avversari per lo stesso fine strategico: convincere la gente dell’inadeguatezza degli avversari prima dell’attacco politico vero e proprio.
Passare da Almirante a Grillo, dal Msi al M5S, non è stata un’impresa difficile; anzi, a ben riflettere, è stato come uno scivolare dall’opposizione al potere, dopo gli sconquassi inclinati di tangentopoli e il berlusconismo. Una deriva che è stata favorita dal crollo dei valori tradizionali e da una più diffusa ignoranza dei giovani, sempre più lontani dai libri e sempre più incollati ai social.
Imparagonabili sul piano dell’estremismo violento, missini e cinquestelle sono molto vicini sul piano della contestazione radicale. Non più scontri fisici con gli avversari, ma intolleranza nei confronti di qualsiasi dissidenza interna. Chi non sta nella linea viene espulso. Non diversamente accadeva nel Msi, dove il dissenso veniva interpretato come tradimento. Non ho mai assistito a congressi del Msi, a livello provinciale, che non finissero a mazzate, perché si faceva presto a degenerare.
Anche il famoso o famigerato contratto del governo Cinquestelle-Lega denota una visione tutt’altro che democratica. Un conto è, infatti, accordarsi sulla soluzione di ogni singolo problema in maniera compromissoria, rinunciando a qualcosa, un altro è fondare il contratto sulla realizzazione di cose non condivise, ma concesse all’altra parte solo perché l’altra parte concede a te di farne altre, nei confronti delle quali ha lo stesso rapporto di non condivisione. Del tipo: tu mi permetti di chiudere i porti ai migranti ed io ti concedo di chiudere i cantieri agli speculatori; e siccome tu non mi consenti di chiudere la Tav, io non ti cosento di fare le autonomie regionali. Sarebbe stato più politico che avessero trovato punti di convergenza su ciascuno dei problemi.  
Spesso l’errore che si fa nelle analisi politiche dei nostri giorni è il non voler prendere atto che sono mutate tante categorie e che molti punti di riferimento certi non esistono più. Nonostante le differenze, che ci sono e sono evidenti, cinquestelle e lega fondano sul populismo le loro intese. Un populismo non più tattico, come quello di Berlusconi, ma strategico, che rimanda ad esperienze politiche per ora tutte da definire.