domenica 30 dicembre 2012

Verso il voto: chi sale e chi scende, più Moro che De Gasperi



 
Se le parole bastassero ad esorcizzare i fatti avremmo un Mario Monti che “sale” in politica e una chiesa che “scende” in politica. Monti sale perché, nonostante le sue riserve “materne” verso la politica, più volte pubblicamente espresse, in essa ripone il suo grande sogno; che è poi il grande sogno di tutti. Giovanni Verga collocava il potere politico, nel suo progetto dei Vinti, al quarto stadio, inferiore solamente all’Uomo di lusso. Ma per quest’ultimo ne abbiamo avuto uno, Silvio Berlusconi, che basta e avanza. La chiesa, invece, “scende”. Il Cardinal Bagnasco, presidente della Cei, è intervenuto per benedire formalmente Monti; e lì è finita l’acqua santa. Non ce n’è per nessun altro. Non per Berlusconi, ovviamente; non per Bersani e figurarsi per Vendola. Gli altri sono omuncoli. Che volete che siano i Casini, i Fini, i Cordero di Montezemolo, i Di Pietro e via repertando? Ho sentito recentemente Alfredo Mantovano dire: Berlusconi non offenda. Si apprestava, l’uomo di Alleanza Cattolica, a lasciare il Pdl. Fa bene. Fanno bene tutti. Il guaio è che in Italia nessuno fa meglio: tutti bene, nessuno meglio. E il meglio è che quando finisce un’esperienza, bella o brutta che sia stata, si torni al lavoro proprio. Tu che facevi, il magistrato? Riprendi a farlo. Tu che facevi il medico, riprendi a farlo. Invece tutti fanno bene: cambiano col cambiar di luna, come arieggia il duca di Mantova nella donna è mobile. E chi fa meglio? Nessuno, ma nessuno se ne fotte. L’espressione è volgarmente fascista; ma quando ci vuole, ci vuole!
Salire o scendere, dunque, è relativismo dinamico. Certo che Monti sale, ma per lo stesso motivo per il quale la chiesa scende, perché Monti era in basso rispetto alla politica, mentre la chiesa era in alto. Ma basta coi giochi di parole, che se pure significano qualcosa, parole restano.
Quel che occorre considerare è il fatto in tutte le sue articolazioni. Gli italiani vanno al voto, per due terzi, più confusi che mai. Prendiamo il primo dei tre terzi, quello del centrodestra. Il soggetto politico che lo rappresenta è – chiedo scusa per il gioco di parole – impresentabile. Così com’è, è una sorta di armata allo sbando, con gruppi che cercano di stare assieme per sopravvivere. Una sorta di banda che si ritira alla spicciolata dopo un colpo andato a male. Con l’aggravante che non ha più un capo. Ne avrebbe potuto avere uno, perdente-perdente, ma dignitoso e speranzoso in una revanche. Era Alfano. Ma questi è stato ingurgitato da Berlusconi come Cronos della mitologia greca ingurgitava i suoi figli. Berlusconi sta lì per negoziare i suoi affari. In cambio di un suo appoggio parlamentare sotto o sopra banco, chiede di essere lasciato in pace. Tiene famiglia, e che famiglia! Bisogna capire. La Lega – lei non se ne rende conto – ma è finita; ormai vivacchia. La sua carica propulsiva è finita nelle more dei Bossi, padre e figlio, e dei tanti terroni complessati e ladruncoli di polli che a lei si erano avvicinati per proteggersi dai sospetti. Gli ex Msi/An, che storicamente rappresentavano una visione politica di mediazione tra la destra dello Stato e la sinistra della Società, hanno smarrito gli strumenti di bordo e alzano qualche straccio per farsi notare in alto mare da chi potrebbe andar loro in soccorso, fuor di metafora da un certo elettorato. Ma se tanti elettori si rivolgevano al partito neofascista – chiamiamo le cose coi loro nomi – non lo facevano per la nostalgia dei labari e dei pugnali, delle sfilate e delle folle oceaniche, ma perché trovavano le risposte alle proprie esigenze di cittadini devoti allo Stato e di lavoratori alle prese coi propri bisogni. Quell’elettorato oggi avrebbe ragione di rivolgersi più alla sinistra, che almeno c’è, che alla destra, che non c’è più. Non è l’optimum, la sinistra di Bersani & Vendola, ma non c’è altro.
L’ecumene che vorrebbe rappresentare Monti è un paesaggio norvegese tra scogli e fiordi, dove c’è di tutto, dagli ex democristiani in pensione ai berlusconiani pentiti, dai liberali agli uomini dell’economia e della finanza, dai grandi Commis d’État all’esercito di pinzocheri e beghine che da sempre fanno quello che il prete dice. Il chiesume, la vera, autentica, forza che fece vincere a De Gasperi le elezioni del 1948. Ecco, abbiamo tirato fuori  anche noi il De Gasperi, di cui tanto si parla di questi tempi a proposito e più ancora a sproposito. Monti lo scimmiotta, dice di essere un De Gasperi redivivo, ma non ha la Democrazia cristiana dietro e senza quel grande partito lui si può anche travestire da De Gasperi, al massimo per carnevale. Certo, è un’operazione, quella di Monti e dei suoi alleati, estremamente importante, tipicamente italiana. Lo è perché con essa si tenta di impedire che la dinamica politica democratica, secondo la quale ad una maggioranza politica riconoscibile che perde segua una maggioranza politica altrettanto riconoscibile di alternativa che vince, si vuole proporre una soluzione compromissoria, sincretica, tipica del trasformismo politico italiano. Una cosa che poi non lascia individuare i responsabili di un eventuale ennesimo pateracchio.
L’ultimo dei tre terzi, ossia il centrosinistra, oggi rappresentato da Bersani & Vendola, rischia ancora una volta di vedersi soffiato il successo politico, nonostante costituisca il soggetto più coerente e compatto. Nei suoi confronti si sta scatenando in forme diverse, forti da parte del centrodestra, morbide da parte dell’ecumene centrista, una campagna delegittimante, intimidatrice, erosiva. Si agita Vendola come uno spauracchio, l’elemento che potrebbe mettere in crisi l’eventuale maggioranza governativa o ricattare il governo su questioni molto sensibili, come tutta quella materia che investe i diritti degli individui, della famiglia e dell’etica. Se la chiesa è scesa in campo – scesa, comunque si voglia intendere questo verbo – lo ha fatto perché pensa che una vittoria elettorale del centrosinistra potrebbe davvero dare la spallata al vacillante edificio del complesso sistema bioetico del cattolicesimo. E che una vittoria del centrosinistra stia nell’ordine delle cose è talmente evidente che il centro evita lo scontro diretto e spera di catturare dopo le elezioni la sinistra secondo collaudate formule italiane, morotee nello specifico. Perché, a mio modestissimo avviso, non è di De Gasperi che oggi si dovrebbe parlare, piuttosto di Aldo Moro. Qualcuno sa che furono uomini, se non proprio diversissimi, adatti allo stesso ruolo in tempi diversi.

domenica 23 dicembre 2012

Monti, smonta e rimonta


Ormai è quasi certo: Monti guiderà la grande ammucchiata alle prossime elezioni. Altro che grosse Koalition! Faremo impallidire la Merkel. Udc, Italia futura, Fli, ex Pdl ed ex An andranno a formare il più grande ammasso di resti politici. Una sorta di ricetta culinaria con gli avanzi delle feste. Non sarà una schifezza ma neppure una prelibatezza.
C’è poco da fidarsi dei tecnici. Nessuno di essi, in Italia, chiamato a risolvere un problema, è poi rientrato nella sua sfera di appartenenza. Del resto per i latini techna era l’astuzia, la furberia. Dispiace davvero per Napolitano, il quale chiude il suo settennato presidenziale con una furbata, formalmente a lui attribuibile, sostanzialmente da lui subita.
Ancora una volta il centrosinistra, che sembrava avere finalmente a portata di mano il potere, rischia di vederselo scippare. Ma questa volta è assai più grave delle precedenti, perché ad involarglielo non è una formazione politica, ma un rassemblement di tecnici, di imprenditori, di uomini d’affari, di banchieri, di finanzieri, di speculatori, di impolitici, adusi ad obbedir contando e contando avanzar; contando – si capisce – soldi. In questa loro operazione il popolo non ha parte alcuna; la politica sembra bandita, come cosa perversa. I problemi della gente (lavoro, istruzione, sanità, sicurezza, giustizia), ben chiusi perfino da noi tra parentesi, non hanno voce in capitolo. Contano questioni astruse, successi monetari, finanziari, preferibilmente dai nomi inglesi, virtuali, come è successo nel corso di quest’anno. Bisestile, per Dio, con una coda bismontiana! Come dire, due volte bisestile.
La partita elettorale che ci apprestiamo a giocare diventa, a questo punto, fondamentale. Non sarà tra due schieramenti politici che si fronteggiano, con due programmi alternativi; ma tra la politica da una parte e l’antipolitica dall’altra. La politica, rappresentata dall’unica forza – non la migliore o la più credibile ma la sola rimasta – che garantisce una certa continuità democratica, tradizionalmente intesa, che è il Pd, sia pure con qualche alleato scomodo, e l’antipolitica, formata da pezzi vecchi e nuovi della fu Democrazia cristiana, tecnocrati che obbediscono a centrali esterne all’Italia, la giulleria in ordine sparso dei comici (Grillo, Benigni, Crozza) e il neonato partito dei magistrati, tutti insieme ad impedire che in Italia si formi finalmente un governo politico con una sua cultura e una sua prospettiva sociale. Una deriva pericolosa, che potrebbe evocare, se non sarà evitata, l’estrema risorsa politica del popolo, che è l’azione diretta. Che storicamente è a disposizione del popolo, inteso nella sua interezza e complessità, ma non di altri soggetti, neppure se uniti insieme. Banchieri, giullari e magistrati non potranno mai avere, fuori dalla liturgia legale, la forza che ha il popolo nei luoghi reali della politica.
L’aspetto più inquietante della situazione attuale è che il popolo appare come assente dalla prospettiva bismontiana. Un’operazione di vertici, italiani ed europei, benedetta perfino dalla chiesa, mira ad impadronirsi del governo del Paese e a gestirlo secondo logiche tecnocratiche extranazionali. Qui non si tratta solo di perdita di un pezzo di sovranità da parte dell’Italia, ma della perdita da parte del popolo del suo ruolo nel Paese. E’ come se esso fosse precipitato indietro di un secolo, quando non godeva del suffragio universale, introdotto in Italia nel 1913 con limiti peraltro importanti. Questa perdita non è così appariscente. Nessuno si sognerebbe di deprivare il popolo del voto, ma nella situazione politica, a cui si è giunti, il voto popolare è del tutto privo di efficacia. E non solo per colpa del Porcellum – come si dice – che consente alle oligarchie politiche e pseudopolitiche di decidere gli eletti, ma anche e soprattutto per la perdita progressiva del ruolo degli elettori, chiamati a ratificare decisioni già prese in una sorta di rituale.
La prospettiva dell’Italia, ove dovesse prevalere la grande ammucchiata di Monti, è di un Paese sempre più allo sbando, con un governo alle prese con problemi interni, data la varietà dei componenti, e con problemi esterni, ossia con le opposizioni, sia quella parlamentare, che tornerebbe ad essere vera opposizione, sia quella esterna, della piazza, che potrebbe diventare sempre più di tipo greco e spagnolo. Una situazione tanto più pericolosa quanto più assente appare il popolo dalle decisioni attuali.
Un normale avvicendarsi di forze politiche vorrebbe che da queste elezioni uscisse una maggioranza che in questi ultimi anni ha svolto la funzione critica dell’opposizione. Chi in questa maggioranza, di centrosinistra, non si riconosce per una diversità politica e ideologica – e tra questi il sottoscritto – non può d’altro canto non riconoscere che oggi è la sola forza capace di garantire un governo politico responsabile. Tra politica ed antipolitica è sempre preferibile la prima. Non si può non riconoscere che in democrazia è normale l’alternanza e non la perseveranza, più o meno bene mascherata, delle solite forze di dominio.

mercoledì 19 dicembre 2012

"Coccarde rosse" di Annalisa Bari. Un romanzo-saggio che celebra l'Unità d'Italia



“Coccarde rosse. Storia di una brigantessa per caso” di Annalisa Bari (Bompiani, 2012) è romanzo tradizionale, andamento pre-moderno, più otto che novecentesco. Lo è nell’ideazione e nella strutturazione, con la trama da feuilleton, colpi di scena, cambi d’identità, aperture e puntuali chiusure diegetiche. La lingua è rimodulata e, a parte i passaggi dialettali, cede all’omologazione borghese. Un “sangue di Giuda” in bocca a dei briganti ottocenteschi analfabeti è una variatio nominis letterariamente blasfema.
La protagonista è moderna, però, altro che! La sua vicenda, per casi avvincenti e imprevisti, consente di farsi un’idea della varietà e complessità di uno dei fenomeni più complicati della nostra storia nazionale, che è il brigantaggio sullo sfondo della mai risolta questione meridionale. In ciò l’autrice favorita dall’essere una docente di storia, assai informata sui fatti che fanno da sfondo alla vicenda narrata. Sicché il romanzo può essere letto come un autentico saggio storiografico, per l’attendibilità delle varie posizioni esposte, spesso in contraddittorio, ad ognuna delle quali si riconosce, con grande onestà intellettuale, giustezza di ragioni, ed è allo stesso tempo un atto d’amore all’Italia unita, un singolare omaggio celebrativo del suo 150° anniversario.     
Coccarde rosse sono il distintivo dei briganti, degli oppositori ai piemontesi. La vicenda si svolge nella Basilicata tra le pendici boscose del Vulture, che fu teatro di terrificanti scontri tra briganti e soldati all’indomani dell’unificazione nazionale. La giovane Luisa Rubino, orfana di madre, vive ad Andria col padre ufficiale postale e una zia materna, insediatasi in casa con pretese “materne” piuttosto oppressive. Ma Luisa, a cui è stato pianificato un buon matrimonio borghese confacente al suo grado sociale, ha ereditato dalla madre, considerata ai suoi dì una “pazzerella”, il carattere insofferente di imposizioni e scappa di casa. Non sa dove andare, procede “come viene viene”. E’, questa, la formula che percorre tutto il romanzo: come viene viene. Incappa in un gruppo di briganti, comandati da un certo Gaspare, detto Falco, che si riconduce alla banda di Carmine Crocco, il quale ha ingaggiato una violenta guerriglia contro i piemontesi, considerati “occupatori”. Nasce un rapporto di amore fraterno, anche se nella reciproca inconfessabilità lascia pensare a qualcosa di diverso. La giovane nasconde la vera identità, ne assume un’altra: si chiama Eufemia Girone, dice una mezza verità, di essere scappata da casa perché la matrigna la maltrattava  dopo che il padre era morto. Il brigante, che tiene segreta una terribile verità sulla sua condizione – la moglie era stata uccisa col figlioletto ancora in grembo dai soldati – la prende a ben volere, ha per lei un affetto rude, ordina agli altri di non mancarle di rispetto, le insegna a sparare, ne fa una brigantessa. Uno di essi, però, la violenta. Il Falco punisce il disgraziato e porta lei al sicuro in casa di sua madre non prima di averle fatto scrivere una lettera, con la quale si ordisce un’imboscata ai piemontesi, a cui lei stessa prenderà parte con abiti maschili e armata; ma salverà la vita ad un giovane sergente piemontese. Successivamente, tramite un prete manutengolo, il Falco la fa sistemare in casa di un ricco barone, di idee borboniche ma mutevoli col mutar degli eventi. Ivi la ragazza assume la terza identità, dice di chiamarsi Anselma e che era stata avviata al chiostro. Colta e disponibile, si prende cura della piccola Maria, figlia sordomuta del barone e si fa apprezzare per i suoi modi e per il suo operato. Ma accade un fatto sconvolgente, il figlio del barone, un giovane  dedito al vizio del gioco, viene rapito dai briganti, che chiedono un riscatto di trentamila scudi, una somma ingente che rischia di mandare alla rovina il barone. La ragazza, che nel frattempo ha conosciuto un giovane sergente piemontese, Edoardo, che la ama ed è ricambiato, decide di intervenire in favore della famiglia baronale dalla quale era stata accolta così bene. Reindossa gli abiti maschili, assume l’aspetto del brigante e va a trovare il suo Falco; gli racconta l’accaduto e gli chiede di intervenire in favore del barone. Dopo le ovvie iniziali resistenze, il Falco se ne occupa e scopre che dietro al sequestro c’è la macchinazione di un diretto concorrente del barone alle elezioni suppletive per il Parlamento. La faccenda si risolve per il meglio. Ma ad un certo punto la ragazza viene a sapere che i piemontesi stanno tendendo un agguato ai briganti. Lei teme per il suo Falco. Giunge sul posto e nell’infuriare dello scontro apprende che Falco è stato ucciso proprio mentre viene colpita da un proiettile. Presa prigioniera, viene fatta curare e difesa da quel giovane sergente a cui lei aveva salvato la vita. Restituita alla libertà, reincontra il suo giovane innamorato. Si riaccende l’amore, nasce un progetto di famiglia, resta incinta; ma in uno scontro tra briganti e soldati il suo Edoardo viene ucciso. Non le resta che ritornare ad Andria, dal padre, che l’accoglie a braccia aperte, senz’altro. Tutta la storia, che ha carattere di circolarità, è come proposta dal figlio della protagonista, il quale finge di aver trovato lo scritto della madre, scopre di essere figlio di un piemontese e si conferma con ravvivato orgoglio in tutta la sua più completa italianità. 
Il punto di vista della Bari sul brigantaggio è una sorta di irenismo, basato non solo sulle ragioni che un po’ tutti hanno, briganti e soldati, nobili ed ecclesiastici, borbonici e savoiardi, ma anche sulla convinzione che la sfera umana mai taglia gli uomini in maniera netta, distingue tra briganti e briganti, tra piemontesi e piemontesi, e perfino in ognuno di essi dà voce di intimo dissenso, benché soffocato dall’impellenza dell’agire. Cercare linee di verosimiglianza storiografica o ideologica in una simile ottica non ha senso alcuno. La protagonista è una ragazza decisamente moderna, per vocazione ribellistica, per fiducia umana, per visione direi poetica della vita. Come viene viene non è concetto di leggerezza, ma di fiducia nella vita e nella storia. Senza quella cosciente incoscienza non ci sarebbe storia nel mondo. D’altra parte l’autrice ha bisogno di una protagonista moderna per poter trasferire quella vicenda, calata in un contesto di centocinquant’anni fa, nel mondo d’oggi e portare i suoi messaggi costruttivi. Il genere narrativo come quello teatrale se non ha in sé una componente creativa e trasgressiva di posizioni reali diventa monotona litania di accadimenti, in invasione di altro campo. Un romanzo storico – e quello della Bari lo è – non fa eccezione; deve rispondere a criteri artistici ed estetici, nello Zeitgeist in cui viene ideato e realizzato, pur nel rispetto dello sfondo.
L’arte della Bari non si esaurisce nella complessa ma ordinata materia, nell’architettura compositiva, ma in ciò che ogni personaggio ed ogni evento hanno in sé. Che il lettore intuisca la conclusione del romanzo, tanto da trovarla quasi scontata, non ne sminuisce il valore. I due amori devono morire entrambi. Lei deve ritornare alla sua casa, ma porta con sé il frutto del suo pedaggio pagato alla storia, a quel “come viene viene”, che è comunque garanzia di vita. La morte del brigante per mano dei piemontesi e quella del piemontese per mano dei briganti sono consustanziali alla storia, che racchiude sempre in sé un mistero. “Infurian le forze dell’odio ferito – dice il poeta tedesco Hans Carossa – ma sgorga da provvida morte salute”. Ecco, il messaggio forte del romanzo, che è piacevole a leggerlo, ma importante a meditarlo: quel sangue è conseguenza dell’odio ferito, quella morte reciproca sia almeno provvida – concetto manzoniano, peraltro, la provvida sventura – produca finalmente salute, ossia un’Italia, veramente unita e libera, così nei destini come nella vita di ogni giorno. Un’Italia, purtroppo, non ancora realizzata.

domenica 16 dicembre 2012

Il presepe di Berlusconi, il centro e la destra



Sarà l’atmosfera natalizia o forse naturale compulsione che induce Silvio Berlusconi a vedersi nel presepe che sta allestendo ora nel ruolo di San Giuseppe, ora della Madonna, ora del bue, ora dell’asinello e, ovviamente, di Gesù Bambino. O forse vorrebbe essere tutti i pupazzi insieme, compresa la stella cometa. Protagonismo ipertrofico o forse profonda insoddisfazione di sé. Montanelli disse che se Berlusconi avesse avuto le tette avrebbe fatto anche l’annunciatrice alla sua emittente ammiraglia. Montanelli aveva il gusto del paradosso, ma sapeva vedere. Berlusconi è fatto così; anzi, non è fatto, è un tutto fare, è un farsi continuo, è un contraffarsi. Ma gli altri? Quando lo manderanno a strafottere, come si dice nel sanissimo gergo paesano?
Toglie la fiducia al governo Monti con qualche anticipo rispetto alla sua naturale conclusione, servendosi di quel che resta in Parlamento del suo partito. E fin qui, passa! Boccia il governo Monti dopo averlo sostenuto per un anno. E sia, la contraddizione ricade nella dialettica politica, che – si sa – non è il rigore della razionalità. Ma poi, dopo le sassate che gli sono piovute addosso come grandine da ogni parte d’Italia e del mondo, dice: se Monti vuole guidare il centrodestra ovvero il partito dei moderati, faccio un passo indietro; per ora il candidato resto io. Ma non basta. Ad un certo punto rispolvera Angiolino Alfano: potrebbe essere lui il candidato premier. Esclude Dell’Utri da ogni candidatura, ma dopo una telefonata fra i due, non ci sono più problemi. A questo punto, aveva ragione la sua ex moglie, la signora Veronica Lario: il soggetto non risponde di quel che dice e di quel che fa. Andrebbe protetto, ma non nel modo come intende lui e come fanno i suoi avvocati. Ha bisogno di medici. Se non lo “ricoverano”, va a finire che diventa difficile distinguere nel partito chi è il Berlusconi vero dai tanti Berlusconi che gli stanno accanto, come nella lite fra un ubriaco e un sobrio: dopo un po’ non si distinguono, non nella sobrietà ma nell’ubriachezza.
Ora il punto non è più chi vince tra il polo del centrosinistra e il polo del centrodestra. Questo non c’è più come alternativa; e se i suoi responsabili – si fa per dire – non si danno una regolata sparirà come soggetto politico. La partita non si gioca più tra Berlusconi e Bersani, anche se gli unici a non averlo ancora capito sembrano essere proprio loro due; la partita si gioca tra Monti e Bersani. Piaccia o non piaccia a chi pensa a Monti come ad una riserva di lusso della Repubblica, il Professore resta in campo. Non l’ha ancora detto, probabilmente non c’è bisogno che lo dica: illic est et illic manebit optime! Del resto è nella virtù delle cose e nel vizio degli uomini.
Certo, deve prepararsi Monti a dare un dispiacere a sua madre, che gli ha sempre consigliato di tenersi lontano dalla politica. La politica, purtroppo, lo attende. Che è qualcosa di profondamente diverso  da quella conosciuta nel corso dell’anno, tra falsi inchini e false riverenze; funzionali tuttavia a farlo andare avanti nell’esercizio politico-amministrativo del governo. Dovrà conoscere le posizioni preconcette, gli attacchi strumentali, le aggressioni personali, il fuoco amico, i trucchi, gli inganni, le forchette, tutto il campionario della fenomenologia politica italiana, che tende, per esplicita ammissione, a far cadere il governo in carica, fosse come fosse. Si rilegga, perciò, Torquato Accetto; di Machiavelli non c’è bisogno.
Il centrodestra, intanto, deve ricostruirsi e lo deve fare senza Berlusconi e i suoi pretoriani; anzi, lo deve fare bonificandosi dal berlusconismo, malattia assai più grave per le sue mutazioni della stessa sindrome berlusconiana. Preferibilmente come centrodestra, ma se non dovesse essere possibile, allora il primo passo dovrebbe essere fatto in direzione di una separazione della destra dal centro, che, in questo momento, non si capisce più dove stia.  A meno che non si voglia assumere il centro come Giordano Bruno filosoficamente lo intendeva: il centro in ogni punto. Cessi finalmente l’equivoco, prodotto dal bipolarismo di questi anni, di una destra sociale, filiazione del fu Msi, fusa e confusa con la destra economica e finanziaria. Ritorni la destra sociale ad essere un punto di riferimento vero per i ceti medi, per i lavoratori, per la gente che vive nel bisogno; una destra rispondente alle proprie storiche origini e alle tradizionali funzioni sociali. La ripresa del cammino, a volte, è più faticosa e lenta di quanto non sia stato il cammino abbandonato. Di una destra che sappia coniugare lo Stato e la Società, la legge e il bisogno, si sente oggi la mancanza; una destra moderna, proiettata nel futuro, ma che sappia dare risposte immediate. Chi fa politica, senza l’assillo elettorale o il raggiungimento del potere, sa perfettamente che comunque un ruolo finisce per averlo anche nelle decisioni più importanti. Il successo elettorale è un’ossessione che non ha mai disturbato più di tanto chi ama veramente la partecipazione politica. Si ritorni al piacere e all’interesse di farla sapendo di rappresentare uomini e cose, non più e non solo carte e formule in vista di una scadenza elettorale.

domenica 9 dicembre 2012

Monti: fine della corsa



Monti ha rassegnato le dimissioni. L’ipotesi di governare con una sola parte politica della grande anomala maggioranza si è rivelata la solita sbagliata previsione dei giornali italiani, che il più delle volte commentano non le cose reali ma quelle desiderate. Ora, che lascia Monti? 
La disastrosa situazione economico-finanziaria degli italiani è sapientemente nascosta da una situazione positiva dell’Italia nel quadro economico-finanziario europeo e mondiale. Che è come se una persona vestisse Prada mentre sul corpo è coperta di piaghe, ovviamente ben nascoste. Sulla condizione degli italiani c’è poco da discutere. Il “Sole 24 Ore” di giovedì, 6 dicembre, lo ha illustrato in maniera impietosa. Ciascuno lo vede e lo sente sulla propria pelle, su quella dei figli, dei vicini di casa, dei colleghi di lavoro, degli amici al bar, delle persone che incontra per strada. Se vuole avere un minimo di conforto deve recarsi al cimitero, unico luogo che non è mutato rispetto a prima, coi morti morti, con le lapidi al loro posto, coi fiori…beh qui forse si vede che è cambiato qualcosa, se ne vedono di meno e di meno freschi, ma si capisce perché, è la sola dipendenza dal mondo dei vivi, i quali stanno, come si diceva, in ristrettezze assai gravi.
Monti ha fatto pagare agli italiani la non più pericolante condizione dell’Italia. Ma è proprio su questo aspetto che è necessario puntare l’attenzione.
Prima domanda. Poteva conseguire i risultati che si dice abbia conseguito facendo soffrire di  meno gli italiani? Non è facile rispondere, d’altro canto ognuno potrebbe dire e dice quel che vuole in difetto di una controprova. Né la seconda domanda – è poi vero che l’Italia è fuori pericolo? – favorisce risposte attendibili. A sentire gli esperti – non Casini, evidentemente, che, essendo “persona seria”, si vede addosso – sembrerebbe di sì; ma altri e gli stessi protagonisti del governo “salva Italia” dicono che la luce in fondo al tunnel ora si vede e ora no, come il lampeggiare nella notte buia tra gli innamorati di una volta che si lanciavano segnali convenuti. Ma se la luce non si vede, delle due l’una: o non c’è o il tunnel ha delle curvature insidiose che non consentono di vedere l’uscita.
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Fermiamoci al certo, non discutibile: gli italiani sul piano socio-economico stanno peggio dell’anno scorso. Sul piano politico, invece, ci sono italiani e italiani. Quelli del centrodestra stanno di gran lunga peggio, versano in una situazione politica tanto confusa da sembrare inestricabile. Quelli del centrosinistra sembrano meglio messi; e probabilmente lo sono. Dico probabilmente perché le recenti primarie, che comunque hanno restituito alla politica qualche punto in immagine, non sono state di partito – come il filosofo-politico Cacciari sosteneva dovessero essere e come logica e buon senso avrebbero suggerito che fossero – ma di schieramento. Ahi ahi, gli schieramenti! Scartine a parte, Puppato e Tabacci, si ha ragione di pensare che gli altri tre, Bersani Renzi Vendola, non garantiscono compattezza e tenuta ad un probabile governo di centrosinistra. Gli schieramenti, in Italia, non reggono; non sono grosse koalition, come in Germania, qui da noi sono grossi mucchion di interesse immediato, che alle prime scelte importanti si sfasciano. Lo ha dimostrato il centrosinistra coi governi Prodi, il centrodestra coi governi Berlusconi. Quel che hanno fatto a sinistra i Bertinotti, a destra lo hanno fatto i Bossi e i Fini. Si è capito, però, che né il centrodestra né il centrosinistra vogliono davvero cambiare la legge elettorale, il cosiddetto porcellum. L’interesse immediato e di parte rende i politici in Italia giuri e spergiuri nel breve volgere di qualche mese. Forse più che di porcellum si dovrebbe parlare di cochonnerie.
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E’ per la situazione disastrosa in cui versa che il centrodestra ha affrettato i tempi per far cadere Monti e per tentare di ricompattarsi intorno a Berlusconi, approfittando di uno scontento sociale sempre più diffuso nel paese e del fatto che contro ha Bersani, un avversario più attaccabile di quanto non sarebbe stato Renzi se avesse vinto lui le primarie. Ma che grandissima minchiata!
Che l’esperienza Monti abbia più danneggiato il centrodestra che il centrosinistra non c’è dubbio, ma che il centrodestra, per rimediare, voglia azzerare un anno di governo e di tempo, è operazione disperata. Di disperazione ha parlato perfino Berlusconi. Ma la responsabilità di una simile scelta non è tanto sua. Perso per perso, Berlusconi tenta l’ultima carta, quella di fare della Valtellina le sue Termopili, ma di chi gli sta attorno, in particolare di quanto rimane in termini di uomini e di risorse ideali del fu Msi, poi An.
Questi signori dovrebbero un attimo fermarsi e chiedersi che cosa hanno più a che fare – se mai hanno avuto veramente a che fare – con un uomo che ha dimostrato di non saper sacrificare neppure un vezzo o un vizio personali per il bene pubblico. Dovrebbero ricordarsi che fascisti o missini non lo sono stati per tanti anni per nostalgia di saluti romani, labari e gagliardetti, ma per un preciso senso dello Stato, della Nazione e della Società. Un partito, sia quello fascista storico che quello missino, che ha sempre coniugato l’interesse nazionale con le esigenze della società, intesa, questa, nel suo insieme e nei singoli cittadini e lavoratori, non ha niente a che fare con una forza politica, il Pdl o quel che ne resta, formatasi con materiali di risulta dal crollo di un sistema di partiti dal quale il Msi era stato sempre escluso. Se una qualche giustificazione c’era prima, prima cioè che Berlusconi e il berlusconismo producessero gli effetti devastanti che hanno prodotto, oggi non c’è alcuna giustificazione. Oggi è solo l’estremo tentativo – demenziale e patetico per molti aspetti – per non doversi mettere dignitosamente da parte o per non riprendere con forza la propria bandiera e gettarsi nella mischia. Il berlusconismo è anche questo: lo svuotamento di tanti coraggiosi volontari della politica, quali erano i missini, fino a ridurli a dei gusci vuoti.
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Se l’essere di destra o di sinistra non fosse dopotutto come essere interista o juventino, gli ex missini oggi, in difetto di un loro partito, dovrebbero sentirsi più vicini allo schieramento di centrosinistra che non a quello di centrodestra. E dovrebbero sentirsi più sociali che liberali, secondo la loro storia e la loro tradizione. I tempi sono diversi? I tempi sì, ma le strade maestre della politica sono quelle di sempre pur con nomi diversi.  Certo, ci sono moltissime cose – e una più di tutte, la casa madre da cui si è nati – che tengono lontani i missini da tentazioni socialdemocratiche, quali sono oggi le posizioni di Bersani e compagni. Ma, come molti missini anni addietro sono finiti con Di Pietro ed oggi perfino con Grillo, ritengo che non sarebbe meno ignobile che altri ex missini finissero con Bersani, se l’alternativa resta quella di Berlusconi. Salvo che non nasca una forza autenticamente social nazionale, che garantisca il ritorno alla testimonianza politica, da preferire di gran lunga alle squallide esperienze dei tanti berlusconati.

domenica 2 dicembre 2012

Caso Sallusti: se l'obiettivo è l'intoccabilità!



C’è un particolare, assai grave, nel caso Sallusti, il direttore de “il Giornale” che vuole, fortissimamente vuole andare in galera dopo la condanna a quattordici mesi di carcere per diffamazione nei confronti di un giudice, accusato di aver indotto una minorenne ad abortire. Il fatto risale a qualche anno fa, quando Sallusti era direttore di “Libero”. Sallusti non fu l’autore dell’articolo diffamatorio, ma non avendo esercitato il controllo di legge, ne è responsabile al pari del giornalista autore. Il quale, però, non aveva firmato l’articolo col suo nome, ma con lo pseudonimo di Dreyfus, perché non poteva farlo essendo stato radiato dall’Ordine per aver collaborato coi servizi segreti fornendo notizie false per denaro e per essere stato coinvolto nell’affare del sequestro di Abu Omar. Una storiaccia! Nota ed arcinota. L’autore era stato Renato Farina, poi deputato PdL.
Il direttore Sallusti è doppiamente colpevole, verso l’Ordine, cui appartiene, e verso la giustizia ordinaria. Nel suo operato non c’è nulla che possa configurarsi come reato d’opinione, salvo che per aver dato a Farina l’opportunità di continuare a fare il giornalista, coperto da pseudonimo. Sallusti, infatti, si difende asserendo che per lui non si può mai negare a nessuno il diritto di pensiero e di espressione, con ciò violando però il codice penale ed anche il professionale. Se si assumesse Sallusti come esempio, si dovrebbe concludere che chiunque, pur condannato, può fare esattamente le stesse cose che faceva prima della condanna e per le quali è stato condannato. Una situazione da giungla, prepolitica e precontratto sociale: faccio quel che voglio e non quel che devo. Per un direttore di giornale, che opera in una istituzione faro, come è la pubblica informazione, è cosa estremamente grave.
Per l’omesso controllo e dunque per la diffamazione, Sallusti ammette che la notizia data dal Farina-Dreyfys non era propriamente …farina del suo sacco, che era falsa, ma rivendicava l’attenuante che era stata ripresa da “La Stampa” di Torino. Ora, è risaputo che una notizia falsa non diventa vera perché è stata precedentemente pubblicata da un grande e diffuso giornale. Una notizia falsa è falsa, punto e basta. Queste cose Sallusti le sa molto bene. E aggiunge che sì la notizia era falsa, ma non del tutto avulsa dalle competenze del giudice, il quale avrebbe potuto pure decidere per l’aborto della minorenne. Dunque, notizia non vera ma verosimile. Sarebbe questa l’attenuante? Ma, allora, doveva smentire e giustificarsi chiarendo la circostanza.
Se non che di smentita, nemmeno a parlarne. Sallusti si nasconde dietro una scusa incredibile. Dice: nessuno mi ha chiesto di farlo; e l’Ansa, che aveva pubblicato la richiesta di smentita, non era stata letta da Sallusti perché il suo giornale non era abbonato a quella agenzia. Sicché, la notizia falsa, apparsa su “La Stampa”, diventa vera o comunque credibile, sì da impiantare un’accusa al giudice, perché Sallusti l’ha letta; la notizia vera della richiesta della smentita è inesistente, perché mai giunta in redazione e Sallusti non l’ha letta. Siamo ad un livello che è difficile dire se infantile o criminale o semplicemente di quelle vignette di una volta con la battuta “alla maniera di cretinetti”: esiste perché vedo, non esiste perché non vedo. Dal dovere di smentire un falso, a prescindere dalla richiesta, direttamente o indirettamente rivolta, Sallusti non è neppure lontanamente toccato.  
Per condannare Sallusti al carcere la giustizia lo ha ritenuto “soggetto socialmente pericoloso”, sentenza passata in giudicato. E qui è nato il suo caso.
Sallusti ha rifiutato una pena sostitutiva, ha chiesto di andare in carcere, ha impugnato il caso per fare una battaglia per la libertà di stampa. Un giornalista, nell’esercizio delle sue funzioni, non deve essere mai incarcerato, neppure quando – come nel suo caso – è colpevole di diffamazione, recidivo e particolarmente refrattario a riconoscere l’errore compiuto, scuse e scusette a parte. Tutti i direttori di giornale – dice – sono querelati ogni anno decine e decine di volte, compresi i grandi direttori dei grandi quotidiani.  
Su questa vicenda la stampa in un primo momento ha preso posizione in favore di Sallusti ed ha invocato una legge più moderna e in linea con la normativa europea, che non prevede il carcere ma multe e risarcimenti. Il Parlamento, a scrutinio segreto, nel corso di approvazione dell’invocata legge, invece ha ribadito il carcere, trasferendolo dal direttore al redattore, piuttosto che escluderlo del tutto senza se e senza ma, ed ha quantificato le multe in maniera intimidatoria. Invece di mitigare la legge il Parlamento insomma vorrebbe addirittura aggravarla. Quale giornalista, coi tempi che corrono rischia una multa di cinquantamila euro per un errore, che si può anche civilmente ammettere? Meglio la galera!
Ma Sallusti non la smette. Condannato agli arresti domiciliari, non ci sta. Dice che un soggetto “socialmente pericoloso”, come è stato considerato lui, deve stare in galera, se non lo si manda vuol dire che non è quel “soggetto pericoloso” che si vuol far credere. E’ evidente che vuole che la questione si radicalizzi, che tutti ne parlino, che si faccia un gran casino perché in questo modo la parte politica che rappresenta ne tragga vantaggio. E’ fondamentalmente per questo che la stampa, dopo essersi schierata con lui per evitargli il carcere, ora che la questione è strumentalizzata è più indifferente. Così Sallusti, piuttosto che starsene a casa, ha convocato le televisioni e si è fatto riprendere mentre lascia i domiciliari, la casa della sua compagna, la Santanchè, facendosi arrestare nella sede de “il Giornale”. Anche questa scelta è abilmente diretta. Quando mai si è visto violare la sede “sacra” di un giornale da parte dei carabinieri? Ai giudici ha detto: il mio è stato un gesto dimostrativo, non lo faccio più!
Forse non farà lo stesso gesto, ma sicuramente ne farà altri. Perché Sallusti è convinto di essere trattato come il Calimero di un noto spot televisivo di qualche anno fa. Perché lui non accetta la condanna, vuole continuare a dirigere “il Giornale”. Perché ritiene che non c’è diffamazione che tenga quando c’è di mezzo l’informazione.
Ormai in Italia non si lotta per il diritto di tutti, ma per l’abuso e il privilegio. Se c’è la casta dei politici, quella dei magistrati, quella dei medici e dei farmacisti, perché non ci deve essere quella dei giornalisti? Rispondo: perché se pure ci fosse, i giornalisti dovrebbero rifiutarla, perché i giornalisti sono preposti all’informazione e alla denuncia, non alla compartecipazione dei privilegi. I giornalisti esistono per combattere qualsiasi principio di intoccabilità.