domenica 26 marzo 2017

L'Europa deve ritrovare se stessa


L’Europa sessant’anni dopo i Trattati di Roma non soddisfa, è in crisi, è discussa, respinta, ricusata. Perfino chi la rappresenta o la sostiene non ne è contento. E’ un’Europa che non piace. E’ un’Europa vecchia senza essere stata mai giovane. Ed è tale perché essa vive di retorica, ha perso il senso concreto delle cose in nome di un’ideologia tardoilluministica secondo cui certi principi vengono prima di tutto a costo anche di negare se stessa, di mettere a rischio la propria esistenza culturale e politica, il proprio essere soggetto di civiltà e di produttività, di crescita e di benessere.
Alcuni anni fa, al tempo dell’elaborazione della sua Costituzione, progetto poi abbandonato per il rifiuto di ratificarlo con referendum da parte di Francia e Olanda, l’Europa non volle mettere nel preambolo le sue radici cristiane, con grande dispiacere del Papa ma anche di tanta parte dell’Europa che teneva ad avere nel cristianesimo la sua connotazione più significativa.
Si sostenne, all’epoca, soprattutto da parte francese, che libertà uguaglianza e fraternità sono valori laici che escludono qualsiasi connotazione religiosa. Come se oggi, dopo duemila anni di cristianesimo, non si possa considerare il cristianesimo anche nei suoi portati laici!
Non lo si volle inserire nel testo a sfregio anche della storia, che dimostra come l’Europa è nata da un evento ben preciso: la nascita del Sacro Romano Impero con l’incoronazione di Carlo Magno da parte di papa Leone III nel Natale dell’800. L’Europa nacque come una realtà politico-religiosa e come tale è giunta fino a noi, dopo aver respinto ogni tentativo di conquista da parte di popoli non cristiani.
Oggi si sventola come un gran bene il fatto che questa Europa ha garantito settant’anni di pace. Evviva! Ma non si dice che questa pace è stata mantenuta attraverso continui cedimenti, a volte men che imposti neppure richiesti. Stiamo vivendo una delle più grandi invasioni pacifiche della storia, con l’arrivo ormai di milioni di africani e di asiatici, nella stragrande maggioranza di religione mussulmana. Si fa finta dell’ineluttabilità dell’evento, mentre ci sono paesi europei, che, grazie alla loro posizione geografica, si preservano in qualche modo dall’invasione.
La pace garantita ha avuto un prezzo molto alto e più alto ancora sarà in seguito: la trasformazione dell’Europa da come era nata ed era stata per circa mille e duecento anni; un luogo geografico o un’espressione geografica, per usare il lessico del Principe di Metternich. 
Certo, è nella cultura europea e cristiana non respingere gli altri; ma un conto è il non respingerli come uomini di buona volontà, un altro è accettarli come sono-sono per farli concorrere ad una continua trasformazione del proprio essere, per subirne la conquista. Negando il proprio atto di nascita, la propria genitura ha significato per l’Europa una cosa sola: diventare una realtà priva di connotati in continua trasformazione, in balia di quanti da ogni parte della Terra le si riversano dentro per invaderla, conquistarla e imporle ogni trasformazione. La liquidità sociale, di cui teorizzava Bauman, è la pezza che si usa per coprire l’incapacità di difendere la propria identità. Che una tale conquista avvenga con la migrazione pacifica e addirittura assistita o con una guerra poco conta. Il risultato è che l’Europa di una volta non c’è più; soprattutto non ci sono più gli europei.
L’ideologia francese ha prevalso su ogni altra cultura, dopo che con la seconda guerra mondiale era del tutto tramontata l’ideologia romana e germanica espressasi con la romanità del fascismo e col paganesimo del nazismo. Ma la vaga e universalistica ideologia francese ha di fatto sbiancato l’Europa, l’ha privata di ogni colore. Oggi anche gli europei più convinti non si riconoscono più nella loro terra, nella loro patria, nella loro civiltà. Quel che è rimasto del proprio essere europeo è il dato economico e commerciale, in nome del quale si baratta tutto. La conseguenza è che gli europei non si sentono più in casa propria, sia quelli ancora legati alle proprie radici per avere un’età piuttosto avanzata sia quelli che di radici non ne hanno più per essere giovani e per non aver conosciuto la propria storia. Per converso, gli stranieri arrivati continuano ad essere se stessi e rivendicano il diritto di continuare ad esserlo con tutto quello che significa e comporta.
Oggi, la politica bottegaia dell’Europa ha alienato i vari popoli che la compongono. Essi si rinfacciano responsabilità per gli insuccessi e si invidiano reciprocamente i successi. I più forti cercano di far passare l’idea di un’Europa a più velocità, come ipocritamente dicono per nobilitare una vergognosa diseguaglianza, la forza di alcuni e la debolezza di altri. Ma questo significa disfare l’Europa. Nessun suo membro può accettare un ruolo subalterno. Solo nella quantificazione può trovare credito la diversificazione. Un’Europa composta da paesi più forti e meno forti, in base al Pil, ai bond e allo spread, non ha nulla a che fare con l’Europa dei grandi valori. Il che significa che aver rifiutato il cristianesimo come collante di comune identità si è andati alla deriva.
E tuttavia l’idea di Europa deve sventolare ancora come la bandiera più importante. Non con su scritto “liberté fraternité egalité”, non perché questi principi non siano più validi ma perché privi di specificità europea. L'Europa deve avere i segni della sua genitura e della sua storia. Tanto, a prescindere se si sia credenti o meno. Essere cristiani, infatti, non significa più e necessariamente credere in Cristo, seguirne gli insegnamenti umani, ma essere consapevoli di appartenere ad una storia e ad una civiltà ben precise. L’Europa deve recuperare il senso di sé, il proprio sentimento di appartenenza. Solo se è veramente unita, nel rispetto della storia di ciascun suo membro, essa potrà avere quello che fino ad ora non ha avuto: una comune politica estera, una comune difesa, un comune commercio, una comune bandiera. Se questo non si sarà capaci di realizzare, l’Europa continuerà ad andare avanti, ma nell’incertezza e nella precarietà, ritardando e compromettendo un processo che la storia non potrà non portare a compimento.

domenica 19 marzo 2017

Senza programmi non c'è politica


Dice un proverbio che i mali non arrivano mai da soli. Viviamo in piena crisi di tutto, soprattutto di idee e di valori. Ci consoliamo dicendo che ormai tutto è in trasformazione e che la globalizzazione sta agitando il mondo come sulle etichette di certi prodotti è scritto “agitare prima dell’uso”. Il mondo è agitato, per quale uso non si sa. E soprattutto non si sa chi o che cosa lo agita. La teoria di Bauman, secondo cui la società è liquida, non è una prescrizione, è una constatazione. Bauman non ha detto che la società per il meglio di se stessa deve essere liquida; ha detto che è liquida. Per il peggio di se stessa si può aggiungere.
Martedì, 14 marzo – le idi, tanto per ricordare! – due eminenti personalità del mondo della cultura, due autentici punti di riferimento, peraltro di collocazione politica opposta, Giuseppe De Rita e Giuseppe Vacca, ci hanno detto che programmare o avere orizzonti non serve.
De Rita lo ha fatto dal “Corriere della Sera” (Mettete i programmi in soffitta). Dice il Presidente del Censis: “scrivere un programma, metterlo sul tavolo, confrontarlo con le altre parti e presentarlo successivamente agli elettori, come piattaforma di intenzioni e di volontà politiche…è una tentazione che rischia di perdersi in qualche palude pericolosa”.  Il termine programma – spiega De Rita – è invecchiato; i programmi si riducono ad elenchi di parole percepite dai cittadini come stanche e inerti; e infine perché al momento non riusciamo a conoscere e a interpretare la realtà che stiamo vivendo, cui un programa dovrebbe ispirarsi.
Intendiamoci, De Rita non ha torto, ma rinunciare del tutto a programmare, a pensare cosa può produrre un intervento, un provvedimento qualsiasi oltre all’immediato, è come fare calcio all’oratorio, palla fai tu.
Giuseppe Vacca lo ha fatto nella serata dello stesso giorno dal salottino di Lilli Gruber, a “Otto e mezzo” su “La Sette”. In conversazione con l’On. Alfredo D’Attorre e con lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, il direttore della Fondazione Gramsci ha detto che non bisogna guardare all’orizzonte, come suggeriva D’Attorre, perché lui, essendo nato in una città di mare (è di Bari), sa che più ci si avvicina all’orizzonte e più questo s’allontana.
Il concetto è lo stesso: niente programma, niente orizzonte. Più ragionato De Rita, più banale Vacca. Ma se lo dicono due come De Rita e Vacca… Invece ci sono buone ragioni per dissentire, rischiando la lesa maestà.
Intanto i programmi possono essere a breve o a lunga scadenza. Il discorso di De Rita – ma lo stesso è per l’orizzonte di Vacca – vale per i programmi a lunga scadenza. La situazione odierna non consente di guardare oltre un certo limite temporale, dato che tutto appare provvisorio e tutto muta nel breve volgere di tempo. Ma un programma a breve scadenza, “di scopo” come spesso si dice per un governo, non solo è possibile ma anche necessario. Non si tratta solo di sapere dove si va e come e perché si va, ma anche per un elementare senso di democrazia. I cittadini devono essere informati. I programmi rispondono ad un bisogno di informazione, prima di essere un percorso politico-amministrativo, più o meno credibile quando annunciato.
I programmi inoltre sono la carta d’identità dei partiti e dei politici. Prima di tutto la scelta delle priorità. E’ chiaro che un partito di centrosinistra dà priorità a certe cose rispetto ad un partito di centrodestra; e viceversa. Anche la risposta al perché è importante per capire con chi si ha a che fare, per valutare se quel partito è credibile o meno. E perfino il come è importante, dato che nessuno può garantire di fare una certa cosa senza averne i mezzi e senza avere le giuste competenze.
Ridurre tutto ad un empirico e improvvisato fare, come farebbero pensare De Rita e Vacca, significa assestare il colpo di grazia alla politica e alla democrazia, che della politica è l’espressione più alta.
Stupisce soprattutto lo storico Vacca per la sua storia personale di intellettuale comunista. Non è, infatti, una cosa decorativa la presidenza della Fondazione Gramsci: è il riconoscimento di autorevolezza culturale e dottrinale. Che l’orizzonte esalti la relatività è perfino banale: ogni persona ha il suo orizzonte fisico. Inteso come programma, però, l’orizzonte segna il punto da raggiungere se non per sedercisi sopra almeno per vederlo e ripartire.
Le affermazioni di De Rita e Vacca sono gravi tanto più se cadono in un momento in cui la politica è ai minimi termini. Ma mai come in questo momento la voce delle persone autorevoli – e De Rita e Vacca lo sono – dovrebbe farsi sentire forte per il recupero di certi valori. Se invece questa voce si unisce al coro, davvero si aggiunge male al male.

Da Berlusconi a Renzi è stato uno scivolare verso un modo di essere in politica alla buona, all’insegna dello slogan e della battuta, del qualunquismo e del populismo più beceri. I cittadini sono stati considerati come pecore al pascolo. Esse hanno bisogno di brucare, non di pensare né di guardare oltre il pascolo; dunque facciomole mangiare. Niente programmi, niente orizzonti. Tutto qui ed ora. Un gran brutto momento!       

domenica 12 marzo 2017

Donne: il fallimento dell'8 marzo 2017


Martedì 7 marzo, i telegiornali di tutte le reti annunciano che in Italia continua il calo demografico. La popolazione residente in Italia alla data del 1° gennaio 2017 è di 60.579.000 abitanti, meno 86mila rispetto all’anno precedente. Lo dice l’Istat. Le nascite nel 2016, 474mila, sono meno rispetto al 2015, 486mila. I decessi nello stesso periodo sono diminuiti: 648mila nel 2015, 608mila nel 2016, meno 40mila. Il saldo naturale, nascite meno decessi, è di 135mila. Un trend, che se dovesse continuare, porterebbe ad un invecchiamento della popolazione e poi ad una deriva demografica vera e propria. Le donne non vogliono più fare figli; quando li fanno sono mediamente ultratrentenni. Non è un fenomeno solo italiano, ma questo non deve consolarci.
Mercoledì 8 marzo, i telegiornali di tutte le reti sono quasi interamente dedicati alla cosiddetta festa della donna. Si parla diffusamente dello sciopero delle donne in tutto il mondo. Il messaggio è chiaro: vogliono la parità con gli uomini, la libertà, la sicurezza. Basta con le sottomissioni, basta con i femminicidi, basta con le disparità lavorative ed economiche. Il messaggio meno gridato è però un altro: basta coi figli. E’ questa, per natura, l’inalienabile “sottomissione” femminile. Se le donne non vogliono fare figli è per sentirsi più libere di lavorare, di fare carriera, di fare politica, di fare cultura, arte, giornalismo, ovvero conquistare tutte le posizioni tradizionalmente maschili.
Se il giorno prima – 7 marzo – ci si preoccupava del calo delle nascite, il giorno dopo – 8 marzo –  si faceva passare il messaggio che le nascite sono da ascriversi alle tante subalternità femminili, a cui bisogna dire basta. Il giorno prima preoccupazione, il giorno dopo osanna alle cause della preoccupazione.
Esemplificazioni quanto si vuole, ma questa è la logica conclusione. Mai come in questo caso vale il detto della botte piena e della moglie ubriaca. La botte piena sarebbe la società, la popolazione, la moglie ubriaca sarebbe la donna libera da qualsiasi impegno. Ma, come è facile arguire, con una moglie ubriaca di ideologia non si può riempire la botte di figli.
Il nostro mondo purtroppo diventa sempre più sconnesso. La cultura delle società democratiche occidentali sta portando la sua civiltà alla deriva. Senza le donne nel loro ruolo naturale e sociale per l’Occidente è la fine. A forza di rivendicare improbabili libertà sono giunte a distruggere qualsiasi collante sociale. La seconda metà del Novecento si è caratterizzata per una cultura esclusiva, disgregatrice, destruens. Per questo sono state inventate nuove “classi” da contrapporre l’una all’altra. Il ’68 s’inventò la classe degli studenti che rivendica la libertà dalla classe dei professori. I risultati si sono visti: un nuovo analfabetismo si è diffuso in ogni strato sociale, appena appena attenuato dall’abilità di uso dei social. Oggi la classe delle donne è contro non si sa chi. Contro la classe degli uomini? Contro la classe del potere, che pure, maschile è? Lo sciopero dell’8 marzo è stato un assurdo sociale, tanto più per la partecipazione degli uomini, ormai mentalmente asserviti al dio diritto individuale, al faccio quello che voglio.
Non c’è alcun dubbio che l’individualismo, con tutte le sue rivendicazioni di diritti, ha portato alla disintegrazione di ogni forma di società, dalla micro della famiglia alla macro della nazione. Oggi esiste l’umanità, intesa come sommatoria di uno sterminato numero di individui, i quali hanno tutti i diritti possibili e immaginabili a prescindere dalle necessità di ogni insieme. Non conta più il popolo, non la società, non la famiglia, non lo Stato. Conta l’individuo, come è nella sua dimensione psichica e fisica.
Ma la salvezza delle società occidentali passa inevitabilmente dal recupero delle donne ai loro compiti naturali e sociali. Sembra un’utopia regressiva, ma una soluzione diversa non c’è. Certo, deve essere chiaro che non deve trattarsi di un salto all’indietro, ma di una consapevole riparazione di alcune ingiustizie e di alcuni danni subiti nei millenni dalle donne, partendo dal presupposto però che quanto è avvenuto nel passato non è ascrivibile alla natura malvagia dell’uomo ma ad una serie di fattori e di circostanze. Non è più il tempo di quando i nostri padri dicevano alle mogli: taci e fa’ la fèmmina! Allora non c’era la cultura di oggi. Era tutto un altro mondo. Oggi in famiglia c’è più collaborazione, intesa, partecipazione. Semmai, laddove si registra un deficit di tutto questo bisognerebbe insistere con l’educazione. La scuola è l’agenzia principale per un obiettivo del genere. Tendere ad unire, non a contrapporre, a separare; evidenziando gli aspetti buoni dello stare insieme e la ricaduta positiva di qualche inevitabile rinuncia. Se è vero che le lotte femministe fino ad oggi hanno portato indiscutibilmente ad un miglioramento delle loro condizioni, è vero anche che ciò è stato possibile grazie all’avanzamento complessivo delle condizioni culturali, politiche ed economiche. Ma oggi, senza per questo porre dei paletti ad un processo di promozione sociale, si sta andando oltre ogni comprensibile rivendicazione e si sta prendendo la strada del disastro. Occorre avere la consapevolezza che non c’è sviluppo che prima o poi non arrivi alla negazione stessa di ogni principio di ragionevolezza.

Le donne, che continuano ostinatamente a lottare contro gli uomini, non si rendono conto di porsi fuori della società, di perdersi in una bolla ideologica senza via d’uscita. Non si tratta di fare il  Menenio Agrippa della situazione, ma di rendersi conto che ormai come coesione sociale siamo in discesa a rotta di collo. Ecco perché l’8 marzo di quest’anno, che doveva essere una festa, è stato un fallimento.    

domenica 5 marzo 2017

Diritti civili: verso nuove "normalità"


In una recente puntata di “Otto e Mezzo” su “La Sette” il giornalista Paolo Pagliaro, fece il “punto” sull’attività di questa ormai declinante legislatura, concludendo che essa aveva approvato tante importanti leggi sui diritti civili e di bioetica quante non ne avevano approvate tutte le precedenti a partire dal dopoguerra. I tre governi che si sono succeduti, Letta-Renzi-Gentiloni, avrebbero fatto più di tutti i loro predecessori messi insieme. E le elencò: unioni civili, maternità assistita, matrimoni gay, adozioni da parte di coppie gay e via di questo passo.
L’affermazione di Pagliaro è vera in parte, perché tutte queste leggi hanno trovato l’approdo nel corso di questi quattro anni, ma sono partite da legislature precedenti; il che non è di poco conto. Esse hanno solo trovato di recente le condizioni favorevoli, come dire l’accelerata vincente, per tagliare il traguardo. Due sono state le condizioni che le hanno favorite, entrambe legate ad altrettante vacatio: è mancata la politica, nel senso che essa nelle sue forze tradizionalmente operanti, quella cattolica dei democristiani o postdemocristiani e quella delle sinistre, è da anni in crisi, alla ricerca di se stessa e di nuove definizioni. A destra le varie fazioni non si accordano nemmeno su una scampagnata; a sinistra non hanno mai smesso di contrastarsi, come dimostrano le risse nel Pd conclusesi – si fa per dire – con la scissione postreferendaria.
E’ mancata anche la chiesa, che da sempre in Italia ha una grande forza ora persuasiva ora dissuasiva sulle scelte della politica. La Cei (Conferenza episcopale italiana), a parte qualche sommessa protesta, ha lasciato fare, se non addirittura favorito, probabilmente per non acuire il dissidio col Papa, che c’è e si fa sempre più fatica a nascondere.
Nel vuoto di ideali e di contenuti politici forti, nella distrazione generale insomma, hanno avuto la meglio le minoranze più agguerrite del Pd, quelle che hanno capito che finalmente si poteva approfittare. In questo hanno avuto un alleato formidabile e forse anche inconsapevole, il Movimento di Beppe Grillo. I parlamentari grillini, che costituiscono un importante gruppo di potere decisionale, hanno contribuito a far passare leggi promosse da quelle minoranze. Vedi il caso della Cirinnà sulle Unioni Civili, approvata col voto di fiducia e con l’astensione dei 5 Stelle. 
Tutte queste leggi hanno a che fare, direttamente e indirettamente, con la famiglia. Essa ha subito nel corso di questa legislatura colpi micidiali, devastanti ancorché silenziosi, complice la chiesa che ha taciuto. Anzi, se si riflette meglio, ci si accorge che è stato proprio il Papa a indicare il bersaglio. Non solo papa Francesco non ha detto mezza parola di fronte al dissolversi della famiglia, ma addirittura ha operato nella stessa direzione, predicando misericordia e vicinanza alle coppie divorziate e a tutti i conviventi, comu suntu suntu.
Una chiesa screditata, letteralmente privata di credito, ovvero esautorata, ha ben poco da dire ai cittadini. La conseguenza politica è che oggi non solo non c’è più un partito dei cattolici – non ce ne sono proprio di partiti – ma non ci sono più nemmeno i cattolici come soggetti militanti, tesi a difendere i propri valori o a propugnarli.  
Ora, dopo il caso del dj Fabo, morto volontariamente in Svizzera, è la volta del suicidio assistito. A rafforzare una propaganda già eccessiva in partenza, si è aggiunto il radicale Marco Cappato, il quale ha accompagnato Fabo in Svizzera e per questo rischierebbe dodici anni di carcere. In verità non rischia niente. E’, la sua, un’operazione mediatica, per propagandare quanto più possibile l’ottenimento di una legge sulla morte volontaria assistita. La leggenda metropolitana secondo la quale i radicali rischiano anni di carcere dura da troppo tempo e, a quanto pare, come propaganda, funziona ancora. Cappato non farà mai un solo giorno di carcere per aver accompagnato il povero Fabo in Svizzera a suicidarsi.  
Intendiamoci, le problematiche inerenti a tutta la disciplina dei diritti civili possono incontrare in tutto o in parte il consenso del singolo cittadino. In verità non sono questioni da nulla, pongono interrogativi drammatici, complessi e complicati, di fronte ai quali qualunque risposta si dia, che si sia d’accordo o meno, lascia ampi spazi interiori di dubbio e di sofferenza. Ciò non toglie che si debba dire con franchezza la verità. Leggi così importanti sul piano dei valori individuali e sociali prima di tutto riguardano pochi individui rispetto all’incomparabile maggioranza dei cittadini. In secondo luogo esse sono passate con autentici colpi di mano: voti di fiducia ed astensioni. Esse, invece, dovevano vedere tutte le forze politiche impegnate a fondo sui principi e sulle conseguenze delle innovazioni legislative ad esse inerenti. Sicché pochissimi individui hanno prevalso sulla stragrande maggioranza dei cittadini. Questa, purtroppo, è controdemocrazia; accade quando la democrazia è dormiente e lascia che a prevalere sia la minoranza.

Ma l’aspetto più preoccupante è che in prospettiva o la gran parte degli individui si troverà nelle condizioni di chi oggi costituisce una minoranza, dando vita ad una nuova normalità, o ci sarà una reazione per il recupero dell’unica normalità, ossia della tradizionale, frutto di millenni di storia. Allora si porranno nuovi problemi, forse assai più gravi. Una società, quale potrebbe essere in conseguenza di queste leggi, imploderà sicuramente. Non si possono tenere insieme tanti elementi quanti sono gli esseri umani sulla terra, individuali e collettivi, senza un minimo di collante. Allora sarà molto, ma molto difficile ricostruire. Demolire, infatti, è stato sempre più facile e sbrigativo del costruire. E ciò non solo nella società laica, nella politica, nelle istituzioni, ma anche nella chiesa. L’opera ricostruttrice della chiesa durerà molto più tempo di quello impiegato da Papa Francesco nel demolirla.