domenica 30 novembre 2014

Grillo che molla è la fine di un'idea della politica


Ha usato un diminutivo inusuale Grillo per dire che forse si è rotto le scatole; avrebbe potuto dire, suo solito, un’altra cosa. Ha detto: “sono stanchino”, lascio ad un Direttorio la guida del movimento. Con un ultimo gesto d’imperio l’autocrate ha nominato i cinque che lo compongono.
Gerolamo Savonarola, che aveva creato un partito nella Firenze della seconda metà del ‘400, quello dei Piagnoni, a forza di invettive e anatemi minacciosi perfino contro il Vicario di Cristo sulla Terra, finì per lasciare sul rogo le sue velleità. Grillo, che ha creato un movimento, quello degli Arrabbiati, con le sue esibizioni comiche e grottesche, non finirà sul rogo, finirà in pensione. Addio lo stesso sogni di gloria e… puzza di bruciato!
Al di là delle parole usate e del loro retropensiero, la sortita del fondatore di quello che è stato un originalissimo movimento politico nella pur fertile terra degli esperimenti politici, che è l’Italia, non si può non registrare una sorta di resa o qualcosa che precede la resa. Dopo meno di due anni dall’exploit elettorale (febbraio 2013), il Movimento è logoro, usurato, ridotto, incerto sia sul piano tattico che strategico.
Un passo indietro. Quando all’indomani del voto Bersani cercò invano di trovare un’intesa col Movimento di Grillo fu chiaro a tutti che il segretario del Pd cercava l’impossibile. E difatti fu spernacchiato in streaming, come ben ricordiamo, dagli scostumati e irriverenti grillini, che solo per poco non erano riusciti a fare il colpaccio di vincere le elezioni. Il Movimento risultò il primo partito, ma gli altri due erano coalizioni (centrodestra e centrosinistra).
A caldo il Movimento era euforico per lo straordinario successo. Chi poteva convincere la Senatrice Roberta Lombardi dall’astenersi dalla famosa battuta: «mi sembra di essere a Ballarò»? Era troppo presto forse perché il Movimento si rendesse conto che conveniva usare nei confronti del sistema politico italiano il bastone e la carota, non bastando il bastone, per così dire allitterando. L’Italia non era e non è un paese dove si possa veramente ipotizzare una rivoluzione in così breve tempo. L’ascesa al potere, da solo, del Movimento era una velleità; e resta tuttora una velleità.
Grillo ora sembra averlo capito. Le tante espulsioni di grillini, consumate per presunti o veri atti di insubordinazione, di dissenso politico o di atti non commendevoli all’etica del Movimento, come il profittarsi dello stipendio di parlamentare, si capiscono come vera e propria “fisiologica” erosione. Pretendere che le tre anime aristoteliche si riducano ad una, con l’abolizione della sensitiva e della vegetativa, è davvero troppo. I grillini intelligono, sentono, mangiano; come tutti, del resto. Sono uomini e nulla di umano può essere loro estraneo (Terenzio). Grillo lo ha capito tardi. Forse, stando alle illazioni e ai sospetti, che ora gli piovono sul capo come randellate, lo sapeva da sempre, ma era convinto che il possesso di più anime è privilegio di pochi.
Pur usando prudenza nel vendere anzitempo la pelle dell’orso, voglio dire del Movimento, la scelta di Grillo ha avuto un effetto disgregante. E’ tutto un fermento, perché sta venendo meno quel principio che aveva caratterizzato il Movimento, secondo cui ognuno non rappresentava che uno. Ora nella fattoria degli animali, in versione grillina, cinque rappresentano tutti gli altri, cioè una parte rappresenta il tutto. Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni, secondo la formula orwelliana, sono più uguali degli altri. Il Movimento si struttura in partito con una sua classe dirigente. E’ un bene, è un male? E’ normale.
La trasformazione non finisce qui. Ci sono processi nel corso dei quali ogni tappa produce la successiva. In politica  è inevitabile. Se non si porrà su questa strada, il Movimento è destinato a scomparire. Vada che non è più raggiungibile il potere da soli! Ma scomparire dalla scena francamente non è accettabile. Si salva sempre il salvabile. Tanto più vale per il Movimento di Grillo, che non nasce dalla tragedia, ma dalla commedia, all’italiana per giunta.
Per il Movimento sono più che mai importanti i prossimi mesi o forse le prossime settimane. Dove andranno a finire i parlamentari grillini e come si schiereranno per l’importante appuntamento dell’elezione del Presidente della Repubblica? E’ di tutta evidenza che, a parte le scatole di Grillo, che si sarebbero rotte, la scelta del Direttorio è un chiaro cambio di strategia. I grillini vogliono contare, vogliono eleggere il Presidente, vogliono prendere il posto di Berlusconi in un’ipotetica intesa col Pd. Poi, da cosa nasce cosa. E’ possibile che il Movimento trovi la quadra per stabilire percorsi politici meno velleitari e si accontenti di raggiungere traguardi più modesti e in compagnia.

Tutto questo, però, segna un punto importante: il tentativo di raggiungere il potere ponendosi fuori dal sistema è naufragato. L’idea della politica, secondo il verbo di Grillo-Casaleggio e della democrazia della Rete, si è dissolta. Il resto è un’altra storia.         

domenica 23 novembre 2014

Femminismo e giornali: adeguare la lingua alla realtà


Il motivo di fondo che ha legato ben sei interventi al seminario tenuto a Lecce, Palazzo dei Celestini venerdì, 21 novembre, dall’Associazione nazionale “Giulia Giornaliste” e dall’Ordine di Puglia, nell’ambito della Formazione Professionale Continua, cui gli Iscritti sono tenuti, è stato il femminile nel mondo dei media, cartacei e web.
Non c’è dubbio che l’avanzata delle donne nella società, in ogni settore fino a qualche decina di anni fa a loro precluso, pone dei problemi alla lingua italiana. Come chiamare il Presidente della Camera quando è una donna? Come chiamare il ministro? Come il preside di una scuola, il direttore, l’avvocato, il notaio, il consigliere quando sono donne? La stampa è chiamata a dare l’esempio, a tracciare il solco, non solo e non tanto per giungere ad una sorta di uniformità lessicale, che sarebbe lesiva della libertà e costituirebbe un impoverimento linguistico, quanto per non contrastare un processo in corso andando contro la realtà. 
La questione della lingua è forse la più antica delle questioni italiane. Essa si ripropone ogni qual volta c’è una sorta di trasformazione sociale e antropologica importante, come indubbiamente è l’attuale con l’ingresso sempre più massiccio delle donne nel mondo delle professioni, del lavoro e della politica.
Nilde Jotti, Presidente della Camera dal 1979 al 1992, voleva essere chiamata presidente e non presidentessa, accontentandosi dell’articolo davanti a presidente per la precisazione di genere. Anche la Boldrini oggi è dello stesso parere. In tanti altri casi l’articolo non basta, non accontenta. Occorre proprio dire ministra e non ministro, direttora, avvocata, magistrata, notaia e così via. Si rifiuta perfino “direttrice”, che è troppo dipendente dalla vecchia grammatica. Le donne rivendicano una desinenza di genere, specifica, inconfondibile. La lingua deve adeguarsi alla realtà.
Non si può dar loro torto. E nessuno glielo dà. Oltre tutto non serve. Né, a dire il vero, si tratta di dare torto o ragione. Comunicare significa servirsi di un codice condiviso per farsi comprendere in maniera semplice, compiuta e immediata. Già più di due secoli fa Melchiorre Cesarotti, nel suo Saggio sopra la lingua (1785), sosteneva che la lingua deve essere inclusiva delle novità, deve adeguarsi alla realtà per come questa si evolve. La componente dinamica della lingua che riguarda il lessico segue la realtà, a differenza della componente statica che è la grammatica e dell’estetica che è personale di chi scrive e parla.
Non sempre tuttavia è così facile e scontato. Nel caso per esempio dell’espressione “il politico italiano” si capisce subito che si tratta dell’uomo politico. Ma se io dico “la politica italiana” non si capisce davvero che il riferimento è a una donna; piuttosto alla politica in genere. In questo caso per non venir meno alla parità di genere bisognerebbe proprio dire “la donna politica italiana”, con ciò venendo meno però al criterio dell’economicità della comunicazione, che vuole l’impiego del minor numero di parole possibile per comunicare qualcosa.
Dai vari interventi di relatrici e relatori, tutti con qualche vena di rivendicazionismo, si è capito una cosa, in parte condivisibile e in parte no. Le femmine vorrebbero come gli illuministi nel Settecento rivedere lo scibile; gli illuministi alla luce della ragione, le femmine alla luce della lingua al femminile. Non c’è dubbio, nemmeno qui, che c’è un universo di espressioni che pone la donna in posizione penalizzante. Non solo e non tanto – qui la pena è addirittura pacchiana – “tutte le donne sono …”, espressione dalla quale si è partiti nel seminario, quanto anche da più innocenti e coloriti stereotipi, del tipo “moglie e buoi dei paesi tuoi”, altro punto di partenza nel seminario.
Qui, in verità, il discorso si fa meno condivisibile. Appare manifesto un certo fondamentalismo. Non si può, infatti, rinunciare a tutto un patrimonio lessicale, che riproduce e ripropone saggezza, cultura, filosofia, specialmente della realtà popolare nei millenni, solo per non commettere “atti impuri” di presunto antifemminismo. Si dovrebbe rivedere lo scibile e cancellare tutto ciò che “offende” la donna. Ma qui il repulisti sarebbe veramente assurdo: tanta letteratura antica e moderna dovrebbe essere mandata al rogo, stile nazionalsocialista. Sarebbe il trionfo di una controriforma che mette le brache ai nudi del Rinascimento.

Sono convinto che certi processi non si possono né frenare né accelerare. La femminizzazione del linguaggio è un processo in corso, che segue il trasformarsi della società. Come l’acqua anche la lingua scava e trova il suo percorso. Lo fa in maniera spontanea, al di là di resistenze degli oppositori e di forzature dei favorevoli. Avrei dovuto dire degli oppositori e delle oppositore, dei favorevoli e delle favorevoli, giacché il femminismo della comunicazione rifiuta la grammatica che impone il maschile plurale a due  vocaboli di diverso genere. Ma si può appesantire la comunicazione con simili inutili ripetizioni, solo per tenere contente le donne? Io credo che prima o poi saranno proprio le donne a rendersene conto.

domenica 16 novembre 2014

Per i cristiani rischio catacombe


E’ incredibile come dopo 1700 anni dall’Editto di Costantino i cristiani, per il loro essere tali, stiano per essere ricacciati nelle catacombe, da dove erano finalmente usciti. Oggi non è tanto il credere o meno in un Dio creatore di tutte le cose e nel suo figliuolo Gesù Cristo, che comporta la persecuzione, quanto quell’insieme di principi e di valori che ne conseguono sul piano morale, politico e sociale. Il cristiano, mentre in alcune zone della Terra, è ucciso e bruciato vivo – vedi Pakistan e Nigeria – in Italia è costretto a comportarsi come quel tifoso che per tifare per la sua squadra si deve nascondere tra i tifosi avversari se non vuole essere insultato e pestato. E’ tornato ad essere Pietro che nega il suo Maestro.  
Giorni fa l’ennesimo episodio di intolleranza. La Diocesi di Milano aveva mandato una comunicazione a tutti gli insegnanti di religione cattolica per segnalare quelle scuole nelle quali si parla di gay e di identità di genere per delegittimare la differenza sessuale. Dio liberi! Si è scatenata in men che non si dica la canea delle associazioni gay, accompagnata dai latrati delle forze politiche ormai quasi tutte convertite al gaysmo. Come in ogni buriana che si rispetti ci sono state interrogazioni parlamentari e minacce di manifestazioni di piazza. Subito, per arginare la bomba gay, sono giunte le scuse della Curia. E’ stato un errore, anzi un equivoco hanno fatto sapere, Cardinal Bagnasco in testa.
In Italia ormai siamo messi così: chi è gay può e deve vantarsene; chi non lo è deve tacere e chi è contrario deve nascondersi, vergognarsi. Nemmeno ai tempi del fascismo la Chiesa era stata così prona al regime del partito unico. Pio XI escogitò la formula del “bona mixta malis”, come dire “per le cose buone accettiamo anche le cattive che sono ad esse unite”. Salvo ad alzare ogni tanto la voce, perché a tutto c’è un limite.
E solo due giorni dopo è arrivata la timida risposta dell’Arcivescovo Scola, che dopo aver riconosciuto che in materia la Chiesa è stata lenta, ha rivendicato il diritto di poter esprimere quel che pensa su gay e dintorni.
In pieno regime democratico tutto ciò che è contrario al pensiero unico dominante è proibito, anzi è perseguito come un’abominevole infamia e i responsabili del misfatto puniti. Appellarsi al Papa, nemmeno per sogno! Chi è lui per giudicare? Il Papa va a corrente alternata, segue una sua coerenza, che però è misteriosa. Oggi dice una cosa e il giorno dopo un’altra. A volte se ne esce con dichiarazioni che hanno il tono della battuta accattivante.
La verità è che ormai i cristiani non possono neppure difendere la loro morale, la loro visione della vita, i loro modelli sociali, per non incappare nelle ire della piazza incontrastata.
Le poche manifestazioni che ancora riescono a fare i cristiani d’Italia vengono attaccate, anche materialmente, da centri sociali e associazioni gay, come è successo alle “Sentinelle in piedi”, che in qualche piazza hanno testimoniato il loro disagio e la loro protesta, a rischio di essere pestate.
Il Papa, che Dio l’abbia in gloria – come diceva il Giusti (non il comico, ma il poeta Giuseppe Giusti) – si lamenta per le persecuzioni che i cristiani subiscono nel mondo. Ma che oggi in Italia e in Europa il cristianesimo venga perseguitato non sembra punto avvedersene. Divorzio, aborto, omosessualità, maternità eterologa, uteri in affitto, vendita di seme maschile e di ovuli femminili, traffici vari, sono tutte pratiche criminali ridotte a peccatucci, che il Signore – dice Papa Francesco – non si stanca di perdonare.
Nei social network a qualche povero disgraziato che accenna a difendere il suo punto di vista arriva di tutto, contumelie e perfino minacce fisiche al punto che gli conviene chiudere il sito, cambiare account, sparire o mimetizzarsi.
Il governo, presieduto da un cattolico, proveniente dagli scout, non sembra minimamente interessato o preoccupato, in tutt’altre faccende affaccendato. Il paese rischia così una deriva di intolleranza religiosa, oltre che politica, che potrebbe portare a conseguenze disastrose. 
Per ora la gente è come spaventata, risponde come può, nel privato, alle continue minacce e provocazioni. I medici si trincerano dietro l’obiezione di coscienza, a cui li sollecita il Papa in un momento in cui la luce gli si accende.
Manca al grande esercito di cristiani un capo che li guidi, dei generali che non temano di mettersi alla testa dei loro credenti. Mancano i preti di strada e di piazza, di forum, come una volta, per prendere parte con coraggio e chiarezza ai dibattiti, per difendere la loro fede religiosa, i loro modelli di famiglia e di società.

Per fortuna non ci sono più i circhi per buttarli lì dentro e darli in pasto alle belve feroci. Ma se le piazze si trasformano in circhi le bestie feroci si materializzano, come già è accaduto. Oggi è più facile che uno dica sono gay e me ne vanto anziché uno che dica io sono contrario ai gay perché credente e cristiano. Gli pioverebbero addosso accuse di omofobia, di sessismo e correrebbe il rischio di essere perfino accusato di discriminazione razziale. Il giorno in cui fosse pure linciato saremmo al capolinea di una nuova storia con un altro Stefano protomartire.

domenica 9 novembre 2014

Il caso Cucchi e lo Stato risarcitore


Il caso Cucchi rischia di diventare un caso emblematico di come lo Stato in Italia si deve far carico, sborsando risarcimenti milionari, delle colpe, delle negligenze e delle nefandezze dei suoi rappresentanti ai più vari livelli e nei più vari settori.
Morire in ospedale dopo un’operazione o un parto; non essere soddisfatti di un intervento chirurgico dal quale non si è guariti del tutto; morire in un carcere, cadere dalle scale di un edificio pubblico, inciampare per strada ad un sanpietrino fuori livello, scivolare su un marciapiede, urtare contro una barriera – si potrebbe continuare con una casistica infinita – tutto può essere motivo di una richiesta milionaria per risarcimento danni. E chi paga? Paga lo Stato, quando ne è il diretto interlocutore; l’ente pubblico in tutti gli altri casi.
Lo spettacolo a cui stiamo assistendo da qualche giorno in qua per il caso Cucchi è odioso in sé. Per un verso è la prova provata che lo Stato non funziona, per un altro è la strumentalizzazione di un giovane morto, forse per percosse ricevute nel carcere, forse per altre cause, che la giustizia non è stata in grado di provare. Quel giovane non doveva morire, non doveva essere picchiato in carcere, nemmeno se si fosse ribellato agli agenti, se avesse bestemmiato loro i morti, se li avesse offesi a morte nei loro affetti più cari, se li avesse presi a calci, a morsi, a unghiate. Questo è indiscutibile. Purtroppo qualche volta accade che gli agenti si lascino trasportare dall’ira e si abbandonino a violenze. Poi, per una serie di complicità, di solidarietà di corpo, di omertà diventa difficile, quando non impossibile giungere ad individuare i colpevoli.  
E’ scandaloso che un caso simile non sia stato chiarito, individuando i responsabili, che ci sono sicuramente. Di fronte all’assoluzione di tutti gli imputati la famiglia, la mamma e la sorella, la sorella soprattutto, ha fatto l’ira di Dio, spalleggiata dai media e perfino da alcuni eminenti personaggi delle istituzioni civili e della Chiesa, come il Presidente del Senato Grasso e il Presidente della Cei, Cardinal Bagnasco. La famiglia Cucchi non ha torto, vuole giustizia. La giustizia gliela deve garantire lo Stato e se non è in grado di farlo deve risponderne.
Ma intanto quel povero giovane è ostentato come una macabra icona tante volte al giorno, per giorni e giorni, quanti sono i telegiornali delle televisioni nazionali e locali. Non so, ma meriterebbe rispetto. C’è una legge, in Italia, sulla privacy che vieta perfino di fotografare e pubblicare un morto per incidente stradale mentre giace esanime sulla strada. Non vale per i famigliari, i quali possono dell’immagine del proprio congiunto farne pubblico uso? Meditiamo su certi eccessi.    
Il processo comunque si rifarà. Probabilmente non troveranno i responsabili, ma siccome quel giovane è morto in una struttura dello Stato, quando era sotto tutela dello Stato, lo Stato sarà chiamato a pagare risarcimenti milionari.
Questo può diventare un problema per lo Stato, che non versa certo in condizioni felici per fare fronte a salassi del genere. Di giudici politicizzati o mediocri, di medici disattenti e faciloni, di dirigenti e manager che sbagliano, ce ne sono tanti che il risarcimento può diventare un business, una vera moderna acchiatura. Pensano gli avvocati, che in questo genere di vicende sguazzano una meraviglia. In questo paese, che si vuole dire europeo, infatti, cerca che trovi, perché si vive nella strafottenza più diffusa. Europei lo siamo nelle leggi, che ormai siamo obbligati ad adottare; ma nella loro applicazione siamo da paese di terzo mondo, assai particolare per giunta. Non c’è ente pubblico che curi il territorio con diligenza e senso della legalità per evitare danni e disastri. Lo vediamo ogni anno in autunno quando le piogge sconvolgono intere città. Non c’è rispetto del cittadino, a cui spesso qualche cialtrone di impiegato dice di ringraziare Dio per qualcosa che era suo dovere fare.
Nel diffuso senso di incolpevolezza e di impunibilità, che regna in Italia, può accadere che ad un povero malato dei medici alla buona facciano l’intervento alla me ne fotto con conseguenze a volte anche mortali, che un arrestato riottoso e maleducato venga picchiato a sangue dagli agenti, che in una strada dissestata e mai riparata qualcuno possa cadere e farsi male, può accadere questo ed altro. Lo Stato è chiamato poi a pagare, come se fosse il nemico pubblico, il malvagio in agguato, il colpevole di tutte le nefandezze diffuse nel paese.
Ma a nessuno viene in mente di prenderne le difese? Il pubblico ufficiale, il dirigente, l’impiegato, il politico, il rappresentante delle istituzioni fanno a gara a chi più e meglio lo aggredisce. Se qualcuno si azzarda ad accennare ad una difesa, viene zittito, come è accaduto al Presidente della Corte d'Appello. Quando il Presidente del Senato si schiera dalla parte del cittadino, che può avere torto o ragione, non pensa minimamente che sta oltraggiando lo Stato, perché una sentenza,  di assoluzione o di condanna, è stata emessa da un suo organo, non da un’assemblea di condominio. Quando il Cardinal Bagnasco, mischiando il sacro e il profano, chiede giustizia terrena, si rende o no conto che sta colpevolizzando lo Stato? 
Ma se tutto questo accade, evidentemente c’è una ragione. La convinzione che in questo paese non funziona più nulla. Gli operatori scolastici sanno che la scuola non funziona, i magistrati sanno che la giustizia è una favola senza morale, i politici pensano agli interessi propri, di soldi e di carriera, i preti pensano, con Elsa Morante, che in fondo la storia è tutta uno scherzo. Ecco perché, quando lo Stato viene accusato, per le manchevolezze dei suoi rappresentanti, non c’è chi ne prenda le difese. 
Per tornare al caso Cucchi. Le parti in causa, la famiglia da una parte e i responsabili, finora ignoti dall’altra, faranno di tutto per scaricare sullo Stato le responsabilità, che invece sono di persone singole e ben individuabili. Penseranno gli avvocati e i giudici, ancora una volta, a raccontare la favola senza morale della giustizia italiana.

domenica 2 novembre 2014

Destra: liberarsi dalle parole e uscire in campo aperto


La crisi che ha colpito la politica non ha risparmiato nessuno dei grandi partiti, nessuna delle grandi ideologie, al punto che in crisi è entrata anche la terminologia, fino a far perdere a destra e sinistra i connotati culturali e storici tradizionali. La destra, intesa come conservazione e all’uopo reazione, presenta una condizione devastata. Oggi tutto l'universo della destra è in dissoluzione: l’individuo, la famiglia, la nazione, lo stato, la legge, dio, la chiesa. Chi si attarda a difendere l’individuo nel suo genere, maschile e femminile; la famiglia formata da padre, madre e figli; la nazione con la sua sovranità, i suoi confini, il suo jus sanguinis; lo stato nel suo primato; la legge come garanzia di giustizia, di difesa dei diritti; dio, giudice misericordioso ma anche severo; la chiesa, come universo di valori indiscutibili; insomma, chi si ostina a difendere simili principi e valori, tradizionalmente di destra, perde tempo. La destra è stata sconfitta su tutti i fronti. Oggi sono legittimamente accettati maschi, femmine, gay, transgender nel più assoluto egualitarismo; la famiglia può essere formata da due e magari più in là da una cooperativa dello stesso sesso, i quali possono adottare bambini, che peraltro possono essere costruiti in laboratorio; la nazione è de facto se non ancora de jure una provincia di una sorta di nuovo sacro romano impero della nazione germanica, senza confini segnati e rigorosamente difesi; lo stato si è devoluto in favore di pezzi e pezzetti territoriali e amministrativi e considerato una sorta di freno alle libertà e allo sviluppo dei cittadini; la legge costituita è continuamente violata, anche da chi dovrebbe difenderla, allo scopo di farne approvare una nuova; dio non ha identità, ciascuno ha un suo dio e nessuno può dire che il proprio sia l’unico o il migliore; la chiesa è un’azienda che si preoccupa del fatturato non di anime ma di potere economico e politico, apre a tutti pur di non perdere nessuno; il papa a Roma sta come a Macondo.
Di fronte a simile scenario, chi autenticamente fosse di destra dovrebbe scatenare la reazione, riportare l’ordine delle cose allo status quo ante. Ma già pensarlo è assurdo. Bisogna sempre partire dall’esistente, dalla realtà. E già questo significa ragionare di destra. Ma non basta: la destra deve uscire in campo, con parole nuove, categorie di pensiero nuove, con una propaganda nuova. Deve rispondere ai cittadini, alle loro domande, ai loro bisogni, alle loro aspettative. Ancora una volta è la realtà a dettare i tempi e l’agenda. E la realtà – lo ricorda ogni tanto il filosofo Emanuele Severino – è la tecnologia che avanza senza sosta.
La realtà dice che oggi non ci sono più le classi sociali, c’è una sola classe all’interno della quale si diversificano posizioni individuali, al massimo categoriali, peraltro in continua mobilità. Da questo punto di vista la destra è avvantaggiata, perché ha dalla sua parte due grandi esperienze storiche: il cattolicesimo e il fascismo, che, in attesa di giungere strategicamente all’annullamento delle classi, erano per una collaborazione tra le stesse in nome di superiori interessi, morali e spirituali per il cattolicesimo, politici e sociali per il fascismo.
Una parte del cattolicesimo si ritrova oggi nel Pd, partito di centrosinistra, in posizione egemonica rispetto alla componente veteroclassista. Un’altra parte si ritrova in alcune formazioni di destra o di centrodestra, fra cui Forza Italia e Ncd, in cui vive una condizione di incertezza e di spaesamento. E il fascismo? Si potrebbe dire che non esiste più come partito o movimento strutturato, con la consapevolezza del suo essere stato, del suo essere e del suo voler essere. Quel che resta è un residuo dell’unico partito neofascista del Novecento, ossia il Msi. Chi a questo partito si rifà anche per un’esigenza genealogica deve prendere atto che gran parte del suo bagaglio ideologico e politico, quello per così dire di destra, è in questo momento indifendibile. Gli resta quell’importante componente che fu nel fascismo e che è stato nel Msi, ossia il pensiero e la prassi sociali. Oggi numerose formazioni si rifanno ad un nuovo nazionalismo pragmatico e di corto respiro (immigrazione clandestina, cittadinanza italiana, antieuropeismo) senza effetto rilevante, se non per testimoniare una presenza sempre più velleitaria. La loro azione è vanificata dal loro essere divise e facilmente delegittimabili quali residui di fascismo. Forza Nuova, il Fronte Nazionale, Casa Pound, Fratelli d’Italia, la Destra sono formazioni che si ostinano in modo diverso a tenere accesa la fiamma della destra. Su queste istanze dovrebbero mettere un coperchio sopra, almeno per il momento; torneranno queste ad essere vincenti quando ci sarà il fallimento dell’attuale ubriacatura individualistica ed edonistica. Dovrebbero invece puntare su quel che può essere utilizzato del loro patrimonio, che è il radicalismo sociale del lavoro e della prospettiva, del benessere materiale e sociale, dell’ordine e del rispetto, che è qualcosa di condivisibile anche fuori dagli steccati tradizionali.
Per questa nuova esperienza politica ogni riferimento al passato è freno e impedimento. Occorre inventare un lessico politico nuovo, in cui si ritrovino quanti anche di opposta provenienza, nemici storici anch’essi in difficoltà nei loro steccati ideologici, sono fermamente convinti dell’efficacia del nuovo percorso. Allora al primo punto non ci può essere che la liberazione dalle parole, di cui finora si è stati prigionieri. Almirante, negli anni Settanta, parlò di guerra delle parole, vinta dalla sinistra perché disponeva di enormi strumenti di propaganda; oggi dalle parole ci si deve semplicemente liberare, se esse invece di far stare con altri dividono e respingono dagli altri.