domenica 24 aprile 2016

Davigo versus Cantone


Il Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Piercamillo Davigo ha dichiarato guerra all’universo mondo italiano della politica e della corruzione. Procede come una pala meccanica. L’avevo già sentito a “Otto e Mezzo” dalla Gruber su “La Sette” prima di leggere la sua intervista sul “Corriere della Sera” di venerdì, 22 aprile.
Difficile dargli torto. Un buon cittadino sta dalla sua parte, che è quella della giustizia impegnata contro la corruzione di tutti, politici in primis. Direi che con lui sta l’uomo qualunque, qualunque non in senso deleterio, ma il cittadino che lavora e vuole che le cose funzionino e che i ladri, chiunque essi siano, vengano messi nella condizione di non rubare. Come? Fate voi, dicono i cittadini agli operatori della giustizia; siete voi gli esperti di delitti e castighi.
Senonché Davigo attacca anche i magistrati e getta qualche sospetto perfino su Raffaele Cantone, il Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, nominato da Renzi nel marzo del 2014, magistrato pure lui. Dice: “Lo capisco. E non aggiungo altro”, in relazione al fatto che prima Cantone sosteneva che coi politici corrotti bisognerebbe fare “come si fa coi trafficanti di droga o di materiale pedopornografico: mandando i poliziotti ad offrire denaro ai politici, e arrestando chi accetta”. L’allusione di Davigo è agli amoreggiamenti politici di Cantone.
Cantone in Italia è invocato come un santo taumaturgo. Ognuno lo vorrebbe al vertice di tutto; perfino della chiesa se si potesse. Non c’è che lui. L’attacco di Davigo è suonato come una bestemmia. All’ex dottor sottile del pool milanese di Mani Pulite evidentemente non piacciono i magistrati che poi vanno a finire per fare i ministri o addirittura i presidenti delle Camere, come Grasso che è l’attuale Presidente del Senato. Un magistrato, che miri a fare il politico, difficilmente sa fare il magistrato fino in fondo coi politici corrotti. L’ira funesta di Davigo s’impernia proprio qui. Perché – a suo dire – mai come oggi imperversa la corruzione; e c'è bisogno di magistrati-magistrati.   
Per lui i politici “non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi. Rivendicano con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto”. Se ciò è vero, è gravissimo. Saremmo di fronte a vera e propria tracotanza.
Davigo è uno che ha buona memoria. Ricorda perciò che prima che esplodesse il processo di Mani Pulite c’era stato il tentativo da parte di alcuni ministri e grossi esponenti del Psi di legalizzare le tangenti. Che è come legalizzare la camorra, dato che essa si riserva una quota dei guadagni da ogni attività lavorativa sotto forma di protezione o copertura.   
Ma l’aspetto grave e gravissimo della corruzione pubblica in Italia è che neppure se si arrivasse alla legalizzazione della tangente, il fenomeno corruttivo cesserebbe. Abbiamo l’età per ricordare come prima della legge del finanziamento pubblico dei partiti (Legge Piccoli del 1974) si diceva esattamente che la corruzione dei politici nasceva dal fatto che la politica costa denaro e che in difetto di una legge che ne regolasse il finanziamento era giocoforza prenderlo dagli imprenditori. Fatta la legge, si continuò a prendere soldi, in modo più o meno mafioso o camorristico. Ti do l’appalto se mi dai il tot per cento. E così andarono per anni le dazioni, fino a quando non diventarono ambientali; quando cioè non c’era più bisogno neppure di chiederla la tangente; partiva da sola. La politica oggi in Italia è la lupa dantesca che “mai non empie la bramosa voglia, / e dopo il pasto ha più fame che pria”.
A distanza di tanti anni – è passato quasi un quarto di secolo – siamo perciò punto e daccapo. Anzi, stando a quanto dice Davigo – e a quanto vediamo e sentiamo – le cose sono peggiorate; stiamo a due punti e aperte virgolette. E’ come se un coniuge fedifrago, che prima tradiva di nascosto, ad un certo punto pretenda di farlo coram populo, magari perfino davanti ai figli, perché imparino come si fa.
Contro Davigo si è sollevato gran parte del mondo giudiziario, perfino la stessa associazione di cui ha la presidenza e che probabilmente dovrà lasciare. La partita è importante, si gioca su due tavoli: uno è quello della corruzione, l’altro è quello dei magistrati in politica.
Sul tavolo della corruzione fra Davigo e Cantone chi ragiona più da magistrato è Davigo; chi ragiona più da politico è Cantone. Il quale sembra avviato a finire tra qualche anno ad una altissima carica istituzionale, non si esclude la presidenza della repubblica; già se ne parlava all’ultima elezione. Si esprime come un politico di grande equilibrio e cerca di accattivarsi le simpatie dei politici. “Non si risolve tutto con le manette” dice e riconosce che del marcio anche nella magistratura.
Sul tavolo della politica Davigo ha detto: “Secondo me i magistrati non dovrebbero mai fare politica”. Non così Cantone, che, a stretto giro di stampa, gli ha replicato: “E’ sbagliata l’idea che un magistrato non possa fare politica; è sbagliato semmai che dopo aver fatto politica torni a fare il magistrato” (“Corriere della Sera” del 23 aprile). E se uno facendo il magistrato si costruisce l’esito politico, come la mettiamo?
Sta di fatto che ora Cantone è in una posizione ibrida. In quanto presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, fa il magistrato o fa il politico o fa entrambe le cose? Formalmente, come magistrato è in aspettativa e ha dichiarato che al termine del suo mandato, 2020, tornerà a fare il magistrato. La sua posizione non sembra proprio molto comprensibile e lineare.
Ne sentiremo ancora tra questi due magistrati, che ce l’hanno con la politica, uno per troppo disprezzarla, l’altro per troppo amarla. 

lunedì 18 aprile 2016

Referendum: tutti nel taschino di Renzi


La preoccupazione che anche questo referendum, cosiddetto delle trivelle (17 aprile 2016), finisse come quello sull’acqua del 2011 c’era. Allora si raggiunse e si superò il quorum, anche se poi l’acqua, di riffa o di raffa, è andata a finire in parte in mano ai privati, che era quanto il referendum voleva impedire. La si avvertiva man mano che personaggi importanti, come i presidenti di alte e altissime istituzioni, compreso l’ex Presidente emerito della Repubblica Napolitano, si scomodavano a pronunciarsi sull’opportunità di andare a votare o sulla legittimità di non andare.
D’altra parte per votare l’abrogazione della norma che legittima lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e di gas esistenti entro le acque territoriali fino al loro esaurimento si erano pronunciati in molti: le nove regioni che avevano chiesto il referendum, pur con qualche successiva defezione (l’Abruzzo, per esempio), il Movimento 5 Stelle, Forza Italia, una parte del Pd, i socialisti nonostante Nencini, associazioni ambientaliste, vescovi. C’era obiettivamente di che preoccuparsi o di che sperare, a seconda dei punti di vista.
Il risultato, poco più del 32 % di votanti, è che il quorum non è stato raggiunto; assai al di sotto di paure e aspettative. E consideriamo che non tutti i votanti hanno detto SI, il 14 % ha detto NO.
Cosa è accaduto? Si potrebbero dare due risposte immediate. La prima è che in effetti il referendum era una follia pura dopo che la questione delle prospezioni e trivellazioni in acque territoriali erano vietate con la Legge di Stabilità del dicembre 2015. La seconda è che quella che sembrava l’invincibile armada referendaria si è dissolta come nebbia. L’impegno del Movimento 5 Stelle per la morte di Casaleggio è stato un po’ distratto dal referendum. I vescovi e non pochi enti e circoli della società civile sono venuti meno quando si sono accorti che la partita era stata caricata dai referendari di valenze politiche precise, contro il governo. In campo sono rimasti i soliti instancabili ambientalisti e i sinistri senza se e senza ma di Rifondazione, dei centri sociali, di Sel e via sinistreggiando. Troppo poco per far raggiungere comunque un risultato significativo. I 14 milioni di contrari alle trivelle sventolato da Emiliano e i 16 da Brunetta – si riferivano agli stessi – sono le classiche risposte di chi non vuole darla a vedere di aver perso; e perso male per giunta.
Non so se altrove di uno che riesce a spuntarla con più avversari si dice che se li mette nel taschino; beh, dispiace doverlo ammettere: ancora una volta Renzi se li è messi tutti nel taschino. Sembra proprio che ci sia una forza occulta che guidi i suoi avversari a comportarsi in modo tale da finire bastonati, regolarmente, da lui.
Il Referendum tuttavia ha dimostrato – ma serve ad un ciuco che non vuol sentire? – che è sbagliato puntare sul referendum quando non c’è una ragione forte e sentita dal popolo; sbagliatissimo quando si carica il referendum di significati impropri e truffaldini; risibile quando per convincere a votare in un certo modo si portano argomentazioni tanto ingannevoli quanto pedestri. Nel Referendum del 17 aprile molti elettori sarebbero andati a votare e avrebbero votato senz’altro SI se avessero avuto chiaro il fine e chiare le ricadute dell’esito. Invece i referendari hanno prospettato scenari apocalittici, del tutto fantasiosi e comunque lontanissimi dal verificarsi. Più concreti i sostenitori del NO all’abrogazione, i quali hanno detto che se non proprio nell’immediato ci sarebbe stata la perdita di posti di lavoro nell’ordine di diverse migliaia, oltre al bisogno del gas e del petrolio che non avremmo avuto dai nostri giacimenti.
Anche la cosiddetta trivellopoli per il noto scandalo del petrolio della Basilicata si è rivelata a chi ragiona sui fatti un pretesto, anche questo puerile. Che si fa, non si pianta un albero perché i ladri possono rubare i frutti? Non si estrae più petrolio perché ci sono i corruttori e i corrotti che ne approfittano per arricchirsi? Via, siamo al XXI secolo e si cerca di carpire un voto ad un referendum con simili patacche?

Questa tornata è stata vinta da Renzi; è perfino di cattivo gusto dirlo. La vera partita si giocherà a ottobre col referendum confermativo sulla riforma costituzionale. Allora non ci sarà bisogno del quorum e sarà un confronto all’ultimo voto. Allora sì che Renzi corre il serio pericolo di dover lasciare, per suo stesso impegno d’onore. Ma, attenzione, se i suoi avversari sono quelli visti finora, “rischia” di doversi dotare di una bisaccia; il taschino non bastando.

domenica 17 aprile 2016

Casaleggio, il dittatore mancato


Chi muore è sempre il migliore di casa. Così per Gianroberto Casaleggio, taciturno e tenebroso fondatore della “rete”. E’, questa, un’invenzione che si basa sulla comunicazione elettronica in tutte le sue applicazioni, e tiene insieme persone che non si conoscono fisicamente ma che possono conoscersi attraverso il web e concorrere a creare un movimento politico autenticamente democratico e diretto, che decide in tempo reale sulle scelte.
Il primo, in Italia, ad introdurre nel lessico politico italiano la parola “rete” fu Leoluca Orlando, il quale nel 1991, uscito dalla Democrazia Cristiana, che, nonostante i di lui 70.000 voti di preferenza alle elezioni del 1990, non volle sindaco di Palermo, fondò “La Rete – Movimento per la Democrazia”. Durò una decina di anni. Nel 2000 Orlando rientrò all’ovile, ovvero a quanto restava della Dc diventata “Margherita”. La “Rete” finì poi come tanti altri soggetti politici seguiti alle sventure della partitocrazia.
Certo, non si può paragonare la “rete” di Leoluca Orlando alla “rete” di Gianroberto Casaleggio; sono cose profondamente diverse, se non altro per la fisicità e la trasparenza dell’una e per la virtualità e opacità dell’altra. La “rete” di Orlando era un movimento tradizionale, fatto di sezioni, di comizi, di incontri, di comunicazione telefonica e cartacea, di propaganda, finalizzata alla rappresentanza nelle istituzioni attraverso le elezioni. La “rete” di Casaleggio è fondata sul web, per consultarsi direttamente e in tempo reale su alcune specifiche scelte di politica, di candidature, di provvedimenti, anche disciplinari, come si è visto in questi ultimi anni, dopo le elezioni del 2013. E, a quanto pare, per spiare e tenere sotto controllo le persone che ne fanno parte. Per certi aspetti ha il profilo di una loggia massonica, di un partito "segreto", che non ha i caratteri del partito tradizionale, strutturato in sezioni sul territorio, organi di stampa, finanziamenti e quanto altro conosciamo dei partiti.
Infatti, salvo che l’acqua invece di precipitare per il pendio non vada in salita – ormai può accadere anche questo in Italia – pare che nel movimento di Casaleggio, che è poi di Grillo, che è poi il Movimento 5 Stelle, di democratico non si capisce che cosa ci sia. La “rete” non può essere ascritta ad un fine, ma è un mezzo per fare politica. La scienza politica non può definirla diversamente. Come mezzo, perciò, va analizzata e studiata.
Prima, se si voleva sapere l’opinione di una persona la chiamavi al telefono o le scrivevi una lettera e lo sapevi; con la rete puoi sapere che cosa pensano un numero infinito di persone collegandosi appunto alla “rete”. E’ un mezzo sicuramente molto importante e di portata rivoluzionaria. Lo abbiamo visto e lo vediamo continuamente quando migliaia e migliaia di persone si riuniscono in un dato luogo e in un dato momento per manifestare pro o contro. Insomma, per farla breve, i sanculotti e le loro donne col passa parola e col baccano trovarono il modo per riunirsi e dare l’assalto alla Bastiglia. Con la “rete” sarebbe stato loro più silenzioso e più celere; ma il fine non sarebbe cambiato.
La democrazia, in quanto politica, in quanto confronto e concorso, in quanto discussione, non può fare a meno degli altri soggetti che la pensano in maniera diversa e che hanno il diritto di partecipare agli eventi. L’utopia di Casaleggio era di creare entro la prima metà del 2000 una società senza partiti e senza giornali; una società in cui tutto il potere sarebbe confluito nei titolari o manipolatori della “rete”.
Sarà che sono vecchio di anni e di idee, ma in un progetto del genere non si vede democrazia, si vede anzi il suo esatto opposto. La “rete” appare un mondo di elfi, di esseri che vivono “sottoterra”, nascosti. Rodono e scavano, scavano e rodono. Finora hanno sempre attaccato, forti del non poter essere attaccati a loro volta, in quanto privi di una base ideologica e politica. Di recente, dove governano, hanno dimostrato inefficienza e ingenuità. Ma ancora sono delle promesse, anzi delle scommesse. Finora si sono mostrati un miscuglio di fascisti, di comunisti, di sessantottini, di verdi, di ambientalisti, senza neppure saperlo. Su molti problemi hanno cambiato posizione. Soffrono avere compagni di strada; preferiscono stare soli, nel bene e nel male. Puntano a conquistare tutto il potere, non si sa per fare cosa, dato che per fare giustizia bastano carabinieri e giudici.
Il vero problema del 2000, come secolo XXI, è proprio quello di trovare il modo di utilizzare la “rete” in maniera democratica sottraendola ai grandi guru e manipolatori. Essa, infatti, è diventata ormai un formidabile strumento di lotta politica fuori controllo delle istituzioni; qualcosa che la Costituzione non poteva davvero prevedere nel 1946-47. Ciò vale per tutti i popoli della terra. Se non si troverà il modo di utilizzare in maniera corretta e concorsuale la “rete” essi finiranno per cadere nelle dittature più grigie e gravi, indipendentemente da come si presentino all’esterno.
A vederlo il Casaleggio dava l’impressione di un personaggio uscito da un racconto gotico. Dicono che parlava poco e che rideva di meno. Shakespeare avrebbe detto di lui quel che Cesare, nel suo omonimo dramma, disse di Cassio: “Quel Cassio è macilento, ha uno sguardo famelico; pensa troppo; siffatti uomini sono pericolosi”.
La sua scomparsa dispiace, sicuramente lascia un vuoto, soprattutto nell’organizzazione della sua azienda e del suo movimento, una nuova edizione di privato e pubblico in commistione.
Anche questo dato sconcerta. Dopo vent’anni di prediche contro Berlusconi, che ha utilizzato le sue aziende per fare politica, e la politica per incrementare e arricchire le sue aziende, nulla si è detto finora e nulla si dice di un’azienda, quella di "Casaleggio Associati" posta al servizio della sua politica.
La sua morte probabilmente produrrà degli effetti sull’azienda. Dovrebbe, però, per il bene della politica crearne sul Movimento. Che ancora oggi si presenta in tutta la sua fluidità, come qualcosa di inconsistente, oleoso, liquido. Non si sa chi è il leader, non si sa verso quale politica stia andando o andrà. Dimostrazione plastica di quanto impolitico e direi antipolitico sia il Movimento. Se le leggi della politica non sono sovvertite, se l’acqua continua ad andare verso il pendio come è sempre andata, il Movimento finirà per dissolversi, come nuvola dopo aver scaricato sulla terra in forma di pioggia il suo contenuto acquoso, sperando che non sia acido.  

domenica 10 aprile 2016

Renzi e la caduta dei santi scarabei


Troppo presto i ministri di Renzi erano stati salutati come “santi”. Oh quante belle figlie, madame Dorée! Quante belle donne nel suo harem di governo! Belle e pure, politicamente s’intende. La Boschi, la Madia, la Guidi, tutte “sante subito”. E quanti superonesti, da raccomandare alla santificazione. Invece, è bastato solo un po’ di tempo, niente in confronto ai lunghi periodi di potere democristiani e socialisti, e già sono caduti come gli dei wagneriani del Wahalla.
Resiste il loro padreterno, Renzi. Ma sente il fiato sul collo: il governo è sotto attacco mediatico! Ha ragione. Ogni occasione è buona per tirare giù i suoi “santi” dagli altari, a farli ritornare scarabei. 
Il referendum del 17 aprile, per esempio. Come per la gran parte dei referendum italiani, anche questo per le trivelle – così diciamo per esemplificare – si è connotato di valenze improprie, decisamente politiche, specificamente contro Renzi. Il 17 aprile si voterà pro o contro di lui. Le trivelle non c’entrano assolutamente. E Renzi rischia. Quanto più ci avviciniamo alla data del referendum tanto più monta la campagna contro il suo governo.
Si capisce, allora, perché Renzi, che sarà un bullo, un egocentrico, un arrogante e chi più ne ha più ne metta, ma non è un fesso, invita i cittadini elettori a non recarsi a votare per non far raggiungere il quorum (50 % più uno degli aventi diritto), che sarebbe un successo dei suoi avversari. Parte avvantaggiato, da quel 30-35 % di elettori che solitamente non va a votare.
Pare, questa, una cosa bella? Nient’affatto, è vergognosa e intollerabile.
Non si può far finta di nulla né prendere tutto con noncuranza, tanto, sempre così è stato e sempre così sarà! La politica in Italia è una giostra di furbastri di tutte le risme; chi vince la giostra è perché è più furbo degli altri, i quali non possono davvero vantare virtù francescane. Sarebbe come se i tredici cavalieri francesi sconfitti alla disfida di Barletta dicessero che i cavalieri italiani avevano vinto perché erano armati di tutto punto. E loro, pensavano di andare a pasquetta?
Se pure ci sono dei promessi onesti, si tratta di futuri disonesti, facendo a ritroso il percorso di bellezza e di crescita che fa la farfalla, che prima di essere tale è un immondo verme. Vedete i pentastellati? Ebbene, sono dei pentamatricolati! Aspettate e vedrete. Anzi, già si è incominciato a vederne più di una in casa di questi duri e puri. Quarto non si scorda facilmente e non solo per lo scoglio che ha quel nome e dal quale partirono i Mille, Quarto in provincia di Napoli, comune amministrato da loro.
In questi ultimi mesi sono accadute cose molto gravi, che non possono essere definite neppure da prima repubblica. Qui siamo in pieno bordello, non primo e non ultimo. La Ministra dello sviluppo economico, Federica Guidi, che convive [conviveva] con un bell’imbusto, che fa il faccendiere, è stata intercettata e denudata dei suoi veli di pudicizia. Ha detto, per esempio, che il suo ganzo la usava, che la trattava come una sguattera del Guatemala, che contava sulla Boschi per fare quanto era nei di lui desideri, che nel governo c’erano quelli del quartierino che non sempre le consentivano di fare quello che voleva e via di questo passo.
Prima, per sapere le cose delle donne, bisognava guardare sotto le lenzuola, oggi basta sentirle al telefono. Miracoli del progresso. Dico io: ma non lo sapevi che ti stavano intercettando? Allora sei proprio una capra! Altro che sguattera, capra! capra! capra! (copyright di Vittorio Sgarbi). Ci sarebbe da dare ragione al ganzo.
Però, grazie a lei, si sono sapute molte cose sul petrolio della Basilicata e sugli affari che fanno le compagnie petrolifere, nel nostro caso la francese Total.
Basta così? Ora si viene a sapere che un carabiniere, che aveva il compito di seguire alcuni personaggi del malaffare calabrese, diciamo pure della ndrangheta, ha la foto di un suo attenzionato in compagnia del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti Graziano Delrio, ai tempi di quando questi era sindaco di Reggio Emilia e incontrò alcuni soggetti di Cutro, in provincia di Crotone. Quoque tu, Delrio? Eppure, sembravi un asceta, il più santo di tutti! Qui non è grave il fatto che Delrio figuri in foto con gente di malaffare, che probabilmente lui neppure conosceva – chi fa politica ne incontra di gente! – è grave che basta questo per scatenare il putiferio e mettere tutti nella stessa tramoggia. Delrio colpevole o innocente? Non è importante saperlo, è già decisivo chiederselo. Alcuni pentiti di mafia dicono di aver votato per lui e lo collegano agli affari del petrolio. Ancora una volta i mafiosi riescono a ritagliarsi uno spazio nelle vicende politiche.
A condire l’insalata italiana è giunto inaspettato l’aceto di Panama Papers. Qui è autentica baraonda. Tutti a mentire e smentire, tutti poi a semi-ammettere, infine ad ammettere e a sostenere che non c’è reato fino a quando non si scopre che hanno evaso il fisco. E quando si scoprirà, che faranno i Panama Papers? Lasceranno i soldi o la carica? Non lasceranno niente, probabilmente. Nel frattempo qualche gruppo musicale si sarà impossessato di quel titolo niente male “Panama Papers”. Minchia, che musica!
In questo proliferare di porcherie a Bruno Vespa viene l’idea di invitare a “Porta a Porta” il figlio di Totò Rijna. E’ impazzito? Nient’affatto. In un paese in cui non si contano gli scandali né diacronicamente né sincronicamente, il figlio del “capo dei capi” ha ben diritto di dire la sua. Gli altri sono più presentabili di lui? Vespa fa il suo mestiere e chissà che in questo modo non voglia dire: la finite o non la finite di dare scandalo o in che cosa allora pensate di distinguervi da questo giovinotto? Meditate, gente, meditate! 

domenica 3 aprile 2016

Il caso Regeni: un intrigo internazionale


Che sappiamo noi italiani di Giulio Regeni? Dopo due mesi dalla sua tragica morte non sappiamo assolutamente nulla di preciso. Chi era? Che faceva in Egitto? Chi lo ha catturato, torturato e ucciso? Niente. Sì, si dicono in Italia e nel mondo occidentale delle cose, date per certe. Che, purtroppo, somigliano tanto alla fiaba di Cappuccetto Rosso che capita nel bosco nelle grinfie del lupo. Ma qui non siamo in una fiaba, qui siamo in una tremenda realtà; in un intrigo internazionale, che forse non avrà mai una spiegazione.
In Egitto, secondo la Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà, dall’agosto del 2015 ad oggi ci sono stati 533 casi di sparizione forzata. Alcuni degli scomparsi sono stati visti in giro a distanza di giorni o di settimane con evidenti segni di torture. Di ben 396 spariti non si è saputo più niente (Corriere della Sera, 3 aprile).   
Da parte italiana si sa che Giulio Regeni era friulano, di 28 anni, ricercatore della Cambridge University, che era in Egitto per fare una ricerca sui sindacati liberi che osteggiano il regime del Generale Al-Sisi, dunque sull’opposizione al regime. Regeni scompare il 25 gennaio e viene ritrovato assassinato il 3 febbraio; è pieno di ferite con evidenti segni di tortura.
Da parte egiziana si sono dette troppe cose sulla sua morte: incidente d’auto, rapinatori, questioni di sesso e di droga, lite con un connazionale nei pressi dell’Ambasciata italiana. Insomma, si sono raccontate fandonie, regolarmente respinte come tali dall’Italia, dal governo, dalla famiglia, dall’opinione pubblica.
L’unica verità attendibile è quella avanzata da Al-Sisi, peraltro adombrata dal nostro Angelo Panebianco sul “Corriere della Sera”: Giulio Regeni sarebbe stato ucciso da chi aveva interesse a mettere in difficoltà il governo egiziano con l’Italia. Significativo che il caso Regeni sia scoppiato mentre era al Cairo una delegazione italiana per concludere importanti affari economici, i cui lavori furono interrotti proprio per il ritrovamento del cadavere di Regeni in una fossa ai margini di una strada. Dunque: ucciso e fatto ritrovare. Plausibile l’ipotesi Al-Sisi, ma troppo scoperta, quasi didascalizzata, per essere vera.
C’è qualcosa che non quadra in questa ipotesi-spiegazione: perché il governo egiziano non ci dice chi ha rapito e ucciso Regeni se si tratta di nemici del regime, come sostiene Al-Sisi? Perché il governo del Cairo insiste nel depistare, nel raccontare delle balle, tali da offendere l’intelligenza e la sensibilità di un intero popolo? Non avrebbe forse interesse il governo egiziano a mostrare al mondo quali nemici lo combattono? Chi difende? Ovvio: difende se stesso.
La verità che si fa strada è che ad uccidere Regeni siano stati i servizi segreti del regime di Al-Sisi nell’esercizio delle loro funzioni di vigili difensori del loro governo e del loro paese.
Ma, allora, ci devono dire chi era per loro Giulio Regeni e perché incominciarono a seguirlo fin dal suo arrivo al Cairo; che cosa sapevano di lui e che cos’altro volevano sapere delle sue ricerche egiziane; perché lo hanno torturato e ucciso.
Regeni scriveva per il “Manifesto”, che è un giornale comunista, scriveva e pubblicava con pseudonimo perché aveva paura; comunicava con la sua Università inglese e sapeva di essere a rischio. Si rendeva perfettamente conto che la sua posizione in Egitto non era tranquilla e che correva seri pericoli. Allora è lecito chiedersi se operava spontaneamente nell’ambito delle sue ricerche di studio o c’era dell’altro.
Regeni era un ricercatore, ma forse deviato, forse pericolosamente al servizio, sia pure indirettamente, con agenzie di altri paesi collegati con la sua Università. Regeni poteva apparire ai servizi di sicurezza egiziani un “agente” straniero sotto copertura. E’ un’ipotesi, che avrebbe bisogno di essere approfondita e verificata, perché se è vero che le spiegazioni egiziane sulla sua morte sono troppe e false, è anche vero che le informazioni che abbiamo di Regeni sono troppo poche e incerte.
La conferenza al Senato da parte dei suoi genitori è stata di grande dignità e compostezza. La madre soprattutto, così calma e tranquilla da sembrare un’attrice in un film di Agatha Christie, ha minacciato che avrebbe fatto vedere le foto del figlio morto ove non avesse avuto la verità sulla sua morte. Ma è sembrato che le sue parole non fossero rivolte solo al governo egiziano, ma anche a quello italiano se esso non riuscirà a farsi dire la verità da quello egiziano.
Giustamente la famiglia di Regeni chiede di sapere la verità; come la chiediamo tutti in Italia e nel mondo libero. Ma sappiamo che quando sono in gioco interessi politici internazionali purtroppo si sacrifica ogni altro interesse per ragioni di Stato.
Le forze politiche italiane, sia le governative, sia le opposizioni, insistono per avere nei confronti dell’Egitto un atteggiamento duro fino a richiamare in Italia l’Ambasciatore o addirittura a rompere i rapporti diplomatici. Ma già contro questa ipotesi si sono espressi in tanti in Italia, per via degli enormi interessi economici che abbiamo con l’Egitto e per non perdere un amico alleato nella nostra campagna di normalizzare la Libia.

Il caso Regeni rischia perciò di rimanere un caso insoluto, che per forza di cose finirà per arricchirsi in prosieguo di tempo di storie “egiziane” e “italiane”, che con la realtà delle cose avranno sicuramente poco a che fare. Probabilmente se ne farà un film.