lunedì 31 luglio 2023

Libertà di dire: a chi, cosa e come

Personalmente sono contrario alla censura e a qualsiasi restrizione di opinione o di linguaggio. Non condivido che ad un giornalista come Filippo Facci venga negata una striscia televisiva sulla Rai per una frase pubblicata in un articolo su “La Verità”, in relazione al caso La Russa, per quanto grave potesse essere l’offesa rivolta alla ragazza che aveva denunciato di essere stata violentata. Non condivido che allo scrittore Roberto Saviano venga cancellata dalla Rai una serie di puntate televisive contro la mafia, peraltro già registrate, perché avrebbe violato il codice etico. Se la mettiamo su questo piano in Italia, dove, fino a prova contraria, non vige lo Stato etico ma la Costituzione della Repubblica, finiremo tutti silenziati, tranne i soliti adeguati e adeguanti. Qualche problema, però, si pone. I giornalisti possono dire tutto quel che vogliono e contro chi vogliono, impunemente, coperti dall’art. 21 della Costituzione? Facci, nella circostanza, è stato volgare, lo ha ammesso; Saviano, invece, è reiteramente violento, ma non lo ammette e anzi si dice vittima a sua volta. Ecco alcune perle del suo campionario: cialtroni dell’antimafia, ministro della mala vita, bande parlamentari; per lui i ministri in carica sono buffoni, bastardi e incompetenti, il governo Meloni è un governo fascista. Ne ha per tutti. Questo nuovo Savonarola napoletano è assai più violento del suo antesignano ferrarese, che concludeva le sue requisitorie invitando i reprobi a pentirsi se volevano evitare l’inferno. Che Saviano paghi già per questa sua incontinenza con una minaccia che gli incombe sulla testa da parte della mafia, che lo costringe ormai da moltissimi anni a vivere sotto scorta, è un dato di fatto. Ma questo non lo autorizza ad usare la stessa violenza contro gli avversari politici. La mafia si vendica tenendolo sotto minaccia; ma gli altri, i politici che vengono continuamente ingiuriati e offesi, nulla possono per difendersi? Forse il suo stato di eroe vivente dell’anticrimine lo esonera da qualsiasi eccesso verbale? Può veramente distribuire a piacimento insulti? Se la risposta fosse affermativa, lui avrebbe non il potere ma lo strapotere nei confronti di quanti, a suo insindacabile giudizio, meritano qualsiasi improperio, franco di porto, per usare un’espressione commerciale. Lui non chiede di essere creduto, presume di essere credibile, aggiustando pro domo sua la nota distinzione che ne fa don Luigi Ciotti. Sarebbe veramente una strana democrazia quella che consente ad alcuni di aggredire (opinionisti) e ad altri di dover subire a prescindere (politici). Si eccepisce: Facci, che ha l’opportunità di dire, avrebbe aggredito una povera fanciulla “vittima”. E questo non sta bene. Saviano, viceversa, aggredisce il potere, che di per sé è produttore di violenza e di vittime, e questo gli darebbe ogni legittimazione. Nel momento in cui, però, un politico, che sempre uomo è, si difende, si grida al sopruso; come se il politico non potesse querelare, non potesse attivare alcunché per farsi le proprie ragioni di modo e di fatto, dovesse semplicemente subire per il solo fatto di essere un politico e, come un fante sul Piave, tacere e andare avanti. In Italia, accanto alla solita guerra tra magistrati e politici, è in escalation un’altra, tra opinionisti da una parte e politici dall’altra. Ci mancavano solo i preti. E sono arrivati! Don Luigi Ciotti, un altro che può dire ciò che vuole, ha ironizzato su un’impresa che il governo Meloni e il Ministro Salvini in particolare sono impegnati a realizzare, la costruzione del ponte sullo stretto di Messina. Lo ha fatto non esprimendo dissenso, ma sarcasmo e insinuazioni. Legittimo che don Ciotti, o altri, dica quello che pensa nel modo come ritiene più opportuno, ma perché indignarsi se il Ministro Salvini gli risponde, ravvisando nelle parole del prete, a parer suo, uno sproposito? Io credo che tutti dovremmo uscire dalle logiche di appartenenza e riconoscere due cose: la prima è di dire sempre quello che pensiamo senza timore di lesa maestà, ma con rispetto; seconda, di farlo nella forma più personale, con l’unico “obbligo” del sintatticamente corretto. Senza scadere nel turpiloquio e nella violenza, si può dire quel che si vuole con lo spirito mordace, con la citazione dotta o popolare, con la capacità di trovare la metafora giusta, con una battuta. Con l’aceto e non col veleno, insomma.

giovedì 27 luglio 2023

Il caso Zaki mette a nudo la destra

Secondo l’antica teoria evemeristica, di classica memoria, gli dei altro non erano all’origine che uomini straordinari per delle loro qualità, che la fama rendeva divini. Così una donna mortale, bellissima e desideratissima, era all’origine della dea Venere, che perciò divenne dea della bellezza e dell’amore. Poetico il racconto di Ugo Foscolo nell’Amica risanata. In tempi moderni, i nuovi dei, si creano dal nulla, facilitati da una fama infinitamente più veloce e potente dell’antica. Un esempio è Greta Thunberg, mito vivente della lotta per la difesa dell’ambiente. Patrick Zachi è un cittadino egiziano, studente a Bologna, arrestato nel 2020 perché aveva criticato il governo del suo paese per non aver rispettato i diritti dei cristiani copti. È rimasto in bilico tra carcere e attesa di giudizio per circa tre anni; alla fine condannato e subito dopo graziato dal presidente egiziano Al Sisi. Si dice, grazie alla diplomazia del governo italiano e a tutta la propaganda fatta dai suoi amici e dalle autorità dell’università bolognese, che hanno trasformato lo Zaki in un mito, un dio della difesa dei diritti umani nel mondo moderno. Per ragioni di prestigio il governo italiano tiene a che Zaki entri nel nostro Pantheon. Fin qui transeat. Ma i comuni mortali, come noi, sono sempre pronti ai ma e ai però. Il cittadino egiziano Patrick Zaki ha rifiutato l’aereo di Stato per tornare in Italia, che gli sarebbe stato messo a disposizione – horresco referens! – dal governo italiano. Un’esagerazione, che il governo Meloni ha compiuto e che il rifiuto dell’interessato ha amplificato. Palese il diffuso imbarazzo che ne è derivato. Le reazioni a destra non sono tardate a farsi sentire, dall’accusa di irriconoscenza alla nullizzazione del personaggio: Patrick Zachi, chi? Zaki ha idee politiche sue, a cui tiene moltissimo. Chapeau! A Bologna, dove studia e dove ha già conseguito la laurea triennale, dove vogliono dargli la laurea honoris causa e perfino la cittadinanza italiana, vive in un ambiente fondamentalmente di sinistra, di quell’universo dei diritti umani senza limiti e confini; per esemplificare, alla Schlein. Fa bene a difendere questo suo buco o inghiottitoio di riservatezza politica. Per questo ha sentito troppo soffocante, più dell’afa di questi giorni, l’abbraccio di un governo di destra. Che, a quanto pare, di comportarsi come il suo elettorato vorrebbe che si comportasse, (lo dico tra parentesi), neppure gli passa per la testa. Dispiace dirlo, ma il governo di Giorgia Meloni sta dimostrando di avere un certo complesso di inferiorità. Di qui il cercare di comportarsi come al suo posto si comporterebbe un governo di sinistra. Ricordiamo la vicenda della giovane cooperante Silvia Romano liberata dopo essere stata prigioniera di terroristi islamici per diverso tempo e accolta in Italia con bandiere e fanfare ai tempi eroici di Conte II. Il colpo del rifiuto lo ha assorbito egregiamente la disinibita Presidente Meloni, che ha dichiarato di non cercare riconoscimenti pubblici per quello che ha fatto facendo liberare Zaki e ribadito il suo interessamento per sbrogliare il caso Regeni, che, secondo i soliti sospettosi, sarebbe entrato nella “trattativa” per liberare il nuovo dio dei diritti. A prescindere da come siano effettivamente andate le cose, il caso di Giulio Regeni, il giovane ricercatore triestino arrestato, torturato e ucciso nella capitale egiziana dai servizi segreti di quel Paese, avendolo scambiato per una spia, è assai più complicato. Primo, perché qualunque sia la risposta del regime egiziano, essa viene confrontata con una verità già “scritta”; secondo, perché solo se Al Sisi catturerà e punirà i veri responsabili si può dire che il caso è chiuso. Cosa, questa, assai improbabile, perché un governo autoritario e poliziesco non sconfessa mai i suoi uomini. La Meloni avrebbe dovuto agire nella circostanza non dico come vuole Salvini, prima gli italiani, ma almeno più da rappresentante politica della destra e prendere a cuore più il caso Regeni che quello Zaki. L’essere Presidente del Consiglio non può fare aggio sul suo essere a capo di Fratelli d’Italia. Se no ogni presidente, di destra o di sinistra che sia, finisce per rappresentare solo se stesso. Ora, l’ipotesi che Al Sisi abbia liberato Zaki per non avere più fastidi per Regeni, onestamente è nelle cose. La famiglia Regeni e quella più allargata del mondo della destra se ne devono fare una ragione e sperare in un ravvedimento miracoloso dell’autocrate egiziano. In fondo anche Traiano andò in paradiso per aver dato ascolto ad una madre. Dicitur.

sabato 22 luglio 2023

Dimettersi in Italia è come suicidarsi

Il verbo dimettersi è tra i più inflazionati della lingua italiana, almeno per quanto riguarda la politica. Non c’è giorno che non si chieda a qualcuno di farlo, per un reato commesso, per una frase fuori posto, per un modo di comportarsi non in conformità con l’abito istituzionale, per un coinvolgimento in qualcosa di losco o di opaco. Tra le cause più gettonate è il linguaggio, che tradisce ciò che ad uno passa per la testa, senza possibilità di schermarlo. Poche parole hanno tradito il giornalista Filippo Facci, che ha perso un incarico alla Rai, che gli era stato quasi assegnato. “Dimissionato” prima ancora di entrare in carica. I politici vengono analizzati come i calciatori alla Var. Anche uno sbadiglio può bastare a metterlo fuorigioco. Fino ad oggi l’opposizione di sinistra ha chiesto una decina di volte le dimissioni di qualche ministro, sottosegretario o pezzo grosso o piccolo della destra. Non senza qualche ragione in verità, ma il più delle volte per una autentica cacchina d’uccello, se mi è permesso. Ma dall’altra parte si è risposto picche, che il De Mauro, il dizionario intendo, così definisce: “con valore interiettivo, per esprimere diniego: assolutamente no”. Verrebbe di pensare che le dimissioni è meglio non chiederle, per non farle sembrare un cedimento agli avversari e perciò improbabili; ma evidentemente una funzione nel dibattito politico ce l’hanno. Alle opposizioni, specialmente, il verbo serve ad alimentare il chiacchiericcio politico, che nasce e si diffonde ogni volta che uno con la testa a Königsberg, città natale di Immanuel Kant, chiede le dimissioni e lo stesso quando si trova con la pancia a Roma, città del Marchese del Grillo, risponde nemmeno per sogno, perché… io so’ io. E accade non solo per personaggi del calibro di un Ignazio La Russa (Presidente del Senato), di un Matteo Piantedosi (Ministro dell’Interno), di un Carlo Nordio (Ministro di Giustizia), di Daniela Santanchè (Ministro del Turismo), ma anche per personaggi minori dell’uno e dell’altro schieramento. Nessuno vuole dimettersi perché farlo sarebbe un piccolo suicidio per punirsi di qualcosa che da sé si ritiene sbagliata o avversa ai Numi, come fu per Bruto minore, secondo Leopardi. Ma chi, al giorno d’oggi, si suicida politicamente? Da sempre in Italia vale l’invito del Nazareno – di Gesù Cristo, dico – che a fronte di chi voleva pigliare a pietre l’adultera pronunciò la famosa frase: “chi è senza peccato, scagli la prima pietra”. Diciamo la verità, una delle tante furbate del Cristo. Noi italiani non possiamo non dirci cristiani, ammoniva Benedetto Croce. Perciò, non dimettendoci, dimostriamo di esserlo. Più cristiani di così?, direbbe Nino Frassica, che oggi, tra creator ed influencer, non sfigura come filosofo carismatico. Quanto ai richiedenti dimissioni ad ogni pie’ sospinto, forse farebbero bene a fermarsi prima, come i lapidatori dell’adultera. A Cecina, provincia di Livorno, il sindaco Pd Samuele Lippi, cinquantunenne, è stato fermato dai carabinieri che gli hanno trovato una dose di cocaina addosso. Il caso è clamoroso, qui in ballo non c’è un’opinione, ma un fatto. Pensa di dimettersi?, gli è stato chiesto. “Assolutamente no” è stata la risposta perentoria. Consumare cocaina o avere con sé una modica quantità per uso personale non è reato. Perciò il signor Lippi, che per sua stessa ammissione consuma cocaina da anni, in funzione antistress – ipse dixit – non ha alcuna intenzione di dimettersi, neppure quando gli è stato fatto presente che comunque è reato comprarla da uno spacciatore, il quale, come ognun sa, non esercita un mestiere proprio come quello dell’arrotino. Il sindaco, poi! Ha promesso che d’ora in avanti non ne farà più uso. Ma non tanto per sé o per non dare il cattivo esempio ai figli o ai giovani del suo comune, quanto per la nobilissima missione di primo cittadino. “Senza di me Cecina – ha concluso – sarebbe seriamente danneggiata”. E qualche dubbio sugli effetti della cocaina onestamente viene. Dalli e dalli, però, qualcuno si dimetterà, ma non per punirsi di qualcosa che ha fatto e che si rende conto che non avrebbe dovuto fare, ma per far cessare la canea che sul suo caso si è scatenata, consegnandosi alla storia come l’imperatore Nerone, che, facendosi aiutare ad uccidersi da un suo liberto, continuava a ripetere “che artista perisce!”; o come il sindaco di Cecina, che è convinto che senza di lui Cecina fa la fine di Pompei.

sabato 15 luglio 2023

Atmosfere "socialiste" a destra

Si sta riproponendo intorno alla destra italiana, moderna ed europea, auspicata da molti, una certa atmosfera che aleggiava intorno al Partito socialista una quarantina di anni fa, ai migliori tempi del craxismo. Un fenomeno che fece scoppiare il caso Mario Chiesa a Milano e di lì tutta una serie di fatti che portarono al maltempo che rovesciò di tutto su Bettino Craxi all’uscita dal Raphael, storica sua residenza, e a Tangentopoli. Una scena iconica, che esprime ben più di un intero saggio politico. Da qualche settimana a questa parte si stanno verificando fatti che riportano a quelle atmosfere, anche se sono diversi. Sta emergendo un modo disinvolto di interpretare il ruolo politico e governativo che investe alcuni importanti esponenti politici del governo e delle istituzioni. I casi Santanchè e La Russa, in particolare, entrambi riconducibili a Fratelli d’Italia, il partito dei duri e puri, preoccupano non poco, pur ammettendo che le opposizioni, Pd e compagni, strepitano in maniera esagerata e fuori posto. Le oche del Campidoglio, al loro confronto, furono silenziosissime. La Santanché, invece di presentarsi in Senato a discolparsi, non convincendo nessuno e men che meno i suoi, avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni senz’altro. E dire: non sono vere le accuse che mi fate, ma siccome in Fratelli d’Italia si deve stare come a casa di Cesare, neppure sospettati, io rassegno le dimissioni e mi affido alla magistratura. Avrebbe fatto un figurone. Invece la Santanchè ha voluto rafforzare la nomea di pitonessa. L’insieme dei fatti configura uno scenario di strafottenza etica diffusa, tanto più grave quanto più la soggetta non viene da Fratelli d’Italia ma a Fratelli d’Italia è giunta dopo anni di nomadismo politico, benché sempre nel centrodestra. La Santanché, come dire?, è navigata. L’essere rimasta al suo posto, con l’appoggio della Meloni, è fatto decisamente grave e incomprensibile. Molti esponenti di destra e di Fratelli d’Italia in particolare spesso rispondono ai loro avversari chiamando in causa l’elettorato. I cittadini ci hanno votati per fare questo e questo noi facciamo. Chiedo: il modo come la Santanchè è rimasta al suo posto, in tutta coscienza, potrebbe trovare consenso nel popolo che ha votato Fratelli d’Italia, un partito che viene dal Msi di Giorgio Almirante? Francamente, ne dubito. La classe dirigente di questo partito è bene che ne tragga le conseguenze, prima che sia troppo tardi e che il suo elettorato vada ad infoltire le schiere dei cittadini che, delusi, non vanno più a votare. Ma non è finita. La Santanché la troviamo nel caso, sollevato dal quotidiano “Domani”, di una compravendita che non può essere rubricata come privata se a farla sono importanti esponenti del mondo della maggioranza di governo come la stessa Santanché e la moglie del Presidente del Senato La Russa. Hanno acquistato dall’anziano sociologo Francesco Alberoni una villa per un certo prezzo e l’hanno subito dopo rivenduta per un prezzo quasi raddoppiato, con milioni di Euro di plusvalenza. Un’operazione da esperti immobiliaristi, non già da politici, a cui dovrebbero stare a cuore unicamente i guadagni del popolo italiano. Siccome le cose cattive non vengono mai da sole, a Fratelli d’Italia è accaduto altro. Il grave e delicato caso del figlio di Ignazio La Russa, stupro ai danni di una ragazza non compos sui durante l’atto, a casa del Presidente del Senato. Ora, a parte gli aspetti penali, sui quali provvederà la magistratura a far luce, viene fuori un mondo di degrado morale, di eccessivo permissivismo famigliare, uno scenario da basso impero, come si diceva una volta. I fatti sono fatti ed hanno la coda. Intendiamoci, Fratelli d’Italia non è una confraternita religiosa, è un partito conservatore ma immerso nella modernità, con la quale deve fare i conti e dalla quale può essere anche contagiato. Certo è che non è una bella rappresentazione quella uscita dai casi riportati. Non solo e non tanto perché, come si dice, c’è tanta gente che vive in miseria, che è malata, che ha problemi di vita quotidiana, della quale sembra che nessuno se ne occupi convenientemente, quanto e soprattutto perché essere conservatori oggi, come si dicono quelli del partito della Meloni, significa conservare almeno “la mano pura e la mente”, Manzoni dixit, giacché tante altre tradizioni e tanti altri valori sono ormai irrimediabilmente persi. C’è nei comportamenti di certo personale politico di destra una disinvoltura che imbarazza l’elettore che lo ha votato e che non può difenderlo senza mettere in discussione la propria onestà intellettuale.

sabato 8 luglio 2023

L'Ottantotto, per fatto personale

Ero un apologeta del nazismo senza saperlo. Lo devo al Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi se oggi lo so, ma – ahimè – non so che fare per non esserlo più. Per fortuna non sono un calciatore. Piantedosi, in una dichiarazione di intenti col mondo del calcio per la lotta all’antisemitismo, ha chiesto alla Federazione di vietare ai calciatori di avere sulla maglietta il numero 88, perché questo è apologia di nazismo in quanto simbolo dell’espressione Heil Hitler, due iniziali con la lettera acca, che nella successione dell’alfabeto occupa l’ottava posizione. Ed io che c’entro? Purtroppo sono nato l’otto agosto per di più del 1945, anno della morte di Hitler. Dunque a chi mi chiede la data di nascita io faccio apologia di nazismo se rispondo “8 8 1945”. L’avere questa data di nascita certo non è stata una mia scelta. Devo tacere, però, un particolare sospetto. Arrivato il momento di nascere, non ne volli sapere e anzi mi rivoltai nel grembo di mia madre per uscire coi piedi in avanti anziché con la testa. Erano i giorni in cui sul Giappone piovevano bombe atomiche. Mia madre mi diceva che non volevo nascere e che fui tirato fuori coi ferri – i ferri erano già nel mio destino! – quando già la gravidanza era al decimo mese abbondante. È stato come è stato, la cosa potrebbe essere interpretata dal Ministro Piantedosi, esperto di simbologie ed esoterismi, come una mia scelta. Giuro di essere innocente e comunque protesto il mio diritto di essere nato quando altri mi fecero nascere. Lasciamo il faceto e passiamo al serio. L’improvvisa preoccupazione di Piantedosi di apparire difensore dell’antifascismo e dell’antinazismo può essere legittima e comprensibile se si pensa che lo stesso non si è distinto finora per parole ed opere molto democratiche. Ma essa confligge non solo col buonsenso – perché prendersela coi numeri? – ma anche con la Costituzione. Benedetta Costituzione, sempre lei! E meno male, dico io. Vietare l’uso dell’88, oltre che imbarazzante sul piano della razionalità, è un disconoscere un diritto ad una persona. Ci sono tanti motivi, né buoni né cattivi, semplicemente normali, per scegliersi un numero sulla propria maglietta. C’è chi si sceglie il 17 e chi il 13, l’anno di nascità o il numero degli anni d’età, il numero corrispondente alla lettera iniziale del nome del proprio amore. Se si criminalizza un numero per improbabili significazioni occulte qua tornano le streghe e va a finire che questo numero viene messo al bando in tutti gli ambiti possibili e immaginabili. La targa della macchina, il numero civico, il numero del telefono e tanti altri. E potrebbe essere esteso ad altri personaggi, a Mussolini, per esempio, che nacque nel luglio del 1883. Quello, il doppio otto, ce l’aveva addirittura dentro. Togliere, dunque, l’88 o altri numeri dalla numerazione? E allora Piantedosi come si regolerà con l’aritmetica e la ragioneria? Io, un modo, potrei suggerirglielo, per quel che vale. È un modo che non offende nessuno. Si potrebbe usare l’espressione che spesso si usa quando non si vuole pronunciare la parola cancro e al suo posto si dice “quel male”, innominabile per scaramanzia. Così che a chi mi chiedesse quando sono nato io potrei rispondere “sa, quel male lì”. A buon intenditor… e lasciare che ognuno si scelga il numero che vuole. Purtroppo le cose andranno diversamente. L’88 è “fuori legge”. Cosa che se fosse accaduta o accadesse oggi in un regime totalitario noi, democratici, avremmo ragione di dare del ridicolo al governo e di gridare quanto sono fessi. Invece si vuole “cancellare” un numero e non succede niente. Ormai, del resto, si vogliono cancellare i nomi e i concetti di razza, di stirpe, di etnia, di padre, di madre. Si aboliranno i colori? Hanno criminalizzato tutte le testimonianze dei secoli passati e dei loro uomini più illustri per un nuovo dizionario, creando una nuova tendenza, la cancel culture, che in italiano vuol dire cultura della cancellazione. I popoli, che nella storia sono stati offesi, pretendono che i nuovi governanti dei paesi offensori chiedano perdono. Tremate, romani, italiani, americani, inglesi, francesi, belgi, olandesi, spagnoli, portoghesi! Tremate, ex dominatori! È tempo che paghiate per le vostre malefatte! I monumenti e i numeri non sono che l’inizio della rivoluzione. Ma io il mio numero 88, c’entri o meno il riferimento ad Hitler, lo difendo. Se non lo facessi, negherei me stesso e cederei alla cancellazione del buonsenso.

domenica 2 luglio 2023

Scuola, anche i professori però...

È da anni, diciamo da quando è entrata in regime di autonomia, che la scuola, coi presidi-manager e gli alunni-clienti, manda alla società messaggi di malessere. Non che prima stesse benissimo, ma conservava ancora saldi i principi cardine dell’ordinamento formativo. Già la scuola entra in crisi a partire dai primi anni sessanta del secolo scorso con l’introduzione della scuola media unificata, quando al fisiologico aumento di domanda degli iscritti non si risponde con un’adeguata offerta dello Stato. Mancano edifici all’uopo, si rimedia con locali d’occasione, vecchi palazzi, locali adattati; mancano insegnanti, si rimedia con figure professionali avulse. Avvocati, farmacisti, veterinari vengono reclutati per sostituire gli insegnanti mancanti di italiano, di scienze, di matematica. I locali sono assolutamente inadeguati, forse anche per questo s’impoverisce l’arredo, a partire dalla cattedra, la pedana da dove una volta troneggiava l’insegnante, col suo alone di sapere e di autorità. Per le scuole superiori non andò meglio, di lì a pochi anni, stessa crisi di edilizia, stessa improvvisazione nel completare l’organico insegnanti. La scuola perde il suo ambiente materiale, ne risente inevitabilmente quello immateriale, molto più importante nel processo educativo e professionale. Il modello che sostituisce il vecchio è la scuola democratica, voluta dal centrosinistra, che però si presenta malconcia fin dall’inizio, essa stessa rimediata alla meglio. L’edificio gentiliano si sgretola negli anni successivi con piccoli ma significativi adattamenti. Poi l’autonomia alla fine degli anni Novanta e la nascita degli istituti comprensivi. Si può essere pro o contro, ma un dato è comune: la scuola non è più una struttura organica e compiuta, ma un farsi continuo alla ricerca di una improbabile identità. Da allora un ripetersi di episodi di mala scuola con relative toppe a “risolvere” i singoli casi. L’ultimo è l’assegnazione di nove in condotta a due ragazzi che nel corso dell’anno, uno ha sparato con una pistola ad aria compressa in classe ad un’insegnante e l’altro ha filmato l’impresa. L’accaduto è grave nei suoi due momenti. Il primo, il gesto dei due ragazzi. Il secondo, il nove in condotta da parte del consiglio di classe, quasi che assurdamente uno fosse conseguenza dell’altro. Voi avete sparato ad un’insegnante e noi vi premiamo con un bel nove in condotta. Il Ministro è intervenuto invitando il dirigente scolastico a rifare il consiglio di classe, atteso che il voto di condotta finale è comprensivo dell’intero anno scolastico e non del solo secondo quadrimestre. Così è stato fatto e il nove è diventato sette. Poi le nuove immancabili direttive del Ministro Valditara sul voto in condotta, come se quelle che c’erano non fossero valide. Semmai non valida ne è stata spesso l’applicazione. Ma, per capire che cosa in realtà sia successo in quella scuola di Rovigo, occorre partire dal primo punto: l’aggressione all’insegnante. Non si può liquidare l’accaduto facendolo rientrare nella casistica dei “giovani di oggi” e delle loro stravaganze e debolezze. Intanto chi viene colpito in un ambiente altamente socializzato com’è la scuola vuol dire che era isolato. In genere e in ogni ambiente si colpisce chi è solo e non gode né di stima né di affetto. Come ognuno sa, specialmente chi proviene da quel mondo, i ragazzi percepiscono certe realtà, sanno che quell’insegnante non gode dell’amicizia e della stima dei colleghi e del preside, non ha vicinanza alcuna. Colpirlo, perciò, si è quasi certi di farla franca o addirittura ricevere un plauso. Quasi sempre l’episodio clou è preceduto da avvisaglie, che si fa male a non considerare. Può capitare che un insegnante non riesca a farsi amare e rispettare, che si isoli. Ci sta. I motivi possono essere tanti, e non è qui il caso di passarli in rassegna. Va da sé che non c’è giustificazione alcuna per quei due ragazzi né per gli insegnanti che li hanno “premiati” col nove in condotta, facendo poi burocratica marcia indietro, ma è importante sapere come effettivamente siano andate le cose. È opportuno che anche l’insegnante vittima si interroghi sulla sua condizione per vedere come e perché si è messa nelle condizioni di subire quel che ha subito sia dai ragazzi che dai colleghi e dal preside. Potrebbe essere per lei l’inizio di una rivisitazione del suo metodo di insegnamento e forse anche del suo rapportarsi col mondo della scuola. Non è una novità dire che se gli alunni maturano coi professori, i professori maturano con gli alunni. Il processo è unico.