sabato 22 luglio 2023

Dimettersi in Italia è come suicidarsi

Il verbo dimettersi è tra i più inflazionati della lingua italiana, almeno per quanto riguarda la politica. Non c’è giorno che non si chieda a qualcuno di farlo, per un reato commesso, per una frase fuori posto, per un modo di comportarsi non in conformità con l’abito istituzionale, per un coinvolgimento in qualcosa di losco o di opaco. Tra le cause più gettonate è il linguaggio, che tradisce ciò che ad uno passa per la testa, senza possibilità di schermarlo. Poche parole hanno tradito il giornalista Filippo Facci, che ha perso un incarico alla Rai, che gli era stato quasi assegnato. “Dimissionato” prima ancora di entrare in carica. I politici vengono analizzati come i calciatori alla Var. Anche uno sbadiglio può bastare a metterlo fuorigioco. Fino ad oggi l’opposizione di sinistra ha chiesto una decina di volte le dimissioni di qualche ministro, sottosegretario o pezzo grosso o piccolo della destra. Non senza qualche ragione in verità, ma il più delle volte per una autentica cacchina d’uccello, se mi è permesso. Ma dall’altra parte si è risposto picche, che il De Mauro, il dizionario intendo, così definisce: “con valore interiettivo, per esprimere diniego: assolutamente no”. Verrebbe di pensare che le dimissioni è meglio non chiederle, per non farle sembrare un cedimento agli avversari e perciò improbabili; ma evidentemente una funzione nel dibattito politico ce l’hanno. Alle opposizioni, specialmente, il verbo serve ad alimentare il chiacchiericcio politico, che nasce e si diffonde ogni volta che uno con la testa a Königsberg, città natale di Immanuel Kant, chiede le dimissioni e lo stesso quando si trova con la pancia a Roma, città del Marchese del Grillo, risponde nemmeno per sogno, perché… io so’ io. E accade non solo per personaggi del calibro di un Ignazio La Russa (Presidente del Senato), di un Matteo Piantedosi (Ministro dell’Interno), di un Carlo Nordio (Ministro di Giustizia), di Daniela Santanchè (Ministro del Turismo), ma anche per personaggi minori dell’uno e dell’altro schieramento. Nessuno vuole dimettersi perché farlo sarebbe un piccolo suicidio per punirsi di qualcosa che da sé si ritiene sbagliata o avversa ai Numi, come fu per Bruto minore, secondo Leopardi. Ma chi, al giorno d’oggi, si suicida politicamente? Da sempre in Italia vale l’invito del Nazareno – di Gesù Cristo, dico – che a fronte di chi voleva pigliare a pietre l’adultera pronunciò la famosa frase: “chi è senza peccato, scagli la prima pietra”. Diciamo la verità, una delle tante furbate del Cristo. Noi italiani non possiamo non dirci cristiani, ammoniva Benedetto Croce. Perciò, non dimettendoci, dimostriamo di esserlo. Più cristiani di così?, direbbe Nino Frassica, che oggi, tra creator ed influencer, non sfigura come filosofo carismatico. Quanto ai richiedenti dimissioni ad ogni pie’ sospinto, forse farebbero bene a fermarsi prima, come i lapidatori dell’adultera. A Cecina, provincia di Livorno, il sindaco Pd Samuele Lippi, cinquantunenne, è stato fermato dai carabinieri che gli hanno trovato una dose di cocaina addosso. Il caso è clamoroso, qui in ballo non c’è un’opinione, ma un fatto. Pensa di dimettersi?, gli è stato chiesto. “Assolutamente no” è stata la risposta perentoria. Consumare cocaina o avere con sé una modica quantità per uso personale non è reato. Perciò il signor Lippi, che per sua stessa ammissione consuma cocaina da anni, in funzione antistress – ipse dixit – non ha alcuna intenzione di dimettersi, neppure quando gli è stato fatto presente che comunque è reato comprarla da uno spacciatore, il quale, come ognun sa, non esercita un mestiere proprio come quello dell’arrotino. Il sindaco, poi! Ha promesso che d’ora in avanti non ne farà più uso. Ma non tanto per sé o per non dare il cattivo esempio ai figli o ai giovani del suo comune, quanto per la nobilissima missione di primo cittadino. “Senza di me Cecina – ha concluso – sarebbe seriamente danneggiata”. E qualche dubbio sugli effetti della cocaina onestamente viene. Dalli e dalli, però, qualcuno si dimetterà, ma non per punirsi di qualcosa che ha fatto e che si rende conto che non avrebbe dovuto fare, ma per far cessare la canea che sul suo caso si è scatenata, consegnandosi alla storia come l’imperatore Nerone, che, facendosi aiutare ad uccidersi da un suo liberto, continuava a ripetere “che artista perisce!”; o come il sindaco di Cecina, che è convinto che senza di lui Cecina fa la fine di Pompei.

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