lunedì 31 luglio 2023

Libertà di dire: a chi, cosa e come

Personalmente sono contrario alla censura e a qualsiasi restrizione di opinione o di linguaggio. Non condivido che ad un giornalista come Filippo Facci venga negata una striscia televisiva sulla Rai per una frase pubblicata in un articolo su “La Verità”, in relazione al caso La Russa, per quanto grave potesse essere l’offesa rivolta alla ragazza che aveva denunciato di essere stata violentata. Non condivido che allo scrittore Roberto Saviano venga cancellata dalla Rai una serie di puntate televisive contro la mafia, peraltro già registrate, perché avrebbe violato il codice etico. Se la mettiamo su questo piano in Italia, dove, fino a prova contraria, non vige lo Stato etico ma la Costituzione della Repubblica, finiremo tutti silenziati, tranne i soliti adeguati e adeguanti. Qualche problema, però, si pone. I giornalisti possono dire tutto quel che vogliono e contro chi vogliono, impunemente, coperti dall’art. 21 della Costituzione? Facci, nella circostanza, è stato volgare, lo ha ammesso; Saviano, invece, è reiteramente violento, ma non lo ammette e anzi si dice vittima a sua volta. Ecco alcune perle del suo campionario: cialtroni dell’antimafia, ministro della mala vita, bande parlamentari; per lui i ministri in carica sono buffoni, bastardi e incompetenti, il governo Meloni è un governo fascista. Ne ha per tutti. Questo nuovo Savonarola napoletano è assai più violento del suo antesignano ferrarese, che concludeva le sue requisitorie invitando i reprobi a pentirsi se volevano evitare l’inferno. Che Saviano paghi già per questa sua incontinenza con una minaccia che gli incombe sulla testa da parte della mafia, che lo costringe ormai da moltissimi anni a vivere sotto scorta, è un dato di fatto. Ma questo non lo autorizza ad usare la stessa violenza contro gli avversari politici. La mafia si vendica tenendolo sotto minaccia; ma gli altri, i politici che vengono continuamente ingiuriati e offesi, nulla possono per difendersi? Forse il suo stato di eroe vivente dell’anticrimine lo esonera da qualsiasi eccesso verbale? Può veramente distribuire a piacimento insulti? Se la risposta fosse affermativa, lui avrebbe non il potere ma lo strapotere nei confronti di quanti, a suo insindacabile giudizio, meritano qualsiasi improperio, franco di porto, per usare un’espressione commerciale. Lui non chiede di essere creduto, presume di essere credibile, aggiustando pro domo sua la nota distinzione che ne fa don Luigi Ciotti. Sarebbe veramente una strana democrazia quella che consente ad alcuni di aggredire (opinionisti) e ad altri di dover subire a prescindere (politici). Si eccepisce: Facci, che ha l’opportunità di dire, avrebbe aggredito una povera fanciulla “vittima”. E questo non sta bene. Saviano, viceversa, aggredisce il potere, che di per sé è produttore di violenza e di vittime, e questo gli darebbe ogni legittimazione. Nel momento in cui, però, un politico, che sempre uomo è, si difende, si grida al sopruso; come se il politico non potesse querelare, non potesse attivare alcunché per farsi le proprie ragioni di modo e di fatto, dovesse semplicemente subire per il solo fatto di essere un politico e, come un fante sul Piave, tacere e andare avanti. In Italia, accanto alla solita guerra tra magistrati e politici, è in escalation un’altra, tra opinionisti da una parte e politici dall’altra. Ci mancavano solo i preti. E sono arrivati! Don Luigi Ciotti, un altro che può dire ciò che vuole, ha ironizzato su un’impresa che il governo Meloni e il Ministro Salvini in particolare sono impegnati a realizzare, la costruzione del ponte sullo stretto di Messina. Lo ha fatto non esprimendo dissenso, ma sarcasmo e insinuazioni. Legittimo che don Ciotti, o altri, dica quello che pensa nel modo come ritiene più opportuno, ma perché indignarsi se il Ministro Salvini gli risponde, ravvisando nelle parole del prete, a parer suo, uno sproposito? Io credo che tutti dovremmo uscire dalle logiche di appartenenza e riconoscere due cose: la prima è di dire sempre quello che pensiamo senza timore di lesa maestà, ma con rispetto; seconda, di farlo nella forma più personale, con l’unico “obbligo” del sintatticamente corretto. Senza scadere nel turpiloquio e nella violenza, si può dire quel che si vuole con lo spirito mordace, con la citazione dotta o popolare, con la capacità di trovare la metafora giusta, con una battuta. Con l’aceto e non col veleno, insomma.

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