domenica 22 febbraio 2015

Crisi libica e pensiero meridiano


In un’intervista sul “Corriere del Mezzogiorno” del 18 febbraio Franco Cassano ha detto che ora con l’arrivo in Libia delle bande armate dell’Isis le due sponde del Mediterraneo si allontanano. Pensiero meridiano, addio? E’ assai difficile che uno ripudi la sua creatura intellettiva, nel caso in specie che un pensatore dichiari fallita la sua idea del mondo, sulla quale ha tanto puntato. Ma che prenda atto di una realtà improvvisamente mutata è importante.
Cassano fa iniziare tutto il disastro dalla guerra americana all’Iraq dopo l’abbattimento delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Guerra che seguì quella più diretta all’Afghanistan, dove aveva il quartier generale Osama Ben Laden. Partire da un punto preciso è importante per un ragionamento, ma spesso è la premessa di un ragionamento sbagliato.
In realtà si tratta di vedere se l’idea meridiana di Cassano era più utopica prima che dopo quella guerra, che mise fine alla dittatura di Saddam Hussein. Dopo, tra il 2010 e il 2011, ci furono le cosiddette “primavere arabe”, che hanno destabilizzato gran parte dell’Africa mediterranea, ad eccezione dell’Egitto, che è riuscito a recuperare l’inverno arabo – tanto per stare nel linguaggio metaforico delle stagioni – e della Siria, che non ha ceduto a refoli primaverili, rischiando un intervento armato della comunità internazionale guidata dai soliti americani.
Quali potevano essere gli avvicinamenti tra un’Europa illuminista, razionale e democratica e le dittature islamiche fondamentaliste dell’Iraq e della Libia? E che idea si può avere dell’avvicinamento quando si parte dal presupposto di dover civilizzare l’altro? Di volerlo educare alla democrazia? Quando l’altro non ha nessuna intenzione di essere civilizzato e anzi cerca di rendere pan per focaccia? In verità non c’era nessuna concreta ipotesi di avvicinamento. L’unico rapporto di vicinanza era di coltivare affari reciproci rimanendo ognuno sovrano in casa propria. Saddam Hussein e Gheddafi garantivano col loro sistema di potere un certo ordine politico, che era garanzia di pace per l’Europa, a parte le teatrali sparate tipiche di tutti i dittatori, tra il folklore e un bisogno personale di autocompiacersi. Da questo punto di vista gli accordi italo-libici erano esemplari di una collaborazione utilitaristica tra i due paesi: io do una cosa a te e tu dai una cosa a me, magari anche con un contorno di baciamano da parte di Berlusconi a Gheddafi, che provocò sussulti dei morti nella tomba e rivolgimenti di stomachi nei vivi. Del resto la simpatia con cui l’Occidente accolse le “primavere arabe” era espressione di una speranza di diverso avvicinamento tra le due sponde del Mediterraneo, che in verità non erano lontanissime. Caduti i regimi-gendarmi di Hussein e di Gheddafi la situazione è progressivamente e rovinosamente precipitata, fino al punto che oggi l’Occidente percepisce una minaccia che al momento non si può dire quanto vicina e quanto concreta. Ma è indubbio che le due sponde si sono allontanate.
Cassano teme che un nuovo interventismo dell’Occidente possa allontanare ancora di più la sponda africana e si augura che sia nuovo, nel senso che non sia militare. Ma non considera che dall’altra parte c’è gente, che, a torto o a ragione, non è disposta a nessun tipo di incontro. Rispondendogli alcuni giorni dopo, il filosofo Biagio de Giovanni, sempre sul “Corriere del Mezzogiorno”, si chiede: «E se non ci fosse alternativa? Possiamo baloccarci con le categorie di “vecchio” e “nuovo”? Possiamo fare che la nostra giusta ostilità alla guerra diventi la premessa di un’autodistruzione?» (21 febbraio).
Onestamente non ci riconosciamo nella cultura dei due insigni dialoganti. Abbiamo una visione del mondo più realistica, che è tipica della destra, e riteniamo che ognuno si organizzi come meglio crede al suo interno e rispetti gli accordi con l’esterno, senza palesi o occulte interferenze. Proprio per questa ragione riteniamo che l’eliminazione dei due stati, dell’Iraq e della Libia, sia stato non un errore, ma un crimine, il secondo peggiore del primo. Oggi si spera che non si arrivi all’uso delle armi, per quanto gli uomini del cosiddetto Califfato abbiano commesso crimini per i quali meriterebbero una punizione, concedendo loro l’unica cortesia dell’uso della loro “lingua”.

Non farsi illusioni, però, è importante. Una sterzata dell’Italia, paese più direttamente minacciato, è urgente e richiede concretezza. Primo: interrompere il flusso di immigrati, andando a distruggere sulle coste libiche le imbarcazioni usate da questa criminale agenzia di trasporti. Secondo: far capire che l’uso delle armi è un’opzione concreta, che non è affatto confliggente con l’articolo 11 della nostra Costituzione – l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa – giacché l’Italia non fa la guerra per offendere gli altri ma per difendere se stessa. Sarebbe auspicabile che l’intervento avvenisse nell’ambito dell’Onu o della Nato, come recita sempre l’art. 11, che affida la soluzione delle controversie internazionali alle organizzazioni rivolte a tale scopo. Le esperienze di questi anni, però, insegnano che molte risoluzioni dell’Onu vengono disattese da una o da entrambe le parti. Figurarsi se una delle due parti è un’organizzazione come l’Isis senza rappresentanza legale alcuna. Le argomentazioni dette o solo pensate e fatte capire di chi la pensa come Cassano fanno pensare all’epilogo drammatico di chi sceglie il “suicidio” per mano del suo nemico solo perché riconosce di avere antichi torti nei suoi confronti.  

domenica 15 febbraio 2015

Il negazionismo come reato è controproducente


Da poco sono state celebrate due date importanti, il Giorno della Memoria 27 gennaio, nel 70° anniversario della liberazione di Auschwitz, e la Giornata del Ricordo 10 febbraio, per commemorare le vittime delle Foibe e per ricordare l’esodo delle popolazioni istriano-giuliano-dalmate.
A mio avviso sarebbe augurabile che le due “tragedie” venissero celebrate insieme, per evitare una distinzione che sa tanto di politica par condicio. Non è un caso che la Giornata del Ricordo sia stata istituita con la legge del 30 marzo 2004, stante un governo di centrodestra, pur votata quasi all’unanimità sia alla Camera che al Senato, per fare il pari col Giorno della Memoria, in cui si è sempre riconosciuta la sinistra.
Di più. Si dovrebbe istituire una sola giornata nel mondo per ricordare le persecuzioni e i genocidi consumati in ogni parte del pianeta. Sarebbe decisamente più efficace mettere insieme perseguitati appartenenti a popoli, a razze, a religioni, a situazioni diversi, per far risaltare ancor più l’abominio del gesto persecutorio e criminale in sé chiunque lo compia.
Le due tragedie, della Shoah e delle Foibe, in sé non sono paragonabili, ma hanno una componente comune, che è quella dello sterminio sistematico, nell’ordine di milioni in un caso, di migliaia nell’altro, di persone solo per la loro appartenenza ad una razza, ad un’etnia, ad una religione o ad una nazionalità.
Non sono purtroppo solo queste le barbarie; ce ne sono state altre, anche più recenti, ce ne sono all’ordine del giorno. Penso alle ultime nell’ex Jugoslavia e a quelle che si consumano ai danni dei cristiani in regioni controllate dai musulmani, vedi Nigeria e Pakistan; ci sono le lotte tribali in Africa. Il fatto però che di persecuzioni e di stragi ce ne siano purtroppo tante non lenisce minimamente lo sdegno pubblico nei confronti delle più grandi tragedie del Novecento, quelle che sono diventate emblematiche della ferocia umana, ed anzi deve tenere desta l’attenzione di chi ha i mezzi per intervenire per prevenire o per punire simili aberrazioni. Non sono paragonabili perché mentre la persecuzione nazista fu una pianificazione per sterminare gli ebrei (soluzione finale, in tedesco Endlösung der Judenfrage), le foibe furono un fatto, altrettanto grave, ma insorto in circostanze impreviste, una sorta di crimine paragonabile ad un delitto d’impeto, secondo una codificata distinzione giuridica.  Non sono paragonabili anche per la loro dimensione nello spazio e nel tempo. La questione degli ebrei è planetaria e storica; la questione degli italiani in Istria e nella Dalmazia riguarda l’Italia e la Jugoslavia in un segmento temporale circoscritto.
Altro discorso è il negazionismo. Tra tutti gli ismi è il più abominevole specialmente quando è riferito a fatti acclarati, a prescindere dai loro dettagli. Negare il vero è un atto di autolesionismo gravissimo che espone chi lo compie ad una dura condanna sociale.
Non sono d’accordo tuttavia che il negazionismo sia reato. Come tale tradisce quasi la preoccupazione che possa produrre effetti lesivi non sulla persona che lo esercita ma sulla conoscenza generale, nel senso che possa produrre opinione. E’ peraltro un limite alla ricerca storiografica. Un rischio, questo, che uno storico non dovrebbe correre. Lo storico ha il dovere di non fermarsi mai davanti alla verità acquisita, ma cercare sempre oltre e sempre animato dalla stessa spinta deontologica di chi cerca il vero. Perciò non si possono porre limiti alla sua libertà di approfondire la ricerca per giungere al più vero possibile, in un percorso che non deve conoscere interruzioni e limiti. La verità storica, finora conosciuta della shoah o delle foibe, nel momento in cui la si vuole imporre come statica e immodificabile equivale ad un vero e proprio dogma.
Un mio amico, che stimavo molto, voleva convincermi un po’ di anni fa, che la shoah è un’invenzione, che sì c’erano state delle vittime, ma che non erano lontanamente paragonabili alle cifre di cui si parlava e che alla fine era diventata una forza culturale da esibire ed esercitare contro tutti coloro che fossero di opinione diversa. Fu un vulnus nella stima che avevo sempre avuto per lui e perfino l’amicizia si incrinò. Non solo e non tanto per le ragioni maldestramente esibite quanto per il retropensiero, per ciò che motivava quelle ragioni. Che fossero sei milioni gli ebrei trucidati o che fossero solo sei, il giudizio di condanna non cambia, perché non si può accettare né il fatto né tanto meno l’idea che uno venga ucciso senza aver fatto nulla di male, ma solo per la sua condizione naturale.
Si può capire perché si sia giunti in alcuni paesi del mondo a considerarlo reato, ma gli effetti, mentre non vanno a colpire gli esaltati e i fanatici, più o meno ignoranti, i quali poco si preoccupano di non incorrere in reati, pongono problemi agli intellettuali, ai ricercatori, agli storici. I quali possono rischiare di travalicare un limite facilmente travalicabile tra una verità acquisita e la ricerca che vuole che si continui comunque a ricercare la verità.

Il negazionismo, inteso come tendenza o metodo per la negazione di verità universalmente accettate, è da condannare come manifestazione di ignoranza e di turpitudine, ma non può essere reato in quanto afferisce, comunque sia, la sfera della libertà di opinione. Le verità imposte inoltre producono sempre effetti negativi anche alla parte che si vuole difendere e preservare. Chi gode di certi “privilegi” e difese finisce per essere invidiato e odiato. Caino uccise Abele quando si accorse che il Signore aveva un occhio di riguardo per lui.

domenica 8 febbraio 2015

Destra. Caro Fini, è proprio una questione di uomini


In una lettera al “Corriere della Sera” di giovedì, 5 febbraio, Gianfranco Fini, ex un bel po’ di cose, individua in modo sensato i problemi della destra, le risposte che dovrebbe dare e il percorso che dovrebbe fare. Peccato che conclude la sua lettera con un obiettivo minimo e politicamente insignificante: «Sarebbe il modo migliore per ricordare, vent’anni dopo il Congresso di Fiuggi, la nascita di quella destra di stampo europeo, di cui oggi si sono perse, purtroppo le tracce». Dunque, solo una rievocazione per il ventennale di quella storica svolta?
No, poco prima di concludere – ma è evidente la freudiana dispositio – Fini esplicita un altro obiettivo. Dice: «Per uscire dalla condizione attuale e non vivacchiare in una lunga marginalità, alla destra serve una rifondazione programmatica e culturale che ne definisca l’identità e la fisionomia. Cosa vuol dire “Destra” a proposito di europeismo, amor di patria, interesse nazionale, immigrazione e integrazione, laicità delle istituzioni, globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, rapporti tra Stato e società, legalità e sicurezza del cittadino, squilibri sociali crescenti e nuove povertà, diritti civili…».
Non c’è alcun dubbio che si tratta di una serie di tesi buone per un congresso. Fini, ahilui, non capisce però che questo suo modo di ragionare, ancorché valido, è vecchio; appartiene alle vecchie logiche di partito, quando tutto veniva discusso nelle assemblee congressuali, con le mozioni e le rappresentanze in seno alla Direzione nazionale e al Comitato centrale, che se ne sarebbero fatte garanti e interpreti. Oggi, in piena società liquida, per usare la felice espressione di Bauman, si preferisce in tutte le parti politiche, ad eccezione di una piccola élite del Pd, di procedere alla giornata e affrontare i problemi del paese come vengono e come vanno. I congressi, gli unici a farli sono ancora i radicali.
L’altro errore di Fini, al primo connesso, è il non considerare che oggi, ma fin dall’ingresso in politica di Berlusconi è stato così, il leader conta più delle direzioni nazionali, dei comitati centrali e dei congressi. Ignorare questo – e Fini lo ignora – significa mettersi fuori dal tempo. Dice: «E’ patetico cercare di rianimare la destra partendo dal leader, dalle alleanze, dai calcoli sulla legge elettorale. Sono questioni vitali per il ceto politico ma irrilevanti per milioni di elettori di destra che sono oggi privi di rappresentanza politica». Le due cose, in verità, vanno insieme.
Il vero problema della Destra, purtroppo, non è la mancanza di idee e di risposte da dare alle tante emergenze nazionali e internazionali, ma la mancanza di uomini credibili. A partire da Fini, che dice di non essere esente da colpe, ma non dice di che colpe, giù giù fino ai grandi scandali che hanno colpito la Destra dalle amministrazioni locali (Regione Lazio e Comune di Roma) fino alle commistioni politica-corruzione-criminalità, la Destra ha dimostrato di non avere uomini credibili. Quelli che per decenni si erano proposti come arcangeli gabrieli della correttezza e dell’onestà, si sono rivelati una cooperativa di diavoli usciti dall’inferno, dando ragione a tutta una sinistra ex democristiana ed ex comunista che da sempre cerca di accreditarsi come una sorta di categoria antropologico-politica di eccellenza, la sola in Italia.
Quel che costituisce la cifra politica del successo non sono i programmi, le alleanze, le intese, ma gli uomini chiamati ad operare. La politica – si sa – obbliga anche a tradire i propositi iniziali, cambiare le alleanze, modificare le finalità per poterle concretamente raggiungere. Questo lo sanno tutti, anche i cittadini meno attrezzati culturalmente. Ciò che non è perdonabile ad un politico è la disonestà, la corruzione, il profitto personali. Da questo punto di vista Fini ha poco da dire. Non si troverebbe lui nella condizione in cui si trova né la Destra si troverebbe nella condizione in cui si trova se si fosse comportato diversamente in ordine alla gestione finanziaria e patrimoniale del partito, del suo voltafaccia ad una linea politica da lui scelta, all’abbandono di un alleato col quale aveva assicurato per sé e per la propria parte politica un ruolo. La Destra sarebbe ancora oggi una forza politica credibile se credibili si fossero dimostrati i Fini, la Polverini, Fiorito, Alemanno e via elencando.
Questi signori non immaginano il male che hanno fatto a milioni di persone che credevano in loro, che hanno ancora idee e sentimenti di destra, ma che oggi sono spaesati, confusi, privi di qualsiasi credibile rappresentanza. Aver di fatto privato quei cittadini di rappresentanza e di ruolo politico è delitto imperdonabile, meritevole, altro che di perdita di ruolo politico e di considerazione sociale (Fini), o il rischio di condanne anche penali (Fiorito, Alemanno) per chi l’ha commesso, ma di condanne assai più esemplari.
La lettera di Fini, se contiene un’ammissione di colpa, comunque apprezzabile, tradisce una certa nostalgia, che gli elettori di destra non possono condividere, neppure quella, in quanto oggi esclusi da qualsiasi partecipazione politica che abbia un senso. Nostalgici di che cosa? Di una promessa non mantenuta da altri, dai loro dirigenti, dai loro rappresentanti? Di un’impresa finita malissimo?
Quali sono oggi le prospettive per l’elettore di destra? Votare per un partito o per un partitino che poi va ad alimentare Berlusconi, che oggi piatisce sconti di pena? Che senso ha votare Fratelli d’Italia, che oggi si dicono diversi da Forza Italia, ma domani per ragioni elettorali devono andare a confluire, come tanti affluenti, nello stesso fiume berlusconiano limaccioso di questi ultimi dieci anni?
Certo, stare a leccarsi le ferite politicamente serve a ben poco; anzi, non serve a niente. Si spera nella rapidità della politica che oggi dà e toglie nel volgere di poco tempo. Un leader a destra prima o poi sortirà, tanto più valido quanto meno somiglierà a quelli del passato, a quel passato a cui Fini dal 1995 in poi è appartenuto.

domenica 1 febbraio 2015

Renzi ha stravinto con una mattarellata


Sergio Mattarella è il dodicesimo presidente della repubblica italiana. Alla vigilia dell’elezione ha detto: «sarei onorato dell’elezione, ma non ho fatto nulla per meritarmela».
Basterebbero queste sue parole per meritarsi la simpatia e l’apprezzamento di tutto il popolo italiano, che si riconosca o meno nei suoi rappresentanti che materialmente lo hanno eletto. Dunque non sulla sua elezione si vuole qui eccepire, ma su ciò che l’ha preceduta, su chi l’ha voluta e imposta, sulle conseguenze che inevitabilmente ci saranno.
In verità non è successo nulla che non fosse nell’ordine delle cose, poste già su un piano inclinato. Solo uno come Berlusconi, ormai incapace di valutare le situazioni fuori dai suoi più immediati interessi, poteva non prevedere; poteva illudersi che ad un certo punto il piano si riequilibrasse.
E’ bensì vero che tante cose in Italia non si potrebbero spiegare se non in un contesto di assurdità politica. Renzi, un uomo che non è neppure parlamentare e che è presidente del consiglio solo perché segretario di un partito, il Pd, che ha raccolto il 25,42% dei votanti alle elezioni del 2013, qualcosa in meno del Movimento 5 Stelle (25,55%), ha imposto il nome di Sergio Mattarella, annunciando che non avrebbe accettato veti da nessuno, sicuro che avrebbe avuto il consenso di tutta la compagnia di sinistra, sufficiente per eleggerlo al quarto scrutinio.
Così è stato. Il nome che Renzi avrebbe dovuto  concordare coi suoi “alleati” del centrodestra (Ncd) nel governo e per le riforme (Fi) non è stato neppure sussurrato. Il bidone è stato colossale. Il centrodestra è stato escluso in maniera netta. Mattarella è stato votato, a parte qualche voto in libera uscita, dalle forze politiche di centrosinistra e col torcicollo dai grandi elettori del Nuovo centro destra, convertiti all’ultimo minuto per mera opportunità istituzionale. Non lo hanno votato Fi (scheda bianca), il M5S (Imposimato), Fratelli d’Italia e Lega Nord (Feltri).
A parte la scontata e banale affermazione del “presidente di tutti gli italiani” è vero che non tutti gli italiani lo hanno scelto per presidente.
Una furbata, quella di Matteo Renzi, che nell’immediato paga; ma dopo, chissà. In genere certe cose piacciono solo al maligno. I tentativi di rimediare perfino in itinere, sia con Alfano che con Berlusconi, dimostrano che la coscienza Renzi non se la sente pulita, che la paura di quanto potrà accadere al suo governo, alle sue riforme, di qui a non molto l’avverte. I suoi fedelissimi cercano di sfumare, i suoi avversari di partito gongolano per il successo conseguito, i suoi “alleati” fanno buon viso a cattivo gioco, si attaccano alle ragnatele del “metodo” e meditano vendette.
Tutti nel Pd, renziani e non, pensavano e dicevano che presidente della repubblica doveva essere uno qualsiasi, purché non fosse quello del patto del Nazareno. Mattarella, simbolicamente ha sintetizzato “quell’uno qualsiasi” materializzandolo. Così è stato, anche se gli sforzi per trasformarlo nell’unico ideale, nel migliore possibile, sono stati fatti. La Rosy Bindi, la più bella che intelligente, secondo l’indecente battuta di Berlusconi, ha abbracciato l’inviso Renzi e se l’è sbaciucchiato. Sono soddisfazioni anche personali indimenticabili.
Chi esce con le ossa rotte e la pelle squartata è perciò Berlusconi; per lui e con lui l’intero popolo italiano di destra. Non che le sue ossa e la sua pelle non fossero già abbondantemente compromesse, ma mai prima erano state così oscenamente messe a nudo. Se avesse un minimo di consapevolezza, lascerebbe finalmente il campo per gestirsi meglio e in maniera più dignitosa il suo funerale politico.
Ora qualcuno, con le buone o con le cattive, dovrebbe dirgli finalmente le cose come stanno. E stanno così: se pure fosse stato eletto Giuliano Amato, che era l’uomo voluto da lui nella convinzione che gli avrebbe restituito la cortesia graziandolo e restituendolo all’agibilità politica piena,  non gli avrebbe mai dato più di quello che gli ha dato in questi due anni Napolitano. Nessuno al mondo può restituirgli quello che non ha più, nemmeno il Mefistofile che restituì giovinezza al dr. Faust. Abituato a pensare che ogni cosa ha un prezzo, Berlusconi non vuole convincersi che non è così, che ci sono cose che non si possono acquistare.
Qualcuno dovrebbe dirgli che per colpa sua l’elettorato di destra è depresso, che potrebbe non accontentarsi più di astenersi dal voto, che potrebbe cercare altri approdi, magari più dignitosi, più terapeutici, più partecipativi. Non si può continuare a stare in uno schieramento politico frammentato e politicamente confuso, di assoluta indecenza, di assoluta impotenza, di assoluta incapacità di ragionare fuori dagli interessi di un leader, ormai tale nella sua immaginazione.
Renzi può continuare anche a fargli credere di essere il suo interlocutore per le riforme, può anche lusingarlo facendogli credere di contare ancora, ma lo fa solo perché gli conviene farlo.
E il nuovo Presidente della Repubblica? Mattarella dicono che sia un uomo forte e determinato, anche se a vederlo non si direbbe; di poche parole; un custode rigoroso della Costituzione. Tra le sue credenziali sono state elencate la legge elettorale dal suo nome detta Mattarellum, le sue dimissioni da ministro del governo Andreotti in dissenso per il riassetto delle televisioni pro Berlusconi; la sua legge per l’abolizione del servizio militare obbligatorio. Questo si è sentito e qualche altra cosuccia, oltre ad essere stato un giudice della Corte Costituzionale. In verità Mattarella era un politico dismesso, scaduto da un po’ di anni e congelato in uno dei freezer-dispensa di lusso della repubblica in attesa di essere rietichettato. Certo, la sua figura un po’ grigia e silenziosa, pur parendo un’ombra, ombra non ne farà a Renzi, la luce del momento. Si spera che almeno riesca a contenerlo entro le finite della decenza comportamentale, finora abbondantemente scavalcate. L’ultima furbata, più che da politico, è da fiera paesana.