In una lettera al “Corriere della
Sera” di giovedì, 5 febbraio, Gianfranco Fini, ex un bel po’ di cose, individua
in modo sensato i problemi della destra, le risposte che dovrebbe dare e il
percorso che dovrebbe fare. Peccato che conclude la sua lettera con un
obiettivo minimo e politicamente insignificante: «Sarebbe il modo migliore per
ricordare, vent’anni dopo il Congresso di Fiuggi, la nascita di quella destra
di stampo europeo, di cui oggi si sono perse, purtroppo le tracce». Dunque,
solo una rievocazione per il ventennale di quella storica svolta?
No, poco prima di concludere – ma
è evidente la freudiana dispositio –
Fini esplicita un altro obiettivo. Dice: «Per uscire dalla condizione attuale e
non vivacchiare in una lunga marginalità, alla destra serve una rifondazione
programmatica e culturale che ne definisca l’identità e la fisionomia. Cosa
vuol dire “Destra” a proposito di europeismo, amor di patria, interesse
nazionale, immigrazione e integrazione, laicità delle istituzioni,
globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, rapporti tra Stato e
società, legalità e sicurezza del cittadino, squilibri sociali crescenti e
nuove povertà, diritti civili…».
Non c’è alcun dubbio che si
tratta di una serie di tesi buone per un congresso. Fini, ahilui, non capisce
però che questo suo modo di ragionare, ancorché valido, è vecchio; appartiene
alle vecchie logiche di partito, quando tutto veniva discusso nelle assemblee
congressuali, con le mozioni e le rappresentanze in seno alla Direzione
nazionale e al Comitato centrale, che se ne sarebbero fatte garanti e interpreti.
Oggi, in piena società liquida, per usare la felice espressione di Bauman, si
preferisce in tutte le parti politiche, ad eccezione di una piccola élite del
Pd, di procedere alla giornata e affrontare i problemi del paese come vengono e
come vanno. I congressi, gli unici a farli sono ancora i radicali.
L’altro errore di Fini, al primo
connesso, è il non considerare che oggi, ma fin dall’ingresso in politica di
Berlusconi è stato così, il leader conta più delle direzioni nazionali, dei
comitati centrali e dei congressi. Ignorare questo – e Fini lo ignora –
significa mettersi fuori dal tempo. Dice: «E’ patetico cercare di rianimare la
destra partendo dal leader, dalle alleanze, dai calcoli sulla legge elettorale.
Sono questioni vitali per il ceto politico ma irrilevanti per milioni di
elettori di destra che sono oggi privi di rappresentanza politica». Le due cose,
in verità, vanno insieme.
Il vero problema della Destra,
purtroppo, non è la mancanza di idee e di risposte da dare alle tante emergenze
nazionali e internazionali, ma la mancanza di uomini credibili. A partire da
Fini, che dice di non essere esente da colpe, ma non dice di che colpe, giù giù
fino ai grandi scandali che hanno colpito la Destra dalle amministrazioni locali (Regione
Lazio e Comune di Roma) fino alle commistioni politica-corruzione-criminalità, la Destra ha dimostrato di non
avere uomini credibili. Quelli che per decenni si erano proposti come arcangeli
gabrieli della correttezza e dell’onestà, si sono rivelati una cooperativa di
diavoli usciti dall’inferno, dando ragione a tutta una sinistra ex
democristiana ed ex comunista che da sempre cerca di accreditarsi come una sorta
di categoria antropologico-politica di eccellenza, la sola in Italia.
Quel che costituisce la cifra
politica del successo non sono i programmi, le alleanze, le intese, ma gli
uomini chiamati ad operare. La politica – si sa – obbliga anche a tradire i propositi
iniziali, cambiare le alleanze, modificare le finalità per poterle
concretamente raggiungere. Questo lo sanno tutti, anche i cittadini meno
attrezzati culturalmente. Ciò che non è perdonabile ad un politico è la
disonestà, la corruzione, il profitto personali. Da questo punto di vista Fini
ha poco da dire. Non si troverebbe lui nella condizione in cui si trova né la Destra si troverebbe nella
condizione in cui si trova se si fosse comportato diversamente in ordine alla
gestione finanziaria e patrimoniale del partito, del suo voltafaccia ad una
linea politica da lui scelta, all’abbandono di un alleato col quale aveva
assicurato per sé e per la propria parte politica un ruolo. La Destra sarebbe ancora oggi
una forza politica credibile se credibili si fossero dimostrati i Fini, la Polverini , Fiorito,
Alemanno e via elencando.
Questi signori non immaginano il
male che hanno fatto a milioni di persone che credevano in loro, che hanno
ancora idee e sentimenti di destra, ma che oggi sono spaesati, confusi, privi
di qualsiasi credibile rappresentanza. Aver di fatto privato quei cittadini di
rappresentanza e di ruolo politico è delitto imperdonabile, meritevole, altro
che di perdita di ruolo politico e di considerazione sociale (Fini), o il
rischio di condanne anche penali (Fiorito, Alemanno) per chi l’ha commesso, ma di
condanne assai più esemplari.
La lettera di Fini, se contiene
un’ammissione di colpa, comunque apprezzabile, tradisce una certa nostalgia,
che gli elettori di destra non possono condividere, neppure quella, in quanto
oggi esclusi da qualsiasi partecipazione politica che abbia un senso.
Nostalgici di che cosa? Di una promessa non mantenuta da altri, dai loro
dirigenti, dai loro rappresentanti? Di un’impresa finita malissimo?
Quali sono oggi le prospettive
per l’elettore di destra? Votare per un partito o per un partitino che poi va
ad alimentare Berlusconi, che oggi piatisce sconti di pena? Che senso ha votare
Fratelli d’Italia, che oggi si dicono diversi da Forza Italia, ma domani per
ragioni elettorali devono andare a confluire, come tanti affluenti, nello
stesso fiume berlusconiano limaccioso di questi ultimi dieci anni?
Certo, stare a leccarsi le ferite politicamente serve a ben poco; anzi,
non serve a niente. Si spera nella rapidità della politica che oggi dà e toglie
nel volgere di poco tempo. Un leader a destra prima o poi sortirà, tanto più
valido quanto meno somiglierà a quelli del passato, a quel passato a cui Fini
dal 1995 in
poi è appartenuto.
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