domenica 8 febbraio 2015

Destra. Caro Fini, è proprio una questione di uomini


In una lettera al “Corriere della Sera” di giovedì, 5 febbraio, Gianfranco Fini, ex un bel po’ di cose, individua in modo sensato i problemi della destra, le risposte che dovrebbe dare e il percorso che dovrebbe fare. Peccato che conclude la sua lettera con un obiettivo minimo e politicamente insignificante: «Sarebbe il modo migliore per ricordare, vent’anni dopo il Congresso di Fiuggi, la nascita di quella destra di stampo europeo, di cui oggi si sono perse, purtroppo le tracce». Dunque, solo una rievocazione per il ventennale di quella storica svolta?
No, poco prima di concludere – ma è evidente la freudiana dispositio – Fini esplicita un altro obiettivo. Dice: «Per uscire dalla condizione attuale e non vivacchiare in una lunga marginalità, alla destra serve una rifondazione programmatica e culturale che ne definisca l’identità e la fisionomia. Cosa vuol dire “Destra” a proposito di europeismo, amor di patria, interesse nazionale, immigrazione e integrazione, laicità delle istituzioni, globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, rapporti tra Stato e società, legalità e sicurezza del cittadino, squilibri sociali crescenti e nuove povertà, diritti civili…».
Non c’è alcun dubbio che si tratta di una serie di tesi buone per un congresso. Fini, ahilui, non capisce però che questo suo modo di ragionare, ancorché valido, è vecchio; appartiene alle vecchie logiche di partito, quando tutto veniva discusso nelle assemblee congressuali, con le mozioni e le rappresentanze in seno alla Direzione nazionale e al Comitato centrale, che se ne sarebbero fatte garanti e interpreti. Oggi, in piena società liquida, per usare la felice espressione di Bauman, si preferisce in tutte le parti politiche, ad eccezione di una piccola élite del Pd, di procedere alla giornata e affrontare i problemi del paese come vengono e come vanno. I congressi, gli unici a farli sono ancora i radicali.
L’altro errore di Fini, al primo connesso, è il non considerare che oggi, ma fin dall’ingresso in politica di Berlusconi è stato così, il leader conta più delle direzioni nazionali, dei comitati centrali e dei congressi. Ignorare questo – e Fini lo ignora – significa mettersi fuori dal tempo. Dice: «E’ patetico cercare di rianimare la destra partendo dal leader, dalle alleanze, dai calcoli sulla legge elettorale. Sono questioni vitali per il ceto politico ma irrilevanti per milioni di elettori di destra che sono oggi privi di rappresentanza politica». Le due cose, in verità, vanno insieme.
Il vero problema della Destra, purtroppo, non è la mancanza di idee e di risposte da dare alle tante emergenze nazionali e internazionali, ma la mancanza di uomini credibili. A partire da Fini, che dice di non essere esente da colpe, ma non dice di che colpe, giù giù fino ai grandi scandali che hanno colpito la Destra dalle amministrazioni locali (Regione Lazio e Comune di Roma) fino alle commistioni politica-corruzione-criminalità, la Destra ha dimostrato di non avere uomini credibili. Quelli che per decenni si erano proposti come arcangeli gabrieli della correttezza e dell’onestà, si sono rivelati una cooperativa di diavoli usciti dall’inferno, dando ragione a tutta una sinistra ex democristiana ed ex comunista che da sempre cerca di accreditarsi come una sorta di categoria antropologico-politica di eccellenza, la sola in Italia.
Quel che costituisce la cifra politica del successo non sono i programmi, le alleanze, le intese, ma gli uomini chiamati ad operare. La politica – si sa – obbliga anche a tradire i propositi iniziali, cambiare le alleanze, modificare le finalità per poterle concretamente raggiungere. Questo lo sanno tutti, anche i cittadini meno attrezzati culturalmente. Ciò che non è perdonabile ad un politico è la disonestà, la corruzione, il profitto personali. Da questo punto di vista Fini ha poco da dire. Non si troverebbe lui nella condizione in cui si trova né la Destra si troverebbe nella condizione in cui si trova se si fosse comportato diversamente in ordine alla gestione finanziaria e patrimoniale del partito, del suo voltafaccia ad una linea politica da lui scelta, all’abbandono di un alleato col quale aveva assicurato per sé e per la propria parte politica un ruolo. La Destra sarebbe ancora oggi una forza politica credibile se credibili si fossero dimostrati i Fini, la Polverini, Fiorito, Alemanno e via elencando.
Questi signori non immaginano il male che hanno fatto a milioni di persone che credevano in loro, che hanno ancora idee e sentimenti di destra, ma che oggi sono spaesati, confusi, privi di qualsiasi credibile rappresentanza. Aver di fatto privato quei cittadini di rappresentanza e di ruolo politico è delitto imperdonabile, meritevole, altro che di perdita di ruolo politico e di considerazione sociale (Fini), o il rischio di condanne anche penali (Fiorito, Alemanno) per chi l’ha commesso, ma di condanne assai più esemplari.
La lettera di Fini, se contiene un’ammissione di colpa, comunque apprezzabile, tradisce una certa nostalgia, che gli elettori di destra non possono condividere, neppure quella, in quanto oggi esclusi da qualsiasi partecipazione politica che abbia un senso. Nostalgici di che cosa? Di una promessa non mantenuta da altri, dai loro dirigenti, dai loro rappresentanti? Di un’impresa finita malissimo?
Quali sono oggi le prospettive per l’elettore di destra? Votare per un partito o per un partitino che poi va ad alimentare Berlusconi, che oggi piatisce sconti di pena? Che senso ha votare Fratelli d’Italia, che oggi si dicono diversi da Forza Italia, ma domani per ragioni elettorali devono andare a confluire, come tanti affluenti, nello stesso fiume berlusconiano limaccioso di questi ultimi dieci anni?
Certo, stare a leccarsi le ferite politicamente serve a ben poco; anzi, non serve a niente. Si spera nella rapidità della politica che oggi dà e toglie nel volgere di poco tempo. Un leader a destra prima o poi sortirà, tanto più valido quanto meno somiglierà a quelli del passato, a quel passato a cui Fini dal 1995 in poi è appartenuto.

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