domenica 15 ottobre 2017

Amministrazione a Lecce tra sentenze e sospensioni




Nel giro di due giorni l’Amministrazione comunale leccese è passata da una sentenza del Tar, che restituiva al centrodestra la sua iniziale maggioranza consiliare (17 seggi), al “contrordine” del Consiglio di Stato che ha sospeso la sentenza, in attesa del pronunciamento definitivo che avverrà presumibilmente a breve, lasciando per ora al “suo” posto l’attuale maggioranza di centrosinistra.
Ma davvero finirà l’altalena? Una cosa è l’augurio, un’altra la realtà delle cose e dei comportamenti. Alla sentenza del Tar, che azzoppava il Sindaco, qualche consigliere di centrodestra era già disposto a fargli da stampella. Lo abbiamo letto sui giornali.
Intanto va detto subito, forte e chiaro, che il pasticcio è stato provocato dal cosiddetto voto disgiunto. E’, questo, per dirla con Paolo Villaggio, una delle più grandi cagate che si possano ideare e fare. Chi lo ha ideato è il solito furbastro legislatore italiano, che, pur di imbrogliare le cose più semplici, è capace di inventarsi mostruose assurdità. L’elettore che ricorre al voto disgiunto è evidente che non sa votare. Il voto è sempre uno, non può essere che ontologicamente uno. Come posso votare due volte, una pro e l’altra contro? Sarebbe come se in una partita Juventus-Inter un tifoso tifi per entrambe le squadre. Si dirà: ma si vota per cose diverse. No, si vota per una sola cosa: il governo cittadino. Che non è un mostro a due teste. Se io voglio che governi il centrodestra voto i suoi uomini come facenti parte di un blocco unico, aventi ruoli diversi; e lo stesso vale se voglio al governo il centrosinistra. L’assemblaggio, pezzi di destra più pezzi di sinistra, in politica non funziona.
Non ci fosse stato il voto disgiunto, Lecce avrebbe oggi un’Amministrazione senza problemi di “confini”. Dal giorno dopo il ballottaggio, che vedeva prevalere Salvemini su Giliberti, non si fa invece che pensare a carte bollate e ad avvocati.  
Mi chiedo: dov’è la bontà del voto disgiunto? Ovvio che lo stesso discorso vale a parti invertite. Non vivo la realtà politico-amministrativa leccese; ne parlo perché le questioni politiche mi appassionano. Non parlo perciò per spirito di appartenenza, anche perché faccio fatica a capire chi nel consesso cittadino leccese di oggi sono i “miei”. Li conosco così poco! Una volta i miei, senza virgolette, li riconoscevo anche fossero all’altro capo dell’Italia.
Il voto disgiunto è come andare nello stesso tempo a scirocco e a tramontana ed è altamente diseducativo. Esso, infatti, abitua l’elettore al trasformismo politico, principio di doppiezza e di superficialità, tipico dei politici. I quali, probabilmente, nei loro vizi vogliono coinvolgere gli elettori, secondo l’abitudine tipica di certi mascalzoni che, per eliminare la distanza dalle persone perbene, coinvolgono quanti ne capitano a tiro nei loro loschi affari. E così tutti mascalzoni, nessun mascalzone. Non voglio dire che tutti i politici sono mascalzoni, dico solo che tra di essi c’è una mentalità diffusa di poter fare tutto e il contrario di tutto pur di raggiungere un qualche obiettivo, che si commisura allo spessore di ciascuno.
Nella recente legge elettorale nazionale, detta Rosatellum, secondo ormai il gusto invalso delle trovate nugatorie anche per le cose serie, approvata alla Camera, ci sono nefandezze di forma e di sostanza, come da tanti evidenziato, ma non c’è il voto disgiunto. E questa, cosa buona è. Vi figurate se la maggioranza degli elettori votasse nel proporzionale in un modo e nel maggioritario (uninominale) in un altro? Ve l’immaginate il casino?
L’Amministrazione leccese rischia di avere un lungo periodo di incertezze, anche se, come è auspicabile, il Consiglio di Stato trova il tempo e il modo per mettere punto all’assegnazione definitiva dei seggi, magari confermandone la maggioranza a Salvemini.
La situazione che si è venuta a determinare è piuttosto confusa, potrebbe vedere l’opposizione di centrodestra confrontarsi-incontrarsi per un verso con la maggioranza di centrosinistra e per un altro, al suo interno, con se stessa. Un saggio lo ha già dato con la questione del filobus, che, a quanto pare, il centrodestra non vuole più di quanto non lo voglia il centrosinistra.
Ad elezioni anticipate non vuole andare nessuno; meno degli altri quelli del centrodestra, che hanno bisogno di tempo per fare chiarezza tra di loro e ricompattarsi su programmi e organigrammi nuovi. Per questo hanno bisogno di tempo e di occasioni per ritrovarsi. Da questo punto di vista la situazione amministrativa di tirare a campare in prospettiva potrebbe giovare di più al centrodestra.

sabato 30 settembre 2017

In Germania ha vinto il "populismo"


In Germania il tanto vituperato “populismo” ha dato una lezione di democrazia. Contro alcune politiche di Angela Merkel, che pure è l’Angela Merkel, non è mica Matteo Renzi – non so se mi spiego – per esempio in tema di immigrazione e di matrimoni gay, quella parte del popolo più tradizionalista e conservatore ha espresso il suo malumore. Vogliamo chiamarlo populismo? Chiamiamolo. Fatto sta che lo ha fatto nell’unico modo consentito in democrazia: col voto.
Evviva, allora, il voto che concede opportunità politiche! Evviva i populisti che hanno saputo cogliere l’occasione!
Per la prima volta al Bundestag entrano un centinaio di parlamentari dell’estrema destra dell’Afd (Alternative für Deutschland).
“Si salvi chi può” pare essere il grido dei democratici puri e purissimi, tedeschi e non. Invece non è successo niente di allarmante. Prima di tutto è sbagliato associare questo nuovo partito ai nazisti. Farlo per propaganda è perdonabile; farlo per convinzione no. Il nazismo, con cui i tedeschi hanno saputo fare i conti molto meglio di quanto non abbiamo saputo fare noi italiani col fascismo, è qualcosa di completamente diverso per una lunga serie di motivi. Dice: hanno esaltato il comportamento dei soldati tedeschi nelle due guerre mondiali. E non hanno fatto bene? Per caso i tedeschi non si sono comportati da buoni soldati? I tedeschi sono abituati ad obbedire sia che facciano la guerra sia che facciano la pace. Esaltare la loro obbedienza e il loro coraggio è rafforzare la germanicità, quell’elemento di coesione che rende una moltitudine di uomini un popolo fiero di essere tale.
In Germania, come del resto in Italia, moltissimi tacciono in ossequio al politicamente corretto, ma non sono affatto d’accordo a sentir denigrare sistematicamente i propri connazionali dei periodi nazista e fascista. Dovremmo finirla di considerare quanto si fece in quegli anni, nel bene e nel male, opera del nazismo o del fascismo. Tutto fu fatto dal popolo tedesco in Germania, dal popolo italiano in Italia. Questo vale anche per oggi. Certo, allora si governava perseguendo dei fini, oggi si governa perseguendone altri. Il che dipende da numerosi fattori, storici soprattutto. Ma il fascismo in Italia e il nazismo in Germania furono opera del popolo italiano e del popolo tedesco in un particolare periodo della loro storia.
Gli allarmismi lasciano il tempo che trovano. Possiamo stare tutti “tranquilli”: un nuovo fascismo, se dovesse riproporsi sotto altro nome e sotto altre vesti, non chiederà permesso a nessuno per imporsi. La storia è fatta così, piaccia o non piaccia.
Ma torniamo al populismo, che, in Germania, ora vuole condizionare democraticamente la politica del governo stando all’opposizione.
E’ scontato che la Merkel farà un nuovo governo senza i socialdemocratici di Schulz, che hanno pagato il prezzo più alto in queste votazioni. Si sa che quando al governo ci sono due alleati, il più debole è destinato a soccombere. In passato era toccato ai liberali.
Farà un’altra Grosse Koalition con liberali e verdi e sarà giocoforza cambiare qualcosa nella politica immigratoria e aperta alle più audaci esperienze di nuove forme famigliari o pseudofamigliari, se non vorranno che i populisti si rafforzino ulteriormente.
Non sarà facile per la Cancelliera tedesca, perché i verdi rivendicheranno il timbro della loro presenza al governo. Si troverà tra l’incudine dei suoi alleati verdi e il martello dei suoi oppositori esterni dell’A-Fau-De. Dipenderà da chi la spunta. Se i verdi non riusciranno, come probabilmente non riusciranno, ad imporre la loro politica di aperture, faranno la fine dei socialdemocratici; si assottiglieranno alle prossime votazioni. Se riusciranno, il populismo, chiamiamolo così, diventerà sempre più forte; e la cura dimagrante la faranno i Cristiano-democratici.
Un altro problema per la Merkel è la contrapposizione di liberali, suoi alleati, e socialdemocratici, ora suoi oppositori. Specialmente in politica economica hanno visioni diverse. Ma non sarà facile per i socialdemocratici opporsi ad una politica, nella quale hanno avuto tanta parte negli anni passati.

Sembra velleitario, infine, quanto ha detto il nostro Gentiloni, a proposito di un ruolo di equilibrio che ora avrebbe l’Italia. L’Italia? Pensiamo ad equilibrare le nostre cose!    

domenica 24 settembre 2017

Il M5S potrebbe andare al potere, ma...


Verrebbe di dire, dopo dieci anni da che il Movimento 5 Stelle è per così dire in vita, che è destinato ad arrivare prima o poi al potere secondo i suoi piani. In verità è da ridere in gran parte dei suoi protagonisti e in quasi tutte le sue manifestazioni, ad incominciare da chi ha fatto del riso la sua professione, intendo Beppe Grillo, ai tanti comportamenti che ne hanno scandito le tappe. Ultima l’elezione, si fa per dire, di Luigi Di Maio, a leader del Movimento. Da ridere anche perché Beppe Grillo gabba che si mette da parte per fare il padre nobile. Toh, un altro che vuole fare il padre nobile! Alle prime difficoltà, torna a decidere lui, come ha già fatto. Esattamente come ha fatto e fa Berlusconi,
I greci inventarono, da quei grandi maestri di pensiero e di fantasia che erano, il dio Saturno, il quale regnava incontrastato sulla Terra, ma temendo che un suo figlio potesse spodestarlo, come aveva fatto lui con Urano suo padre, appena nati i figli li ingoiava. Il banchetto finì con Giove, che la madre Rea per salvarlo andò a partorirlo lontano, su un’isola, e lo tenne nascosto. Mitologia, si dirà. Ebbene sì, ma serve, serve; serve a capire tante cose della realtà quotidiana.
Perché sono del parere che prima o poi il M5S arriverà al potere? Perché nella storia a volte si creano delle valanghe politiche e sociali che rotolano giù e non è difficile indovinare che si fermano solo quando più giù non possono andare. Il non più giù di un movimento politico è il potere. Anche il fascismo fu sottovalutato. Anche Berlusconi lo è stato. Sappiamo che cosa è stato il fascismo e che cosa è stato il berlusconismo. Dunque il grillismo, che è una valanga, potrebbe andare al potere, contro tutti i tentativi di delegittimarlo, di irriderlo, di impedirglielo da parte degli altri. Ha una sua forza ed una ragione; non viene dal nulla, viene da quella parte della società antropologicamente cambiata e perciò non compresa dall’altra.
Fin dal suo apparire come forza politica di movimento – il vaffa day ne fu il battesimo – l’establishment della politica lo ha giudicato male; gli ha detto che non potrebbe mai avere una classe politica adeguata, che è un movimento di gente senza arte né parte, che sono tutti degli incapaci. L’ultima è dello scrittore Enrico Carofiglio, che li ha definiti una “agenzia di risentiti”.
Sembra che essi diano ragione a chi li critica. Di Maio dichiara che la sua professione è di giornalista pubblicista. Pur senza entrare nel merito, c’è che fare il giornalista pubblicista non è una professione, ma una co-attività professionale. Cioè uno fa l’architetto, il professore, il medico, il ragioniere, e contemporaneamente fa il giornalista pubblicista. Di giornalisti pubblicisti, che non hanno mai scritto un articolo e non sanno neppure come si scrive, è pieno l’elenco dell’Ordine. Per molti avere il tesserino è uno status symbol, niente di più; ne hanno fatto razzìa i politici. Questo non significa che di Maio non sia in grado di fare il presidente del consiglio o il segretario nazionale del movimento, ma solo che non ha una professione. Se è importante averla è un altro discorso!
Grillo, che per età appartiene alla nostra generazione e dunque ci conosce, ce l’ha coi giornalisti, con quelli veri non con quelli alla Di Maio, e ha detto che lui vorrebbe mangiarseli per il piacere di vomitarli. Da parte loro i giornalisti il difetto ce l’hanno più in basso del piloro e avrebbero difficoltà a liberarsi del Grillo dopo averlo mangiato.  
Battute a parte, c’è tra il grillismo e la cultura politica dell’establishment, di cui la stampa è interprete, una totale incomprensione. I grillini sono diversi, appartengono ad un tipo antropologico che non è più quello di venti-trenta anni fa. Non hanno la cultura storiografica, filosofica e letteraria di una volta. Queste materie sono state penalizzate, quando non addirittura smacchiate dalle programmazioni scolastiche. La scuola da cui sono usciti è quella dell’autonomia, dell’inglese, dell’azienda, del computer, della didattica modulare, in una parola dell’ignoranza di tutto ciò che costituiva la formazione scolastica di una volta. Utilizzano il web per fare politica, come una volta si usava il microfono in piazza o la penna; il ciclostile e il volantino. La rete per loro è tutto. Una volta si facevano le assemblee e si discuteva fino a picchiarsi. I loro congressi sembrano cose incomprensibili. Con poche decine di voti molti sono giunti a Montecitorio e a Palazzo Madama. Se poi è democrazia è un altro discorso. Contro i due milioni di elettori delle primarie del Pd, che hanno eletto Renzi, loro oppongono i circa trentottomila delle loro primarie che hanno eletto Di Maio; con la differenza che quelli di Renzi erano in carne ed ossa, quelli di Di Maio erano elettronici, volatili, eterei. Nel loro movimento non c’è dibattito, non c’è confronto, chi dissente è fuori. La loro strategia è il potere nelle loro esclusive mani. Ecco perché non cercano accordi e respingono proposte di intese con altri. Si potrebbe dire che il loro è un colpo di stato strisciante lungo un percorso ai margini delle istituzioni, verso la dittatura del partito unico. Si difendono dagli attacchi senza negare le accuse che vengono loro mosse, anzi le considerano i loro pregi, i loro meriti. Come potremmo governare bene – dicono – unendoci con chi non sa che governare male? Questo oppongono.
Lo Zeitgeist è dalla loro parte. Sono figli del loro tempo; e il loro tempo è dominato dalla comunicazione elettronica. Il loro è un elettorato, per lo più giovane, che non chiede di sapere, di conoscere, ha cieca fiducia in chi lo rappresenta; insegue il miraggio di una sorta di palingenesi politica, qualcosa che garantisce l’onestà, la pulizia, l’efficienza, la crescita, la giustizia. Gli elettori del M5S  hanno prosciugato il mare, che proverbialmente stava tra il dire e il fare.
Se dopo appena dieci anni il Movimento ha circa il 30 % degli elettori – la valanga, appunto – non può che continuare a crescere nei prossimi.  

Ma può funzionare la loro strategia? Oggi non è più di moda studiare gli scrittori di politica, ma se andiamo a vedere quel che dicevano ci accorgiamo che le categorie politiche, i comportamenti sono gli stessi, ieri come oggi. Un esempio? Benedetto Croce apriva così il suo saggio “Etica e politica”: “Chiunque, conducendo vita operosa, deve piegare altri a suoi collaboratori o è costretto a toglierseli d’accanto perché d’impaccio all’opera che esercita”.  Prima di far fuori Fico Grillo ha letto Croce? C’è da dubitarne. Ma il riferimento è importante per capire che al di là delle parole e dei mezzi, con cui i grillini potrebbero andare al potere, c’è la realtà con cui dovrebbero poi fare i conti. Una realtà, che, come la storia insegna, alla fine vince, piega le più forti resistenze e trasforma anche le più pure intenzioni nei più laidi risultati. E’ successo sempre. Perché non dovrebbe succedere ancora?

domenica 10 settembre 2017


Si avverte in Italia un’inquietante voglia di dividerci. Ogni circostanza è buona: sui migranti, sul fascismo, sul Nord leghista e sul Sud borbonico. Questioni, più che divisive, laceranti; riguardano il presente, il passato e il futuro del nostro Paese.
Partiamo dai migranti, dal presente che diventerà futuro. Non so se questo papa, che s’intitola a Francesco, sappia che le strade dell’inferno spesso sono lastricate da buone intenzioni. Dico non so, per dire, perché un papa fesso non è mai esistito, neppure quel Celestino V, oltraggiato da Bonifacio VIII e poi da Dante, che lo incolpa di essersi fatto oltraggiare. Né mi sembra una buona intenzione quella di trasformare l’Italia in un bordello multietnico. Di recente ha pontificato sullo jus soli perché il Parlamento italiano lo approvi al più presto. Non ha detto esplicitamente jus soli, ma che tutti gli esseri umani hanno diritto da subito alla nazionalità. Francesco parla per come sono i giorni, da un “buona sera” all’altro.
La nazionalità a tutti? E chi la nega? Il punto è perché dare la nazionalità italiana a chi nasce in Italia da mamma che s’ingravida in Africa o in Asia e viene a figliare da noi apposta per avere subito una serie di diritti che neppure gli italiani hanno in concreto. Ma non è tanto questione di diritti, che poi si traducono in beni e servizi materiali, quanto di questioni assai più complesse. Più etnie generano conflitti; il mondo ne è pieno. Qualche anno fa il politologo Giovanni Sartori scrisse un saggio sulla società multietnica, per dimostrarne i rischi, nazionali e sociali.
I sostenitori dell’accoglienza senza se e senza ma dicono che con la nazionalità da subito per i bambini che nascono in Italia si favorirebbe l’integrazione e si eviterebbe il terrorismo. Non erano forse cittadini francesi bene integrati i massacratori di Charlie Hebdo e del Bataclan? Non erano cittadini belgi ben integrati i terroristi dell’aeroporto di Bruxelles? Non erano cittadini spagnoli ben integrati i terroristi di Barcellona?
Mentre dunque con lo jus soli prepariamo un futuro di italiani tra di loro diversi e potenzialmente conflittuali, vengono tirate fuori vecchie storie, che, ove mai dovessero veramente raggiungere un certo livello di asprezza, aprirebbero stagioni da… libera Dio!
Nel Nord Italia, in Lombardia e nel Veneto, si terranno il 22 e il 23 di ottobre dei referendum per l’autonomia. E’ storia vecchia: i lombardo-veneti vogliono che i loro soldi vengano trattenuti nelle loro regioni e reclamano lo status di regione a statuto speciale, come la Sicilia, la Sardegna, la Valle d’Aosta, il Trentino e il Friuli. E’ un brutto segnale che incuba processi pericolosi per la tenuta del Paese.
Nel frattempo si polemizza sulle tracce del fascismo, se cancellarle o meno, e si insiste a non voler fare onestamente i conti con lo stesso. Come se non ci fosse mai stata un’Italia fascista e un popolo entusiasta di essere fascista, si vorrebbe cancellare le tracce di quell’Italia e di quel popolo; si vorrebbe cancellare la memoria di tanti italiani. I quali hanno nei confronti del fascismo idee e valutazioni assai diverse da quelle degli onorevoli Fiano e Boldrini.  Il fascismo, lo si voglia o meno ammettere, è connaturato al popolo italiano; è fuoco coperto. Se ne teme il riattizzarsi. Ma piuttosto che combatterlo con politiche adeguate, con fatti tali da convincere che la democrazia è da preferire a qualsiasi forma di fascismo, lo fanno con minacce, con leggi ammazza-memoria, con la repressione del pensiero dissenziente, ovvero con altro; sì, si potrebbe dire con metodi “fascisti”.
E’ augurabile che si riapra un nuovo fronte fascismo-antifascismo? Assolutamente no, bisogna scongiurarlo; ma per questo è necessario che la smettano i professionisti dell’antifascismo di indignarsi per una strada intitolata ad un gerarca o per un monumento su cui si legge “Mussolini Dux”. Piaccia o non piaccia, ogni nazione ha diritto ad avere una memoria storica, assai meglio se condivisa, ma bene anche se reciprocamente rispettata.
L’altro fronte che si sta riaprendo, pericolosamente, è quello del Sud borbonico contro il Nord sabaudo, diversamente definito del Sud massacrato e del Nord massacratore. Sono persone irresponsabili a volerlo riaprire. L’ultimo libro di Pino Aprile è intitolato Carnefici, che è pura istigazione all’odio. Questi “patrioti” borbonici fuori tempo massimo mischiano verità storica con opportunità politiche, rivendicazionismi confusi e incapacità di vedere le cose con un minimo di realismo. Vogliono l’istituzione di una giornata della memoria delle vittime meridionali del processo risorgimentale e neppure sanno che nel novero di quelle vittime sono comprese quelle che caddero per difendere l’unità d’Italia, trucidate dai loro eroi briganti. Essi magnificano i briganti quali eroi in difesa della loro terra e della loro civiltà e chiamano guerra contadina quella che sicuramente aveva anche questo carattere ma che era fondamentalmente guerra politica aizzata da Francesco II e dal Papa e strumentalizzata da criminali incalliti e megalomani. Essi non sanno che i discendenti più credibili di quei loro eroi oggi sono i mafiosi, i camorristi e gli ndranghetisti.
Anche la camorra ebbe nel 1860 una parte nell’impresa garibaldina, ma non si può dire che essa abbia combattuto per l’Unità d’Italia. Anche la mafia ha avuto una parte nel 1943 alla “liberazione” dell’Italia, ma non si può dire per questo che la mafia abbia combattuto per la Repubblica Italiana.
Ci sono storici seri che analizzano in tutti gli aspetti, senza nulla tralasciare, sia i fatti storici, compresi quelli dell’unificazione italiana, sia i fenomeni criminali. Hanno dimostrato che la criminalità ha avuto sempre ruoli politici, specialmente quando ci sono state crisi gravi e ha trovato l’opportunità di intrecciare i suoi interessi con quelli del Paese. Si leggano sull’argomento i libri di Francesco Benigno e di Enzo Ciconte, per citarne alcuni.

Insistere su questioni così laceranti, come italiani di sangue e italiani di suolo, autonomisti e unitaristi, fascismo-antifascismo e sud borbonico-nord sabaudo, per calcoli politici, può eccitare gli animi esarcebati degli italiani, che, travagliati da gravissime crisi di trasformazione in atto e incerti sul futuro del Paese, potrebbero trovare sfogo in contrapposizioni false, ma terribilmente laceranti e rovinose.  

domenica 3 settembre 2017

Immigrazione: meriti e vanti


Il Ministro Minniti non ha retto alla tentazione di presentarsi al suo popolo come il salvatore della patria democratica e ha detto che sì, il suo modo di affrontare il problema degli immigrati appare un po’ deciso, ma che è stato costretto a tanto perché era in pericolo la tenuta democratica e sociale del paese. Come dire? A mali estremi, estremi rimedi. Non è stato dello stesso parere il suo collega in governo, il Ministro di Giustizia Orlando, il quale ha detto che non c’era nessun reale pericolo per la democrazia e che è sbagliato associare l’immigrazione alla sicurezza del paese. Ha ragione l’uno? Ha ragione l’altro? Ognuno ha colto un aspetto della politica: l’uno quello del fare, l’altro del sembrare.
Sta di fatto che se metodo fascista è stato quello di Minniti, come argutamente ha detto il comico Crozza, vuol dire che il fascismo si pone ancora come un buon rimedio contro il disordine e il rischio di cadere nel caos e nella paura. Il che dovrebbe far riflettere più di un santone democratico. Il fascismo, cosa buona è? Allora non dobbiamo lasciarlo tutto ai fascisti.
C’è solo da recriminare perché per tanto tempo si è detto che per frenare i flussi migratori non c’era nulla da fare, che non si poteva che accogliere quanti ne arrivavano nei nostri porti. Vorrei vedere che cosa hanno da dire ora tutti quei sapientoni e democraticoni che provocatoriamente chiedevano nel corso dei dibattiti televisivi ai loro interlocutori di destra che cosa avrebbero voluto fare al posto loro, per poi, evidentemente, gettargli in faccia il loro fascismo.
Le elezioni si avvicinano e come sempre è accaduto in Italia chi più può più s’impossessa dei cavalli di battaglia degli avversari. Non si poteva lasciare la questione dei migranti, con tutti i loro portati di insicurezza, prepotenze, violenze, stupri, sporcizie urbane varie, alla destra. Hanno ragione quelli che criticano Minniti. Lui ha fatto con i migranti una politica di destra.
A sua difesa non c’è tanto la ventilata reazione del paese, che, come tutte le cose ipotizzate, era pure probabile che ci fosse, ma la concreta presa d’atto che molti sindaci, non solo di destra, ma perfino di sinistra, si erano rifiutati di accogliere nei loro comuni gli immigrati che i prefetti inviavano. Di fronte a tanti rifiuti c’era poco da fare. Nella prima metà di luglio i flussi erano diventati piene, straripamenti, allagamenti, mentre da qualche tempo la magistratura siciliana aveva puntato l’attenzione su alcune Ong, che erano in collusione con gli scafisti.
Anche qui, a proposito delle Ong, perché la Boldrini, perché Grasso, perché tanti, piccoli e grandi personaggi dell’establishment, che tanto s’indignarono nei giorni dell’accusa alle Ong, non hanno detto più nulla, non hanno chiesto scusa ai magistrati siciliani in presenza di comprovate compromissioni di alcune Ong con gli scafisti?
L’antifascismo – si sa – in Italia è un mestiere; e se uno sa fare solo quello, non gli si può chiedere di fare altro. Perciò la Boldrini e Grasso continuino pure ad esercitare il loro mestiere; provvederà la realtà delle cose a dare le giuste risposte.
Questa realtà non dice affatto che per risolvere certi problemi occorre il fascismo. Siamo seri! Minniti si è mosso con decisione usando la legge e la sensibilità democratica. Ha detto: primo, il problema va affrontato in Libia e dunque facciamo gli opportuni accordi con le autorità libiche perché i migranti non lascino quel paese; le Ong non possono operare fuori da qualsiasi legge e dunque mettiamo un po’ d’ordine nelle pratiche di salvataggio e di trasporto degli immigrati; terzo, recuperiamo la collaborazione e la fiducia con i partner europei. Non mi pare affatto che tutto questo sia fascismo, salvo che per fascismo non si voglia intendere qualsiasi provvedimento finalizzato alla soluzione di un problema.
E’ vero, nessuno è uscito dal suo guscio per riconoscere che, contrariamente a quanto pensava, qualcosa si poteva fare e che qualcosa di importante era stato fatto. Ma gli stessi hanno incominciato ad accusare di fascismo un loro ministro e a sostenere che il problema immigrati non è stato risolto, è stato solo confinato in Libia, sottratto alla nostra vista. In Libia, dove gli immigrati sono trattenuti in condizioni disumane, tali che dovrebbero far vergognare chi in qualche modo è colpevole della situazione, ossia noi italiani, che, con gli accordi e con la legge, siamo riusciti a contenere il fenomeno. A sentire i Cacciari e i Manconi, che non sono mai propositivi, siamo responsabili di tutti i mali di cui soffrono i migranti.

Intanto il Pd di Minniti porta in saccoccia elettorale un successo che avrà il suo peso. Se poi è vera gloria lo si vedrà. Gli immigrati continuano ad arrivare in Italia, per ora di meno rispetto alla fiumana della prima metà di luglio. Ma per ora! Mettiamo pure in conto che la campagna elettorale, già in corso per la Sicilia, finirà con le politiche del 2018. Allora vedremo che cosa accadrà. C’è chi dice che il problema migranti durerà ancora per molti anni. Il fascismo o meglio lo pseudofascismo come mezzo per risolvere i problemi si può sempre rispolverarlo come si rispolverano gli strumenti di stagione.   

martedì 15 agosto 2017

Centrodestra a Lecce, nuova lite con l'Adriana


I giornali locali impazzano sulla lite tra la Senatrice Adriana Poli Bortone e l’ex sindaco di Lecce Paolo Perrone, entrambi di centrodestra ed entrambi sindaci per un decennio ciascuno. Materia del contendere: la colpa del debito che il comune leccese avrebbe secondo il neoeletto sindaco di centrosinistra Carlo Salvemini.
Nell’era dell’usa e getta le notizie e le conoscenze, che oggetti non sono, rischiano di non essere neppure usate; sono gettate, a prescindere. Dico questo perché i giornali dimostrano di non avere né un passato né un futuro e parlano di tutto come se quel tutto fosse nato in quel giorno. Del resto, giornali si chiamano!
Gli attacchi alla più volte deputata, senatrice e ministra Adriana Poli Bortone da parte dei “suoi” non sono cosa nuova; iniziarono negli anni Settanta e forse anche prima. Nel Msi non era sopportabile che una donna, rara avis peraltro, potesse gareggiare e vincere con tanti uomini.
La Poli Bortone è in campo dagli anni Sessanta e di battaglie ne ha fatte tantissime a tutti i livelli. Ma, mentre i suoi avversari esterni l’hanno sempre rispettata e ne hanno parlato col massimo riguardo, riconoscendole intelligenza, cultura, tenacia e scaltrezza politica, i “suoi” non le hanno risparmiato contumelie, insulti e qualche volta calunnie. Di antagonisti ne ha avuti almeno uno per lustro o giù di lì, qualcuno più attendibile qualcun altro di meno, e con loro i sostenitori, più agguerriti dei loro capi. Gli anni non sono passati invano e alcuni di loro non ci sono più. Pensandoli, mi viene il groppo, perché fino a qualche anno fa la politica era passione; ci si poteva scontrare, anche picchiare, ma poi prevaleva la comune appartenenza in un mondo che ci perseguitava, ci discriminava, ci teneva in una sorta di apartheid e bisognava essere proprio fessi, diceva Leopardi nella sua Ginestra, a dare addosso all’amico mentre si è circondati e picchiati dai nemici. Non diceva proprio così, ma questo era il senso.
Fedele Pampo, Alfredo Mantovano, Raffaele Fitto, Paolo Perrone sono solo alcuni con cui l’Adriana ha combattuto, qualche volta vincendo, qualche altra volta perdendo, quasi sempre a danno della comunità politica rappresentata. Gravissima, per esempio, la perdita della Regione Puglia per la guerra fatta dai suoi stessi contro la sua candidatura alla presidenza della Regione, che sembrava scontata dopo l’investitura pubblica di Berlusconi. Meglio perdere le elezioni con Rocco Palese che vincerle con Adriana Poli Bortone! Meglio, per chi? Non certamente per quel popolo ex missino, poi aennino, poi piddiellino, fino agli ultimi scolorimentini. Stessa cosa è accaduta di recente con le Amministrative leccesi e la perdita del Comune a vantaggio dello schieramento avversario. Meglio perdere con Giliberti che vincere…mettiamo con Congedo.
Dispiace dover dire che tutti quelli che hanno incrociato le lame con l’Adriana non erano da meno, persone tutte validissime, capacissime e degnissime, compreso l’ultimo, quel Paolo Perrone, sindaco di Lecce nel decennio successivo a quello di lei e da lei politicamente allevato e accudito. Tutti hanno fatto lo stesso errore: hanno ingaggiato con lei un duello mortale, pensando di liberarsene definitivamente. Invece chi ancora è in campo è lei, mentre è cambiato lo sfidante nel cartellone, per usare un gergo pugilistico.
In politica – diceva Carl Schmitt – ognuno è amicus hostis. Ma bisogna fare una differenza: chi ti combatte dall’esterno è un avversario, a cui si riconosce anche valore; nemico è invece chi ti combatte dall’interno. Naturalmente, vale per tutti. La Poli Bortone si è difesa, ha attaccato, secondo consolidate metodiche. Non si può dire che sia stata una santa, non sarebbe durata per tanto tempo e a livelli sempre alti e importanti. Le ha date, le ha prese.   
Contro di lei sento parlare da sempre e sempre con toni cattivi, magari anche con qualche ragione. Chi non ha torti e ragioni in politica? Ricordo un congresso della Cisnal Scuola dei primi anni Settanta nel salone della Casa del Mutilato a Lecce. Si contendevano la segreteria provinciale Fedele Pampo, acerrimo nemico della Poli Bortone, e un certo avvocato Vincenzo Potì, appoggiato da lei. Finì in una rissa spaventosa e qualcuno, tra i più esagitati, ne fece le spese, come il povero Ennio Licci, che si prese un pugno in faccia con conseguente spacco dell’arcata sopraccigliare. Il congresso fu vinto da Potì ovvero dalla Poli Bortone; ma Fedele Pampo se la legò al dito con tutti, me compreso, reo non tanto di aver rappresentato la mozione Potì quanto di non aver votato lui quale segretario nel segreto dell’urna. Secondo lui il mio voto e quello di Eugenio Ozza, che eravamo stati eletti consiglieri con la mozione Potì, avrebbero ribaltato in suo favore l’esito del congresso. Né io né Eugenio stemmo all’ignobile giochetto tipico dei congressi.

Arriviamo ai nostri giorni. Il duello continua. Ora con Paolo Perrone, che cercò di liberarsene una decina di anni fa togliendole la delega di assessore e di fatto allontanandola dal Consiglio Comunale. Di chi la colpa del debito denunciato dal sindaco Salvemini? Perrone dice dell’Adriana e l’Adriana dice di Perrone. Ma non sarebbe finalmente il caso di smetterla di darsi addosso e di rispondere come si deve al comune avversario? Quale beneficio ne trae il popolo del centrodestra da simili dispetti, da simili reciproche accuse, da simili cattiverie, tanto inutili per i due contendenti quanto dannose per i loro rappresentati? Si accordino entrambi su un’unica spiegazione da dare e si preparino per vincere le prossime competizioni elettorali. Questo vuole il “loro” popolo.

domenica 13 agosto 2017

Immigrazione: visto che qualcosa si poteva fare?


Ci hanno detto per anni i nostri governanti che per frenare gli immigrati provenienti dalle coste africane non c’era niente da fare; che tra noi e loro c’era solo il mare; che per le leggi internazionali dovevamo salvarli; che dovevamo accogliere chi scappa dalle guerre e da quei paesi dove non vigono leggi di democrazia e di rispetto dei diritti umani; che un conto è avere le frontiere chiuse con soldati e strettoie per passare, come per i paesi continentali, un altro le coste aperte per chiunque vi approdi. Quante volte, provocatoriamente, ai rappresentanti della Lega e di Fratelli d’Italia esponenti del governo o dei partiti di governo non hanno chiesto: e voi cosa fareste? Quasi a volersi sentir dire “noi spareremmo” e mangiarsi poi la gustosa frittata propagandistica in funzione di consenso pubblico. Per anni hanno oscillato tra l’impossibilità di fermarli e la narrazione che sono utili alla nostra economia e alla nostra società che va sempre più in crisi demografica.
Poi gli stessi hanno chiamato al Ministero dell’Interno Marco Minniti, il deus ex machina, quello che avrebbe risolto il problema. Altro che l’inetto Alfano! Minniti sì che troverà il modo di interrompere l’invasione! Che, invasione, per loro, però non era.
Anticipare le lodi dell’incaricato per favorirlo dal punto di vista mediatico prima ancora che si mettesse in opera, è tecnica di quei partiti, ex Dc e Pci, oggi Pd, che da sempre pensano di avere uomini superiori rispetto agli altri. Minniti aveva vinto la sua battaglia prima ancora di iniziarla.
Così da un giorno all’altro è accaduto l’improbabile. E, guarda un po’, col beneplacito perfino della Chiesa; e… buona sera a papa Bergoglio che non ha mai mancato di farsi il difensore degli immigrati di tutto il mondo, novello pendant di Carlo Marx per i lavoratori di tutto il mondo.
Minniti – bisogna dargliene atto – si è mosso bene; probabilmente aveva la copertura delle alte sfere, della Presidenza della Repubblica e della Presidenza del Consiglio. Ha capito, ma non era difficile, che la soluzione del problema si trovava in Libia. Col governo libico, nonostante qualche turbativa dei francesi – sempre loro! – ha stretto un patto di collaborazione per impedire agli scafisti il traffico di immigrati. Le nostre navi militari avrebbero aiutato le autorità costiere libiche nella lotta contro gli scafisti, mentre le navi delle Ong avrebbero dovuto sottostare ad una serie di controlli della nostra Marina.
Il flusso è calato vistosamente in pochi giorni sia in rapporto al mese di luglio, sia in rapporto allo stesso periodo del 2016. Non è ancora la soluzione; ma un punto in favore della sicurezza del nostro paese indubbiamente è. L’Italia non è violabile a piacimento di chiunque.
Le Ong hanno dovuto piegarsi alla legge Minniti, ovvero a tenere sulle loro navi rappresentanti dello Stato italiano per vigilare a che tutto si verifichi secondo la legge. Chi non ha voluto piegarsi, come l’organizzazione “Medici senza Frontiere”, ha deciso di mettersi da parte, anche perché si sono accorti tutti che le motovedette libiche sparano.
Ma la soluzione Minniti ha rivelato indirettamente molte altre cose. Ha rivelato, per esempio, che era stato il nostro governo a chiedere all’Europa di farsi carico da solo degli immigrati in cambio di un atteggiamento di favore nei confronti delle nostre richieste di flessibilità sui conti pubblici. Era stata la radicale Emma Bonino a dire pubblicamente come stavano le cose. E’ chiaro allora come gli austriaci e i francesi avessero ragione a respingere gli immigrati che dall’Italia tentavano di passare in Francia e in Austria. Gli italiani non potevano fare i furbi: ottenere la flessibilità nei conti e poi disfarsi degli immigrati a danno dei partner europei.
Ha rivelato che nel governo c’era chi era determinato a lasciare che in Italia giungessero tutti quelli che si partivano dalla Libia, in nome di un suo personale credo religioso che con la politica non dovrebbe avere nulla a che fare. L’ascetico ministro Delrio si è un po’ agitato per un paio di giorni per poi rientrare nei ranghi. Gentiloni e Mattarella sono stati chiari: il piano Minniti è il piano del governo.
Ha rivelato che l’immigrazione non è il gran bene che per anni ci hanno detto i signori del governo e il papa.  Perfino il presidente dell’Inps. Tito Boeri, ha cercato di far passare l’idea che gli immigrati all’Italia sono necessari, che l’immigrazione è il toccasana per la società italiana per avere i fondi nei prossimi anni per pagare le pensioni.
Ha rivelato che effettivamente tra Ong e scafisti c’era un rapporto di affari. Poco contano in questi casi le intenzioni: salvare vite umane per le Ong, fare soldi per gli scafisti.
Purtroppo ancora non c’è stato nessuno degli indignati che difesero le Ong accusate di connivenza con gli scafisti a chiedere scusa ai magistrati di Trapani e agli italiani. Non la Boldrini, presidente della Camera, non Piero Grasso, presidente del Senato, i quali hanno sparato a zero nei giorni in cui la Procura di Trapani aveva avanzato sospetti su connivenze Ong-scafisti contro chi metteva in dubbio la bontà e l’eroicità delle Ong. Questi signori appartengono ad un’altra casta: alla casta di quelli che hanno sempre ragione e che non chiedono mai scusa a nessuno.
La vicenda dell’immigrazione non è finita e non finirà a breve, ma per lo meno sappiamo che si può fare qualcosa per contenerla. Soprattutto sappiamo che nella vita si può sempre fare qualcosa per evitare disastri. E sappiamo anche – purtroppo! – che la politica in Italia non è solo l’arte del possibile, ma anche l’arte di ingannare e di mistificare.

domenica 6 agosto 2017

Il trillo: Napolitano dixit


Napolitano dixit. In un’intervista rilasciata a Claudio Tito de “la Repubblica” (3 agosto), l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha confermato quanto sull’attacco Onu alla Libia e conseguente eliminazione del Colonnello Gheddafi si sapeva fin dal  2011, epoca dei fatti.
Cosa ha detto Napolitano, al di là del deformante titolo del giornale “Napolitano: Le bombe contro Gheddafi? Basta distorsioni ridicole: decise Berlusconi, non io”. Ha detto:
Primo, la decisione di attaccare Gheddafi la prese l’Onu con due risoluzioni.
Secondo, era impossibile per l’Italia non fare propria la scelta dell’Onu.
Terzo, Berlusconi era riluttante a partecipare all’intervento Onu contro la Libia, ma con alto senso di responsabilità si piegò per evitare una crisi istituzionale al vertice del nostro paese.
Quarto, oggi è troppo facile considerare quell’attacco un errore.

Ora, che cosa si arguisce dalle dichiarazioni di Napolitano? Si arguisce che Berlusconi era contrario e che lui Napolitano era a favore sia pure per ragioni di opportunità politica internazionale. Va da sé che poi la decisione non poteva prenderla che il governo, con l’approvazione del Parlamento e il consenso della Presidenza della Repubblica. Chiaro?

martedì 1 agosto 2017

Truculenterie d'estate


Lo scrittore-scultore friulano Mauro Corona, spesso ospite animatore di dibattiti alla televisione, ha subito nella notte tra il 29 e il 30 luglio un’aggressione da parte di alcuni giovinastri. I quali, servendosi di una sua scultura in bronzo, gli hanno mandato in frantumi la vetrata del suo studio-laboratorio. Inimmagginabili per chi non li subisce certi traumi. Per quanto ultrasessantenne Corona ha preso un’accetta e ha inseguito i tre disgraziati. “Se li avessi presi li avrei macellati” ha detto in televisione e ai giornali che lo hanno intervistato.

Sul “Corriere del Mezzogiorno” di martedì, 1° agosto, si legge un titolo che lascia a dir poco perplessi: “Regione Il contrattacco. Emiliano si fa garante «Se sgarrano gli stacco la testa e ci gioco a palla».


Si può comprendere Corona; ma Emiliano, che cazzo! 

domenica 30 luglio 2017

Il centrodestra a Lecce rischia grosso


Mauro Giliberti, candidato del centrodestra leccese sconfitto nelle ultime elezioni comunali, ha rifiutato la presidenza del consiglio comunale offertagli dal sindaco Carlo Salvemini, capo dello schieramento avverso, vincente al ballottaggio. Giorni prima – prima che si pronunciasse la Commissione che ha dato il premio di maggioranza alla lista di centrosinistra – quella presidenza era rivendicata dal centrodestra come spettantegli di diritto. Tu non puoi darci – dicevano a Salvemini – ciò che è già nostro; certi di avere la maggioranza dei voti in consiglio.
Ha fatto bene Giliberti a rifiutare? Certamente la sua decisione ricade nella posizione strategica del suo raggruppamento, da tutti per il momento condivisa. Accettare la presidenza significava accettare anche le decisioni della Commissione mentre alcuni della sua parte politica si accingevano a fare ricorso. Essere presidente di assemblea, oltre che legittimare la situazione, significava anche favorire la giunta. Il capo dell’opposizione non può esautorarsi politicamente in simile modo. Dunque Giliberti ha fatto bene a rifiutare.
Quel che incomincia ad andar male – ma “incomincia” per modo di dire, in realtà continua – è che il centrodestra non ha capito che il sistema elettorale vigente prevede due partite per l’elezione del sindaco, del consiglio comunale e della giunta. Due turni, che, per usare la metafora calcistica, sono due partite distinte, una in casa e l’altra in trasferta. Nella prima, quella in casa, il centrodestra ha vinto, subendo però un gol, quello del voto disgiunto, che vale doppio; nella seconda ha perso senza segnare in trasferta. A classificarsi per la finale, perciò, è stata la squadra di Salvemini.
Si può discutere all’infinito su questo come su altri sistemi elettorali. Soprattutto è sul voto disgiunto che si colgono gli aspetti più bizzarri e contraddittori. Come si può simultaneamente votare a favore e contro? Altro che trasformismo, qui occorre scomodare la psicanalisi. Quegli elettori di destra o di centrodestra che hanno votato per i propri candidati ma poi hanno votato per il candidato sindaco dello schieramento avversario, di fatto hanno vanificato il voto di lista; perciò oggi non possono lamentarsi più di tanto: chi è causa del proprio mal pianga se stesso.
La Commissione che ha assegnato il premio di maggioranza a Carlo Salvemini non poteva fare altrimenti; se no avrebbe creato una situazione amministrativa ingestibile. Ha privilegiato la governabilità. Non si può darle torto, anche se agli aficionados del centrodestra brucia veder svanire una vittoria che sembrava ormai a portata di mano.
A Lecce frequento molta gente e ho imparato a leggere i segnali di come vanno le cose e di come potrebbero andare. Erano in moltissimi alla vigilia del ballottaggio ad essere certi che avrebbe vinto Salvemini. Non era difficile pronosticarlo perché fra i due, Giliberti e Salvemini, chi offriva più garanzie di competenze politiche e amministrative era Salvemini.
Ma i segnali più forti e aggiungo che facevano più male al cittadino leccese e salentino di centrodestra erano quelli dati da persone che per tante ragioni erano state sempre di destra o di famiglia tradizionalmente di destra. I motivi di Bruto non sono quelli di Cassio. Ce lo ha insegnato Shakespeare. I loro endorsement in favore di Salvemini, dal carattere fegatoso e ripiccoso, non dico che sono stati determinanti ma hanno bocciato Giliberti più di quanto non abbia fatto il suo minor appeal politico-amministrativo rispetto a quello di Salvemini.
Quale è ora la strategia del centrodestra? Aspettano il responso del ricorso al Tribunale Amministrativo. Secondo me, tempo perso, perché si è di fronte ad una sentenza scontata, che va ben oltre i cavilli giuridici. Qui c’è una città come Lecce che non può essere abbandonata al caos di un sindaco che non ha la maggioranza per amministrare. Perciò andrà a finire che la situazione si consoliderà come ha già deciso la Commissione. Oltre tutto la magistratura in Italia quando si trova di fronte a questioni politiche tende sempre a favorire la sinistra.
Il centrodestra dovrà fin da ora, ma forse ha già incominciato, ad analizzare la sconfitta maturata nei due turni. Nel primo col voto disgiunto dato a Salvemini, nel secondo con la certezza di avere ormai la maggioranza in consiglio. Ma, a parte i due dati elettorali, il problema di fondo è che il centrodestra è arrivato alle elezioni leccesi impreparato o, più verosimilmente, troppo certo di vincere, a prescindere da tutto. Giliberti, a cui personalmente voglio bene perché è una bella persona, colta e garbata, professionalmente preparata, della quale i leccesi dovrebbero andar fieri, non poteva essere il candidato da contrapporre a Salvemini, per lo meno non nelle elezioni del giugno scorso. Come è nata la sua candidatura, chi di fatto l’ha voluta e perché sono tutte questioni che vanno esaminate e dibattute nelle sedi opportune.
Al momento il centrodestra deve studiare una strategia politico-amministrativa di opposizione, nella prospettiva di un recupero alla prossima scadenza elettorale. Farebbe bene, allora, non abbandonare la scelta di “collaborare” con la Giunta, nel rispetto dei ruoli, senza porsi ogni volta e per ogni iniziativa contro. Mauro Giliberti lo ha più volte detto e scritto in campagna elettorale e immediatamente dopo. Ma chi batte le carte oggi nel centrodestra non è più lui. Oggi sono altri; sono quei leader diffusi, di cui si caratterizza oggi ogni schieramento politico, a destra come a sinistra, che continuano a rifilarsi colpi proibiti anche dopo.

Se il lavoro di opposizione non sarà credibile e soprattutto se non si farà chiarezza e forza all’interno dello schieramento il centrodestra rischia di perdere ancora e per diversi anni.     

domenica 23 luglio 2017

Immigrazione: se ci fosse un Re


Che cosa accadrebbe in Italia, in presenza della gravissima emergenza degli immigrati, se, invece di Mattarella, Presidente della Repubblica, ci fosse un Re al Quirinale?
Se il Re fosse politicamente grigio e incolore non accadrebbe nulla di diverso da quello che sta accadendo in Italia in questo momento. Gentiloni, cattolico e papadipendente, continuerebbe a fare il capo del governo e a dire ai suoi colleghi di altri paesi che l’Italia non accetta né lezioni né minacce da altri. E intanto sulle nostre coste continuerebbero a riversarsi migliaia e migliaia di immigrati al giorno senza prospettive che gli stessi passassero poi in altri paesi europei. Come in fondo sta accadendo.
Se il Re fosse invece di carattere e di polso e avesse nel cuore e nella testa il bene del suo paese chiamerebbe Gentiloni e gli farebbe questo discorso. Caro Gentiloni apprezzo il tuo cattolicesimo, sono cattolico anch’io, capisco perfino il sentirti più vicino al tuo papa che al tuo re; rispetto le ragioni e i sentimenti per i quali non vuoi assumere nei confronti degli immigrati atteggiamenti di chiusura e di respinzione. Poiché credi nella carità, nella solidarietà, nella misericordia, secondo il tuo credo religioso, non vuoi andare contro le tue credenze; ma proprio per questo non sei adeguato ad affrontare l’emergenza come la realtà suggerisce e impone. Lascia perciò l’incarico; al tuo posto chiamerò, come è giusto che sia, chi per motivi e sensibilità diversi non si fa scrupoli di adottare i provvedimenti più utili al caso. Consideriamo insieme che il 70 % degli italiani è contrario a questa infinita immigrazione e che il restante 30 % è preoccupato. Consideriamo anche che l’Italia col tuo governo non riesce neppure a farsi rispettare dai suoi partner europei. Il fallimento è duplice. Il popolo se n’è accorto. Abbiamo il dovere di rispettare la volontà del popolo, che non si esprime sempre col voto; anche perché in questi cinque anni gli abbiamo impedito di farlo. Le dicevo che sono anch’io cattolico, ma ora rappresento lo Stato e sento più impellente in un momento di crisi per il mio Paese l’urgenza di intervenire per risolvere un problema che potrebbe diventare una tragedia per l’intera Nazione. Questo accadrebbe, più o meno.
Questo potrebbe accadere anche con un Presidente della Repubblica diverso da Mattarella se, pur cattolico e rispettoso della chiesa, trovasse la giusta determinazione per obbedire al suo mandato terreno di fare il bene del proprio paese.
La crisi di conduzione politica dell’Italia oggi è questa, la mancanza di uomini che sappiano anteporre il bene del Paese alle loro credenze religiose, che un papa strano e straniero impone loro sotto la minaccia implicita delle elezioni; che sappiano anteporre il bene del Paese ai loro piccoli calcoli politici, sempre più personali e miserabili.
A noi italiani è estraneo il principio che il Regno di Dio si conquista operando per il bene dello Stato. Anzi, chi in Italia agisce per il bene dello Stato ma in difformità da quello che dice il rappresentante di Dio sulla terra va incontro alla condanna e alla perdizione. Il nostro Dio dovrebbe precipitare all'inferno chi non opera per il bene dello Stato, che è sempre il bene della Nazione e del Popolo.
Bisognerebbe essere allora protestanti? Sarebbe meglio, ma non è detto. In Italia abbiamo avuto presidenti della repubblica capaci anche di interpretare il ruolo in maniera più coraggiosa e propositiva di come non faccia oggi Mattarella. Penso a Scalfaro. Penso a Napolitano. Senza, per questo, condividere le loro scelte. Parlo del metodo non dei contenuti. Ma in Italia non sono mancati neppure i capi di governo che, pur cattolici praticanti, hanno saputo all’occorrenza agire in difformità dalle indicazioni del papa. Penso a De Gasperi e al suo rifiuto di allearsi col Msi. Penso a Moro e all’apertura a sinistra contro le pressioni della chiesa. Penso all’introduzione di leggi anticattolicissime, come quelle sul divorzio e sull’aborto. Perfino oggi, con un Parlamento di sciancati transumanti, sono passati provvedimenti anticattolicissimi, come la legge sulle Unioni Civili, come il matrimonio fra persone dello stesso sesso e via elencando, autentici vulnus al modello cristiano di convivenza, di civiltà e di società.
Atteso che l’immigrazione è considerata un fenomeno negativo, perché nei confronti non di uomini (gli immigranti) ma del fenomeno (l’immigrazione) non si adottano i provvedimenti più opportuni? In realtà i comportamenti del governo sono ambigui, truffaldini e in buona sostanza irresponsabili. I nostri governanti spacciano per virtù l’incapacità di adottare misure più forti ed efficaci. Essi stanno conducendo le cose politiche, la saldezza dello Stato, il bene del Paese, la volontà del Popolo, con una filosofia di vita da paleocristiani. Dicono di voler fronteggiare l’immigrazione però di fatto la favoriscono, perché per certi aspetti – dicono – è un bene per l’Italia. Il Presidente dell’Inps Tito Boeri sostiene che coi contributi che versano gli immigrati, i lavoratori stranieri, si garantiscono le pensioni degli italiani. Gli immigrati, perciò, ci sono indispensabili; se non ci fossero dovremmo inventarceli. Dunque, per un verso l’immigrazione è un male; per un altro è un bene. In questa altalena di mezzo-pinzocheri e mezzo-bottegai si sta consumando uno dei più rovinosi attacchi all’Italia e all’italianità. Si stanno mettendo qui ed ora i presupposti per chissà quali tragedie in un prossimo futuro, quando in Italia saremo un coacervo di etnie con culture radicali diverse e opposte. Né si può dire che nessuno l’aveva previsto. Non solo la Oriana Fallaci, mai troppo lodata e mai troppo criticata; ma lo stesso Giovanni Sartori, una delle menti più lucide della scienza politica italiana, apprezzata in tutto il mondo, ha scritto testi fondamentali contro.

Ma balza all’attenzione anche dell’uomo della strada che, fra tutti i soggetti di questo disgraziato fenomeno, il più fesso, nel senso letterale e popolare del termine, appare il governo italiano. Gli altri si comportano tutti secondo la direzione a sé più confacente: dagli altri paesi europei alle Ong, dagli speculatori nostrani che stanno facendo affari d’oro agli immigrati, che arrivano da noi con le loro donne gravide o appena sgravate per rendere più favorevoli lo sbarco e l’accoglienza. E' in atto il più massiccio attacco all'Italia che si sia mai visto e per di più portato dagli stessi italiani.  

martedì 27 giugno 2017

A Lecce vince Salvemini


Quando si parte il gioco della zara – dice Dante nel VI del Purgatorio – colui che perde si riman dolente, repetendo le volte, e tristo impara”. Normale che dopo una sconfitta ognuno rifaccia il percorso per trovare gli errori compiuti e i responsabili.
Per la sconfitta di Mauro Giliberti, candidato sindaco del centrodestra nelle Amministrative leccesi dell’11-25 giugno, è accaduta puntuale la conta degli errori e l’indicazione di chi li avrebbe compiuti. Ma più che Giliberti, lo sconfitto, sono i suoi mentori a cercarli. E, come prima cosa, è stata messa sotto accusa l’improvvida scelta di un candidato che con la politica non aveva avuto fino a quel momento nulla a che fare.
Bravo conduttore di fortunate trasmissioni a “TeleRama” e poi inviato di “Porta a Porta” di Bruno Vespa per la Rai, Giliberti si è impegnato a fondo nella campagna elettorale, ha messo la faccia per un’impresa partita male, si è presentato col garbo che lo ha sempre contraddistinto e sorprendentemente con buone competenze anche politico-amministrative, sapendo individuare problemi cittadini ed emergenze sociali, proponendo soluzioni e dando prospettive. Nei confronti diretti col suo antagonista Carlo Salvemini non solo non ha sfigurato ma è riuscito perfino a metterlo alle corde quando gli ha rinfacciato l’asimmetrica e discordante alleanza con Delli Noci, candidato proveniente dal centrodestra sconfitto al primo turno. Evidentemente l’aver avuto a che fare per tanti anni con politici e amministratori ha reso Giliberti “del mondo esperto e de li vizi umani e del valore”, per tornare a Dante. 
Giliberti ha riconosciuto subito la sconfitta, ritenendola forse assai più probabile, se non scontata, di tanti altri esperti leader del suo schieramento, avendo anche per il vincitore parole politicamente opportune e interessanti. Ma i leader del centrodestra hanno fatto subito processi a uomini e a cose: Raffaele Fitto, la Poli Bortone e perfino la neve caduta in abbondanza a gennaio, quando in incontri se non segreti comunque silenziosi si puntò sulla candidatura di Giliberti.
A Mauro personalmente voglio bene. Mi ha invitato tante volte alle sue trasmissioni. Ho veramente gioito per lui quando seppi del suo successo in carriera con l’approdo a Rai Uno. Ma la sua candidatura mi parve subito come un atto di arroganza politica e di faciloneria di chi l’aveva disposta. Come dire: noi siamo il centrodestra e siamo talmente consapevoli della nostra forza che possiamo candidare un estraneo al mondo della politica, sicuri di vincere al primo turno come nelle precedenti quattro elezioni amministrative. Il messaggio era questo, almeno per come poteva essere recepito dall’elettorato.
Allora, la domanda: perché uomini politici scafati come Perrone, Fitto, Poli Bortone et similes hanno tirato fuori il coniglio dal cilindro – absit iniuria verbis – dando alla città di Lecce un messaggio offensivo? In politica chi insulta l’elettorato, sia come sia, facendogli capire di essere un povero fesso che beve tutto quello che gli propini, va incontro ad una giusta e salutare scoppola. Viene il sospetto che non di troppa sicurezza si sia trattato ma di calcolo nella scelta di Giliberti. Pur di non cedere a nessuno dei probabili eredi politici del centrodestra leccese, con buone probabilità di altri dieci anni di governo cittadino, i responsabili della scelta hanno pensato: mettiamo Giliberti, se vince tanto di guadagnato; e se perde, ha perso uno che non ha niente di politico da perdere; e intanto noi ci prepariamo per future competizioni.
In politica – mi scusino i lettori per queste mie incidentali – tutto ciò che accade a Roma accade anche nel più piccolo e sperduto paesino, perché la politica ha le sue leggi; e gli uomini tanto più istintivi sono, tanto più obbediscono a quelle leggi. Mi ricordo di un tale a Taurisano che, in occasione di candidature a sindaco, quando vedeva vacillare la sua, per stornare l’ambiente, tirava fuori una proposta che non stava né in cielo né in terra e perciò destinata a fallire; fino a quando non si arrivava, anche per stanchezza, alla sua. Guarda caso, era anche quel tizio di destra.

A Lecce la candidatura di Giliberti è passata, per arroganza o per calcolo poco importa. L’elezione, invece, si era vista problematica già al primo turno con quel voto disgiunto in favore di Salvemini che la diceva lunga. L’elettorato, che in genere si esprime più liberamente e senza calcoli al primo turno, al secondo si è accorto che tra i due contendenti chi aveva le carte in regola per fare il sindaco era Salvemini. Il mettere nel presepe amministrativo un santo qualsiasi, nel nostro caso una specie di Santo Stefano, al posto di San Giuseppe, al ballottaggio è risultato in tutta la sua incongruenza. E, infatti, Giliberti si è preso le pietre del protomartire. No, amici, il presepe va fatto coi pupazzi giusti. Nelle amministrative conclusesi non era Giliberti il “santo” giusto. Ma Mauro fa bene a non mollare e a prepararsi per futuri cimenti, perché il centrodestra di Lecce ha bisogno di lui. Salvo che non voglia mettere una pietra sopra e tornare alla sua professione. 

domenica 18 giugno 2017

A Lecce c'è chi ha già vinto, ma...


I sistemi elettorali sono determinanti a far vincere un partito, un candidato o uno schieramento; sono così determinanti che a volte fanno aggio perfino sulla volontà degli elettori. Lo dicono da sempre gli scienziati della politica o i politologi, come forse meno pretenziosamente si chiamano. Cosa significa? Che con gli stessi risultati ma con un diverso sistema elettorale invece di uno potrebbe vincere un altro. Tanto, per esemplificare. A Palermo basta raggiungere il 40 % più uno dei votanti per essere eletto sindaco. Con questo sistema elettorale a Lecce Mauro Giliberti sarebbe già sindaco. Invece, che cosa potrebbe accadere? Che sindaco potrebbe diventare Carlo Salvemini, vincendo il ballottaggio di domenica 25 giugno.
Se così andassero le cose, la legge sarebbe rispettata; ma la volontà dell’elettorato sarebbe tradita. Dura lex sed lex, io andrei oltre: mala lex sed lex. E dunque, amen!
Il responso elettorale di domenica scorsa, 11 giugno, è stato chiarissimo. Sommando i voti di Giliberti e quelli di Delli Noci, che pure di centrodestra è – ha fatto parte dell’Amministrazione Perrone – si arriverebbe ad una percentuale abbondantemente oltre.
Ma chi per una serie di motivi, magari anche giusti, invoca la discontinuità con le precedenti amministrazioni di centrodestra vorrebbe che Delli Noci appoggiasse Salvemini invece di Giliberti, come se si potesse cambiare posizione politica come si cambia una cravatta. Ma siamo in Italia, patria del diritto di strafottersene perfino del diritto.
Lecce la vedo col cannocchiale s’intende – vivo in provincia – e dunque non conosco i retroscena della politica leccese, ma la situazione la vivo con maggiore serenità; sicuramente maggiore rispetto ai tanti risentiti dell’ultima o della penultima ora. Leggo di alcuni che, tradizionalmente di destra, ora vorrebbero che vincesse il centrosinistra. Valli a capire!
Tra i due contendenti Salvemini sembrerebbe in possesso di un maggiore carisma rispetto a Giliberti, anche per ragioni di età. Se si dovesse scegliere a prescindere, avrebbe sicuramente qualche vantaggio. Non a caso il voto disgiunto – altra allegra trovata italiana, il trasformismo simultaneo! – lo ha premiato al primo turno. Quante probabilità avrebbe poi di amministrare fino al termine sarebbe da vedere. Sarebbe problematico con una maggioranza consiliare risicata o addirittura inesistente. Tutto dipenderà dall’attribuzione dei seggi, nient’affatto scontata. Evviva la certezza del voto, che va a farsi benedire!
Giliberti si fa forte dei suoi voti che vede trasformati in seggi. Ma potrebbe non essere così. Salvemini spera in Delli Noci, il quale probabilmente avrebbe voluto essere lui il candidato sindaco dello schieramento di centrodestra.
Ma veramente Delli Noci ha il potere di riversare i suoi voti su Carlo Salvemini? Personalmente avrei dei dubbi. I voti non sono noccioline che si possono travasare in un sacco piuttosto che in un altro. I voti appartengono agli elettori. Chi ha votato Delli Noci ha pensato di esprimere un voto sempre per il centrodestra ma guidato da un candidato diverso da Giliberti. Ora che il primo turno ha emesso le sue sentenze gli stessi elettori sono liberi o di restare fedeli al centrodestra e dunque alla continuità o tentati di seguire il candidato di centrosinistra per la discontinuità.

A parte tutti questi ragionamenti, del tutto teorici, ci sono forti perplessità sulla disinvoltura degli attori di questo teatro, i quali, fanno il gioco delle tre carte, che, essendo coperte, una vale l’altra. Le carte, invece, devono essere scoperte, perché non tutte valgono allo stesso modo. Potrei pure avere maggiore simpatia o stima nei confronti dell’uno o dell’altro, ma se al primo turno ho votato il centrodestra, Giliberti o Delli Noci, o il centrosinistra, Salvemini, al ballottaggio non potrei fare che la stessa cosa. Se no, per quanto coperto dal segreto del voto – m’immedesimo nel semplice elettore – avrei un po’ di mal di stomaco se cambiassi. Si obietterà, ma allora perché il ballottaggio? Perché in Italia si tende a complicare o a stravolgere tutto, e più di ogni altra cosa la volontà dei cittadini. I quali una domenica sono di destra e due domeniche dopo potrebbero essere di sinistra. E c’è chi vorrebbe che tanto accadesse; non solo, ma addirittura lo ritiene giusto.

domenica 11 giugno 2017

Il grande vecchio di oggi è Giorgio Napolitano


C’è sempre un grande vecchio nella storia d’Italia, in genere occulto. Quello di oggi non si nasconde, è Giorgio Napolitano, sopravvissuto a se stesso e pronto a difendere le sue scelte quirinalesche, a partire da quella famigerata del 2011, quando fece fuori Berlusconi per mettere in sella Mario Monti. Sono bastate la sua sortita contro l’accordo fra i quattro (Renzi, Berlusconi, Grillo e Salvini) sulla legge elettorale e la sua sparata contro le elezioni anticipate che Pd e M5S corressero ai ripari, facendo fallire l'accordo. Ed ora, si voterà nel 2018. Ancora una volta il vero obiettivo da colpire era Berlusconi. Napolitano vede rosso, come i tori, quando s’intravede il recupero del signore di Arcore. Vede crollare il suo castello fatato.
Ora i furbastri del Pd e del M5S si rinfacciano reciproci tradimenti. Gli uni e gli altri hanno tradito il popolo italiano. Sanno che non è così e che la loro è una messa in scena.
Ci è capitato in passato di parlar bene di Napolitano; continuiamo a farlo. Fra una caterva di nanerottoli presuntuosi è un gigante. Esserlo in politica è già un fatto positivo. Ma lo è per il bene del paese o per se stesso, come spesso si giudicano i politici in Italia? Lo rilevava proprio Mario Monti dalla Gruber, venerdì sera, 9 giugno. Ha detto Monti, riassumo: la stampa italiana non giudica le scelte politiche per la ricaduta benefica o malefica sul paese, ma per successo o l’insuccesso di chi le fa. E’ l’eterno equivoco machiavelliano. Eppure Machiavelli è chiaro: si può e si deve fare perfino il male, ma sempre per il bene dello Stato; chi opera per se stesso è un tiranno.
Una legge elettorale era sul punto di essere varata, finalmente. La sua mancanza è una vergogna per un paese come l’Italia, che ha una storia grandiosa. Poteva essere una cattiva legge, ma a quel punto era una legge. Mala lex sed lex. E lo sa chi capisce di politica e di diritto quanto sia preferibile una cattiva legge alla mancanza di legge.
Sono anni che giochiamo assurdamente al latinorum. Si partì col mattarellum, si continuò col tatarellum, col porcellum, con l’italicum, col consultellum, col rosatellum, col tedeschellum e penso proprio di non ricordarne qualcun altro; ma sempre alla ricerca del fottutellum.
Giochiamo noi italiani con la cosa più importante di una democrazia: la legge elettorale. Ci sono paesi in Europa che votano con una legge elettorale in vigore da centinaia di anni. Noi ne facciamo una ogni due-tre anni e non riusciamo neppure, perché nessuno pensa al bene del paese e della democrazia ma al proprio tornaconto partitico. Magari parte bene, poi, strada facendo viene ridotta ad una porcata, come disse Calderoli per la sua legge, detta poi porcellum.
La soglia di sbarramento al 5 % non può piacere a chi non raggiunge neppure il 2-3 %. Cosa conta la governabilità a fronte della rappresentatività? Cosa conta il fare a fronte del chiacchierare, del brigare, dell’inciuciare continuo?
Ma rappresentano chi questi iperrappresentativisti? Sono quattro gatti che di stare insieme con altri non vogliono. Ci sono quattro o cinque frasche di sinistra, quattro o cinque frasche di destra, che impediscono che si faccia una legge da cristiani. Quel che manca in Italia è uno che faccia veramente politica. Ce ne sono troppi che chiacchierano dalla mattina alla sera senza costrutto alcuno, anzi pronti a buttar giù tutto quello che si cerca di costruire.
Si sono infuriati contro l’accordo i nanerottoli, temevano di perdere l’osso. Vogliono le preferenze, non vogliono le liste bloccate. Vogliono la rappresentanza al doppio zero come la farina. Vogliono…vogliono…vogliono… e intanto passa il tempo e scoprono che poi dopotutto Gentiloni governa bene. Sì, ma che fa e chi lo ha votato? E’ il terzo governo uscito dal cilindro: Letta, Renzi, Gentiloni. Il potere politico in Italia è come il marchese del grillo: io so’ io – dice agli italiani – e voi nun siete un cazzo.
Le democrazie muoiono anche di democratite acuta quando diventa cronica e non consente più di governare. Oggi rischi del genere non se ne corrono, non già perché ce lo impedirebbe lo stare nell’Europa, ma perché gli italiani si sono rincoglioniti. Tutto quello che hanno saputo esprimere è Beppe Grillo, un comico che sa solo fare spettacolo a suon di volgarità, di insulti e di minacce; che non riesce ad intraprendere una via per paura di sbagliare, anzi convinto di sbagliare. La politica, infatti, non è mai quello che era il giorno prima. Grillo sa che la tomba del grillismo è diventare partito, diventare cioè come tutti gli altri. Lo sa a tal punto che smatassa oggi quel che ha filato ieri. E ci sono osservatori politici e politici medesimi che inneggiano a Grillo per essere riuscito ad assorbire la protesta populistica strappandola a pericolosi populisti e incanalandola nelle forme costituzionali. Il che significa che la giusta protesta populista è stata svuotata e resa un gioco di confusa e inutile rappresentanza.
In realtà le cose stanno diversamente: i grillini sono figli di una cultura snervata, di una malintesa politica, di un’ignoranza della storia e della cultura italiana. I grillini sono l’espressione più mortificante dell’ignoranza coltivata dalla scuola italiana, che da trent’anni a questa parte ha smesso di formare le generazioni sulla base della storia e di ogni altro sapere. A vederli i grillini appaiono in tutta la loro contraddittorietà: sono arrabbiati contro qualcuno e qualcosa ma mai sereni verso qualcuno o qualcosa. Di qui le difficoltà che incontrano, quando giungono al potere, di governare le realtà comunali e cittadine.

In una simile desertificazione culturale e politica basta che un “vecchierel canuto e bianco”, per dirla con un poeta dimenticato come il Petrarca, si agiti poco poco e l’ira funesta dei cacchielli del Pd e del M5S si ritirino in buon ordine con la coda fra le gambe.    

martedì 6 giugno 2017

Juventus: maledizione e stile


Ancora una volta la Juventus in finale della Champions League, una volta Coppa dei Campioni, ha naufragato, smentendo tutto il bello e il buono che aveva fatto per giungere all’appuntamento finale. Poiché la Juve porta con sé molti caratteri del popolo italiano e milioni sono i tifosi, in Italia soprattutto, per spiegare la sua ennesima débâcle sono stati scomodati molti ragionamenti, quasi sempre dettati o dalla frustrazione, se fatti da juventini, o dall’odio viscerale se fatti dagli antijuventini. Non è un caso che una delle spaccature antropologiche del popolo italiano è tra juventini e antijuventini, comprendendo questi ultimi la rimanente parte dell’universo tifo.
C’è chi è convinto che grava su di lei una maledizione, dato che la Juve in finale perde sempre, anche quando la squadra avversaria è modesta e di gran lunga a lei inferiore. La Juve, insomma, come Montezuma o Tutankhamon.
Più semplicemente la Juve, quando arriva a giocarsi la finale ha già vinto il Campionato e qualche volta anche la Coppa Italia, come quest’anno; arriva perciò stanca e paga. Affronta l’importantissimo appuntamento non come qualcosa da vincere sul campo imponendosi all’avversario fino allo spasimo, ma quasi come un epilogo scontato, una formalità, o col favore del calcolo delle probabilità: fusse ca fusse è la volta bbona. Ricordo ai tempi dell’Università che c’erano studenti che invece di pensare all’esame pensavano al giorno dopo, rimuovendo l’oggetto che doveva essere del massimo impegno. Così ha fatto ancora una volta la Juve, più che pensare alla partita, ha pensato al triplete, come ad un obiettivo raggiunto.
Chi ha ascoltato Allegri in conferenza stampa prima della partita ha capito che il tecnico juventino era fortemente preoccupato e cercava di esorcizzare un risultato, che sapeva perfettamente essere, quanto meno, in bilico. Sapeva anche di avere due uomini chiave del suo gioco, Dybala e Higuain, fuori forma. Nelle ultime partite di Campionato lo avevano dimostrato chiaramente. Allegri avrebbe dovuto coraggiosamente tenerli in panchina e farli entrare caso mai a partita avviata, per far loro sprigionare quella rabbia che in genere contraddistingue i calciatori bravi ma momentaneamente non in forma. Invece li ha portati in campo, con il risultato che conosciamo.
Per intenderci, le finali di quel livello i calciatori, tutti, dovrebbero affrontarle con lo spirito e l’agonismo di un Mandzukich. Non perché il croato abbia firmato un bellissimo gol, ma perché si batteva alla pari con gli avversari; come aveva fatto, in un crescendo verso la fine della stagione, in Campionato e in Coppa Italia.
Maledizione? Forse, ma si tratta di qualcosa di razionale, perché, a disamina della partita, ci si accorge degli errori pacchiani compiuti. La Juve a Cardiff ha perso perché è arrivata con dei giocatori importanti fuori forma – e questa è sfortuna – e con un tecnico che non ha avuto il coraggio di scelte diverse – e questa non è sfortuna, ma mancanza di capacità di affrontare i problemi come le circostanze vogliono. I tecnici stranieri ma perfino i nostri, quando allenano all’estero, riescono a tentare soluzioni che qui in Italia neppure si sognano di adottare. In Italia tutto è fatale, nessuno sfida il destino, che poi nessuno conosce quale sia.

Si potrà insistere con la maledizione. In fondo si è tifosi anche per il bello dell’irrazionale. E sia, allora gli juventini accettino questa loro condizione come componente ineliminabile del loro essere, del loro vincere e del loro perdere, del loro stile, come orgogliosamente chiamano un vero o presunto modo di approcciarsi al tifo che li rende unici. La Coppa dei Campioni ieri, la Champions League oggi, è diventata un traguardo troppo atteso, troppe volte sfuggito, perché possa arrivare facile facile, come è capitato anche a squadre italiane. La maledizione del risultato si è intrecciata a volte con gli eventi tragici che hanno accompagnato l’evento. Ricordiamo la finale di Bruxelles e la tragedia sfiorata di Piazza San Carlo quest’anno. Il tifo per la Juve è fatale. Facciamocene una ragione.         

domenica 14 maggio 2017

Populismo, variazioni sul tema


C’è un populismo buono. Premesso che la parola, come tutte quelle che finiscono in ismo, evoca  pensieri, azioni e comportamenti mirati al bene del popolo, che è la referenza lessicale di base, il populismo buono è quello che tende ad educare il popolo, non già per renderlo migliore ma per guidarlo negli eventi e nelle situazioni della vita allo scopo di trarre il massimo e il miglior profitto. Il popolo, in quanto tale, non può diventare né migliore né peggiore di quello che è. Neppure se fosse formato in somma di geni, per il fatto di essere indistinto e perciò privo di dialettica, non è in grado di provvedere da sé al suo bene. Un popolo di geni equivarrebbe ad un soggetto idiota. Il popolo va perciò sempre convenientemente informato e guidato, volta per volta, per perseguire i propri interessi, che non sono mai di parte ma generali, comprendendo lo Stato e tutte le sue articolazioni. Il popolo, per intenderci, non è la massa; questa è una sua componente, la parte più numerosa e più passiva.
In genere il popolo-massa – così lo chiamiamo per comodità di ragionamento – si lascia guidare ed è contento di farlo; ma si verificano nella storia situazioni in cui gli esiti della guida sono negativi, inadeguati ai bisogni, progressivamente disastrosi. Allora il popolo-massa prende l’iniziativa, da guidato diventa guida e impone ai suoi rappresentanti di pensare, parlare e fare come lui pensa, parla e fa. E’ a questo punto che i suoi rappresentanti diventano populisti.
In condizioni normali chi provvede alla guida del popolo e alla sua educazione, che sempre guida significa, e-ducere =  condurre dall’errore sulla retta via, sono gli intellettuali, i politici, i dirigenti di partiti e di aziende; in una parola: la classe dirigente. La guida può essere costituita da soggetti che hanno punti di vista e interessi diversi – la qual cosa è un bene – ma, proprio perché si tratta di soggetti avveduti e motivati, sono ben lontani dal pensare e dall’agire del popolo-massa, che è istintivo e brutale. Essi, nella dialettica, trovano sempre la via migliore per risolvere i problemi.
Deve essere chiaro perciò che il popolo è l’insieme di tutti gli individui insistenti su un territorio, dai confini ben precisi e regolato da leggi, che ha nella sua classe dirigente la sua guida. Come il cervello fa parte del corpo e ne è la guida; così la classe dirigente o altrimenti detta politica o élite è il cervello del popolo, ovvero la guida del popolo.
Di questi tempi, purtroppo, ci troviamo ad intendere il populismo nella sua accezione negativa: non la classe dirigente alla testa del popolo-massa, ma questo che influenza e condiziona la classe dirigente. Che è il rovesciamento dei ruoli, quello che una volta, secondo il sociologo russo Mikhail Bachtin, avveniva nel breve tempo del carnevale. In questo periodo si raffigurava l’asino sul trono del re o sul soglio pontificio del papa, in un ribaltamento dei ruoli e dei valori. Ma chi lo faceva aveva almeno la consapevolezza dei suoi comportamenti, ben limitati in un breve lasso di tempo: semel in anno licet insanire. E le classi dirigenti lasciavano fare nel suddetto periodo perché quanto veniva fatto era funzionale al loro ruolo istituzionale; solo una piccola e breve licenza, per divertirsi dopo tanto lavoro.
I vari populismi che agitano oggi i paesi europei di antica e antichissima civiltà hanno trovato soggetti che li interpretano nella maniera rovesciata. Per fare degli esempi. Che se ne deve fare l’Italia di un leader che la pensa come un ubriaco di osteria? Che se ne deve fare la Francia di un leader che la pensa come un frequentatore di bistrot? Che se ne deve fare la Germania di un leader che la pensa come un bavarese frequentatore di Bierhalle? Si potrebbe continuare con tanti altri leader europei, che, per aver sposato gli umori del popolo più basso, vengono considerati populisti. Questi leader negano di fatto il loro ruolo, lasciandosi trascinare dal popolo-massa piuttosto che essere loro a guidarlo.
Essi tuttavia si difendono e contrattaccano. Nei loro slogan – uno dei più abusati è “sono uno di voi” – si compiacciono di essere come uno dei tanti del popolo-massa, sia pure dotati di quelle capacità utili a farsi rappresentante senza tradire la parte di cui si sentono leader e trovano nel cosiddetto establishment il nemico del popolo da sconfiggere. Essi tendono ad esprimersi come la componente più bassa e perfino triviale del popolo-massa.
L’esempio più eclatante è costituito dal comico Beppe Grillo e dai suoi urlati e reiterati vaffanculo, diventati veri e propri riti politici: i vaffaday, sorta di assemblee senza dibattito, orge in cui il capo si esibisce in esilaranti gag, attraverso i quali veicola i suoi messaggi populistici, contenenti ingiurie e minacce contro uomini, cose e istituzioni del cosiddetto establishment.

Gli attacchi all’Euro sono subliminali. I populisti non ce l’hanno con l’Euro in quanto moneta comune, che andrebbe per tanto apprezzata, ma perché costituisce l’icona di un nemico da abbattere, la prova della frode e degli inganni. L’Euro dà corpo ad un nemico invisibile, lo rende vulnerabile. E’ il populismo di chi non vede oltre l’immediato, oltre il problema del momento, e si esprime con continue doléances prive di contestualizzazione e di prospettiva.

domenica 7 maggio 2017

La marcia trionfale del M5S


Ebbene sì, mi vado convincendo che il Movimento 5 Stelle vincerà le prossime elezioni politiche e andrà al potere. E’ fatale. A convincermi però non è il fatalismo ma il vento che soffia in suo favore; un vento che si sprigiona da alcuni semplici ragionamenti e da una constatazione: l’impazzimento irrimediabile del mondo. Non si creda che l’Italia costituisca un caso, ormai l’Italia è una declinazione nazionale di un fenomeno generale.
In Francia: un signor nessuno, tale Emmanuel Macron, sposato con la sua ex docente di lettere, di lui più anziana di 24 anni, si avvia a diventare dall'oggi al domani presidente della repubblica francese passando dal fantastico mondo dei media, che lo hanno reso personaggio dal nulla. Ora capisco anche la trasfigurazione, quella di Nostro Signore Gesù Cristo, un evento che credevo una trovata evangelica, basata sul nulla. No no, è proprio vero. Semplicemente prima non l’avevo capito. Macron da un grigio e sconosciuto burocrate dell’alta finanza è diventato un personaggio osannato dalle folle e poi eletto presidente. E’ un trasfigurato.
I grillini sono nati anch’essi dal nulla, anzi dal peggio del nulla. Sono figli di un comico rancoroso che si è fatto strada a suon di vaffanculo, urlati in piazza e portati in casa della gente dalla televisione, la fama della mitologia. Sarà pure una metafora il culo, ma sempre culo è. Con rispetto parlando. C’è da inorridire, ma è il mondo di oggi, che non vive nelle cose bensì nella loro finzione. Questi cachielli – i grillini, dico – figli molto spesso di genitori fascisti, ancora oggi fascisti, evitano la cultura storiografica come Nembo Kid la criptonite. Non senza calcoli. Se avessero conoscenze, non dico importanti ma almeno elementari, non si azzarderebbero a dire certe minchiate. Per loro non sapere è potere, è coraggio di osare. E anche qui si nota l’impazzimento. Una volta si diceva che sapere è potere. Questi si buttano su tutto con grande slancio. Se la politica fosse un mare annegherebbero, perché si è visto che non sanno nuotare. Ma non sanno neppure volare: sono maldestri Icari che al calore del sole precipitano liquefatti. Ma non se ne rendono conto. E neppure gli altri si rendono conto di quanto li favoriscano.
A favorirli, infatti, non è soltanto l’immagine del nuovo, che a quanto pare è vincente ad ogni latitudine – lo dimostrano i casi di Trump in America e di Macron in Francia – ma soprattutto il nulla che li circonda, costituito dal mondo tradizionale della politica, quello che va da Renzi a Pisapia, attraversando Berlusconi, Salvini e Meloni. Lasciamo stare questi ultimi, della cosiddetta destra, i quali non riusciranno mai a mettersi insieme per costituire qualcosa di attendibile. Prendiamo l’unico partito, il Pd, che teoricamente potrebbe contendere il successo elettorale al Movimento di Grillo. Prendiamolo! Hanno fatto recentemente le primarie. Un fiasco colossale, non solo e non tanto per la scarsa affluenza – dicono un milione e ottocentomila votanti – nonostante i tentativi di gonfiarla con espedienti tra i più vari, fino a quelli di mettere schede neppure votate nelle urne (circa 15.500), ma per lo spettacolo indecoroso offerto. Come si può pretendere di ostacolare la marcia trionfale di Bacco e di Arianna, leggi M5S, con prove di così piccolo e miserabile cabotaggio, con espedienti di piccole furbizie, di incallite prepotenze e di tanta tanta coglionaggine? A Nardò hanno chiuso il seggio elettorale perché dei cittadini erano andati in massa a votare per Emiliano. Con quale motivazione i responsabili locali del Pd, evidentemente renziani, hanno impedito ai cittadini di Nardò di accogliere l’invito del loro stesso partito di votare? Nel Pd ormai non si capisce chi ne fa parte e chi no. A Lecce hanno nascosto le chiavi dell’ufficio del segretario provinciale, perché, a quanto pare, non sarebbe renziano. Già, perché ormai è accertato: nel Pd o si è renziani o si è fuori.  
L’ennesimo scandalo, quello della Consip, è svanito; non se ne parla più. Come se i suoi tanti protagonisti non fossero mai esistiti, non fossero mai stati coinvolti. Neppure processati. Tutti assolti, anzi, meglio che assolti; i personaggi, come certi reati, non sussistono. Eppure, erano coinvolti il padre di Renzi, un ministro del governo Gentiloni, alti e medioalti ufficiali dei carabinieri. Sim sala bim: spariti, come d’incanto.

Ormai è chiaro a tutti che l’immigrazione è un affare diffuso tra scafisti e ong, e non solo, ma gridano allo scandalo piccoli e grandi personaggi dell’establishment, compresi i presidenti delle camere, per la denuncia fatta da Frontex, da alcune procure e dal grillino Di Maio. Non ci meraviglieremmo affatto se fra qualche tempo si legalizzasse anche l’illegale se questo “salva vite umane”. Salvare vite umane in circostanze impreviste è un conto, andare di proposito, con tanto di pianificazione, con mezzi e scali stabiliti, è un altro. Qui ci sono navi militari e navi delle ong che iniziano la giornata e la chiudono andando a “salvare vite umane”, stabilendo contatti con gli scafisti e incrementando un fenomeno che incomincia davvero a presentare reati gravi nei confronti dello Stato nazionale e di tradimento del proprio Paese. Almeno per quel che ci riguarda. Anche questo è vento che gonfia le vele dei grillini. Mentre gli altri paesi europei chiudono le frontiere e non fanno passare nessuno, noi li andiamo a prendere da casa e li portiamo in Italia e lasciamo che altri, sotto copertura ong, lo facciano. Mentre i nostri governanti si masturbano con le parole del Presidente della Commissione Europea Juncker. Il quale, da quel furbo e scafato politico che è, ci elogia e ci dice che l’Europa ci è grata perché con le “vite salvate” agli emigranti le abbiamo salvato l’onore. Capita l’antifona? Dopo l’amaro danno, la dolce beffa!     

giovedì 4 maggio 2017

Se il plagio non è più una vergogna


Questa volta il caso di plagio Le Pen-Fillon è clamoroso. Marine Le Pen, candidata alla presidenza della Repubblica Francese, ha copiato di sana pianta parti di un discorso che un paio di settimane prima aveva pronunciato il leader dei repubblicani Fillon, anche lui in corsa per la presidenza francese. I media si sono scatenati, proponendo la Le Pen e Fillon in contemporanea, una accanto all’altro, quasi fosse una gara di sci in parallelo, come i più anziani ricordano tra il nostro Thöni e lo svedese Stenmark.
Dallo staff della Le Pen si è ammesso il plagio, ma si è aggiunto “è stato voluto”, per dimostrare che il programma della Le Pen è lo stesso di Fillon e che dunque gli ex elettori di quest’ultimo avrebbero potuto fidarsi di lei e votarla “ad occhi chiusi” e magari anche “ad orecchi tappati”.
Sembrerebbe infantile come spiegazione, ma in un mondo come l’attuale, veramente una “gabbia di matti”, in cui la post-verità è più vera della verità, vale tutto e il suo contrario.
Fuori da infantilismi e mattane, il plagio è ancora da condannare? Forse a farlo oggi è solamente la scuola. Quando uno studente copia un compito in classe, in tutto o in parte, rimedia un “due” senza pietà e misericordia. Il professore non punisce solo l’incapacità dello studente di elaborare un tema con le sue sole capacità, come è normale che sia, ma anche la furbata. Nel voto stroncatorio scarica la sua rabbia perché costretto a perdere del tempo per trovare la fonte alla quale lo studente ha attinto. Glielo impongono in primis lo studente stesso, e poi il preside della scuola e la famiglia del ragazzo. Non più venti minuti per la correzione dell’elaborato ma a volte anche un’ora e più, per via del mare magnum di pubblicazioni che spesso circolano sull’argomento su libri, giornali e web.
Più sottilmente si sostiene che copiare parte di un testo non è plagio senz’altro, dato che lo si può utilizzare inserendolo in un contesto per fargli svolgere una funzione argomentativa diversa da quella originale. Sottigliezze in qualche modo fondate, a cui però non bisognerebbe mai ricorrere. In casi del genere, infatti, sarebbe d’obbligo indicare tra parentesi la fonte. Non facendolo, si compie un atto comunque disonesto.
Se a compierlo poi è un politico è estremamente grave. Già i politici sono, secondo la vulgata populistica, bugiardi e ladri; se poi si fanno scoprire in un modo così plateale, allora si danno la patente di fessi; che, in un paese come il nostro, è qualifica assai più infamante.
Utilizzare un argomento, già utilizzato da altri, ci sta, basta saperlo rielaborare dandogli una veste formale e stilistica propria. Non è originale ma neppure plagio.
Quando si verificano casi come questo, è di tutta evidenza che l’autore del plagio, che è quasi sempre un collaboratore del politico, è stato incauto, escludendo che lo abbia fatto apposta o per la ragione anzidetta o per dolo. Nel caso specifico, si ha l’impressione che chi ha preparato il discorso della Le Pen non ha copiato da chi aveva preparato il discorso di Fillon; più verosimilmente sia l’uno che l’altro, ovvero sia Le Pen che Fillon, potrebbero avere attinto alla stessa fonte; una fonte terza.
Comunque siano andate le cose, è certo che ormai a farla da padrona, perfino ai livelli alti della politica, è la sciatteria, che la facilità e la comodità di trovare testi bell’e pronti sul web, alimentano. E’ vero altresì che con altrettanta facilità si viene scoperti, perché basta digitare poche parole del testo galeotto, in sequenza compositiva, ed ecco l’indicazione della fonte.

Quel che fa impressione – ma si fa per dire – è che oggi neppure l’essere pubblicamente sbugiardati produce niente di particolare; e meno che niente produce nei politici. Essi, infatti, diventano sempre più sfacciati – non parlo solo dei nostri – ed anzi passare per dei “copioni” li riporta al loro essere ragazzi con tutta la simpatia che certi studenti discoli fanno.