Ancora una volta la Juventus in
finale della Champions League, una volta Coppa dei Campioni, ha naufragato,
smentendo tutto il bello e il buono che aveva fatto per giungere
all’appuntamento finale. Poiché la Juve porta con sé molti caratteri del popolo
italiano e milioni sono i tifosi, in Italia soprattutto, per spiegare la sua
ennesima débâcle sono stati scomodati molti ragionamenti, quasi sempre dettati
o dalla frustrazione, se fatti da juventini, o dall’odio viscerale se fatti
dagli antijuventini. Non è un caso che una delle spaccature antropologiche del
popolo italiano è tra juventini e antijuventini, comprendendo questi ultimi la
rimanente parte dell’universo tifo.
C’è chi è convinto che grava su
di lei una maledizione, dato che la Juve in finale perde sempre, anche quando
la squadra avversaria è modesta e di gran lunga a lei inferiore. La Juve, insomma, come Montezuma o Tutankhamon.
Più semplicemente la Juve, quando
arriva a giocarsi la finale ha già vinto il Campionato e qualche volta anche la Coppa Italia , come
quest’anno; arriva perciò stanca e paga. Affronta l’importantissimo
appuntamento non come qualcosa da vincere sul campo imponendosi all’avversario
fino allo spasimo, ma quasi come un epilogo scontato, una formalità, o col favore
del calcolo delle probabilità: fusse ca
fusse è la volta bbona. Ricordo ai tempi dell’Università che c’erano
studenti che invece di pensare all’esame pensavano al giorno dopo, rimuovendo
l’oggetto che doveva essere del massimo impegno. Così ha fatto ancora una volta
la Juve, più che pensare alla partita, ha pensato al triplete, come ad un
obiettivo raggiunto.
Chi ha ascoltato Allegri in
conferenza stampa prima della partita ha capito che il tecnico juventino era
fortemente preoccupato e cercava di esorcizzare un risultato, che sapeva
perfettamente essere, quanto meno, in bilico. Sapeva anche di avere due uomini
chiave del suo gioco, Dybala e Higuain, fuori forma. Nelle ultime partite di
Campionato lo avevano dimostrato chiaramente. Allegri avrebbe dovuto
coraggiosamente tenerli in panchina e farli entrare caso mai a partita avviata,
per far loro sprigionare quella rabbia che in genere contraddistingue i
calciatori bravi ma momentaneamente non in forma. Invece li ha portati in
campo, con il risultato che conosciamo.
Per intenderci, le finali di quel
livello i calciatori, tutti, dovrebbero affrontarle con lo spirito e l’agonismo
di un Mandzukich. Non perché il croato abbia firmato un bellissimo gol, ma
perché si batteva alla pari con gli avversari; come aveva fatto, in un
crescendo verso la fine della stagione, in Campionato e in Coppa Italia.
Maledizione? Forse, ma si tratta
di qualcosa di razionale, perché, a disamina della partita, ci si accorge degli
errori pacchiani compiuti. La Juve a Cardiff ha perso perché è arrivata con dei
giocatori importanti fuori forma – e questa è sfortuna – e con un tecnico che
non ha avuto il coraggio di scelte diverse – e questa non è sfortuna, ma
mancanza di capacità di affrontare i problemi come le circostanze vogliono. I tecnici
stranieri ma perfino i nostri, quando allenano all’estero, riescono a tentare
soluzioni che qui in Italia neppure si sognano di adottare. In Italia tutto è
fatale, nessuno sfida il destino, che poi nessuno conosce quale sia.
Si potrà insistere con la maledizione. In
fondo si è tifosi anche per il bello dell’irrazionale. E sia, allora gli
juventini accettino questa loro condizione come componente ineliminabile del
loro essere, del loro vincere e del loro perdere, del loro stile, come
orgogliosamente chiamano un vero o presunto modo di approcciarsi al tifo che li rende unici. La
Coppa dei Campioni ieri, la
Champions League oggi, è diventata un traguardo troppo
atteso, troppe volte sfuggito, perché possa arrivare facile facile, come è
capitato anche a squadre italiane. La maledizione del risultato si è
intrecciata a volte con gli eventi tragici che hanno accompagnato l’evento.
Ricordiamo la finale di Bruxelles e la tragedia sfiorata di Piazza San Carlo
quest’anno. Il tifo per la Juve è fatale. Facciamocene una ragione.
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