sabato 29 aprile 2023

Il fascismo degli antifascisti e l'antifascismo dei fascisti

In un paese serio, ma forse sarebbe meglio dire utopico, non si parlerebbe più di fascismo e di antifascismo, diventati ormai da anni argomenti pretestuosi, da una parte per escludere, dall’altra per inserirsi. Fin dall’immediato dopoguerra apparve chiaro che l’antifascismo dominante non era solo quello di non avviare mai più provvedimenti che in qualche modo o misura aprissero al fascismo, ma anche quello di non concedere a quanti non si dichiaravano antifascisti la possibilità di accedere pienamente alla vita pubblica. Le due cose andavano di pari passo. La Costituzione è chiara, tutta improntata al liberalismo e alla democrazia, con un riferimento finale alle disposizioni transitorie contro qualsiasi tentativo di rifondare il già disciolto partito fascista. L’antifascismo come parola non figura nella Costituzione è vero, come dice il Presidente del Senato Ignazio La Russa, ma solo perché non c’era alcun bisogno di esplicitarlo. Chi finiva per restare fuori dalla legittimazione democratica e antifascista? Quanti avevano fatto parte dell’ultimo fascismo, quello della repubblica sociale, che fin dal 1946 si erano organizzati in partito, il Msi, e quelli che esprimevano giudizi positivi sul Ventennio. La condanna del fascismo doveva essere totale assoluta: il fascismo era stato male, punto e basta. Quelli che non stavano in questa regola erano dei paria, liberi è vero di esistere fisicamente ma impediti di fatto dal poter vivere pienamente la vita politica; erano come dei sopravvissuti in territorio nemico. Contro di essi una parte del variegato mondo antifascista, quella comunista in particolare, invocava addirittura lo scioglimento del loro partito e l’incarcerazione dei suoi iscritti. Nella vita quotidiana si traduceva in una sistematica esclusione da tutto. Per riprendere un abusato luogo comune del Ventennio, chi non aveva la tessera del partito fascista non aveva diritto neppure ad un posto di lavoro, ora chi non si professava antifascista non era degno neppure di partecipare ad una festa di partito in un piccolo comune della provincia italiana. Certe esperienze devi averle subite per capirle, altrimenti sembrano fandonie. Ma gli esclusi, i così considerati fascisti, erano perfino orgogliosi dell’esclusione e di rinunciare a dirsi “fascisti” non ci pensavano affatto, anzi non esitavano a bollare come traditore e voltagabbana chi, avendo capito bene l’antifona, si era piegato come un giunco sotto la piena e non aveva avuto problemi a dichiararsi antifascista. A ben riflettere la pretesa dell’abiura e della confessione dell’altro, seguita da ricatto, in democrazia o in dittatura, è fascismo, è quanto accade nei regimi dittatoriali dove si arriva all’assurdo di pretendere che un individuo si autoaccusi di crimini mai fatti. Dunque tra fascisti e antifascisti i più fascisti erano proprio gli antifascisti, non fosse altro perché essi detenevano il potere coercitorio e potevano usarlo. Da parte loro i fascisti, non i duri e puri ma gli accomodanti, consideravano l’antifascismo una specie di lasciapassare. Che cosa può essere mai? Enrico IV non esitò a dire che Parigi valeva bene una messa, salvo che poi fu ammazzato, ma questo non rientra nel nostro discorso. Successi e prebende, cariche pubbliche e favori valevano bene una professione di antifascismo. Ci furono casi ad ogni livello di soggetti che dal nulla che erano mentre si dicevano fascisti e stavano nel Msi divennero ministri e sottosegretari, presidenti e direttori dopo che si erano detti antifascisti e iscritti ad uno dei partiti di potere. Del resto i partiti del cosiddetto arco costituzionale avevano tutto l’interesse ad avere uomini loro ai posti di direzione e favorivano nei concorsi o nelle assunzioni dirette quei candidati che spiccavano soprattutto per antifascismo. Al centro non c’era la bella faccia di Tizio o di Caio ma la raccolta dei voti. In democrazia i voti hanno l’importanza che hanno i soldi nell’economia. L’ultima ondata di richiesta di abiura degli antifascisti ai fascisti, in ricorrenza del 25 aprile, pone al centro i voti. Nessuno lo dice, ma tutti lo sanno. Gli antifascisti vogliono che i fascisti abiurino per un duplice intento: far perdere loro quei pochi o tanti voti degli estremisti, i quali sdegnati priverebbero FdI di qualche centinaio di migliaia di voti, che in talune circostanze servirebbero a vincere, e mettere in crisi la loro identità, che in questo momento di incertezze e confusioni è un valore di notevole importanza. A questo safari sono interessati anche la Lega e Forza Italia, nella speranza che chi lasciasse FdI andasse poi in quei partiti, rimanendo nel centrodestra. Ecco perché in questi due partiti si sono precipati a far confessione di antifascismo. Potendola fare, peraltro, non essendo loro provenienti dal Msi.

venerdì 28 aprile 2023

La scomparsa di Raffaele Colapietra

È morto ieri mattina, 27 aprile, Raffaele Colapietra, storico e politologo. Aveva 91 anni. Era nato a L’Aquila il 24 novembre 1931. Studioso rigoroso di non facili approcci critici e umani. Aveva insegnato Storia moderna all’Università di Salerno, che lasciò anticipatamente per mettersi in pensione a causa della sua incompatibilità con l’ambiente. Nei suoi studi si era occupato di Masaniello, delle classi dirigenti meridionali in età moderna e contemporanea, dei partiti politici tra l’Otto e il Novecento, di Benedetto Croce, di cui scrisse una biografia politica in due volumi, forse l’opera sua più importante. Era un carattere difficile, prigioniero di un mito che egli stesso si era inventato, quello dell’aquilano duro e intransigente. Rompeva con tutti, prima o poi; solo con chi, ma molto pochi, per lui provava anche simpatia e gli perdonava le scontrosità e a volte le sgrammaticature sociali, delle quali dimostrava di non curarsi. Aveva trascorsi socialisti, coi quali ruppe quando si accorse che andavano in direzione diversa da quella da lui indicata, una sorta di liberazione, naufragata ancor prima dei gorghi craxiani di tangentopoli. A Lecce veniva volentieri invitato da Mario Spedicato a partecipare alle iniziative della sezione di Storia Patria, che nel 2011 gli dedicò un volume de “L’Idomeneo”, la rivista della Società, in occasione dei suoi ottant’anni. Fu collaboratore di “Presenza” dal 1991 al 2014, con note critiche e recensioni per lo più, con cinquanta testi. Quando seppe delle mie idee politiche – qualcuno maliziosamente gliele aveva riferite – si precipitò a scrivermi che la sua collaborazione era da intendersi esclusivamente culturale. Lo rassicurai; anche per me, gli dissi. Mi definiva un reazionario ci-devant, come i rivoluzionari francesi chiamavano gli aristocratici. La qualcosa non mi dispiaceva. Aveva ascendenze pugliesi. Suo padre era un medico della provincia foggiana, ma lui era fiero di essere aquilano, anche se non voleva essere confuso con altri aquilani, tipo Bruno Vespa o Gianni Letta, da lui indesiderati, e nel 2006 intitolò un suo libro “C’è modo e modo di essere aquilani”. Con noi leccesi aveva un sentimento contrastante di odio-amore, non sopportava la nostra boria di considerare Lecce capitale dell’arte e culturalmente un’altra Napoli. Gli piaceva essere un solitario e forse per questo amava i gatti, in casa ne aveva cinque. Quando nell’aprile 2009 a L’Aquila ci fu il terremoto, la città fu evacuata per ordine delle autorità, ma lui si rifiutò di lasciare la sua abitazione per quanto lesionata. Divenne un caso portato alla ribalta nazionale dal documentario televisivo sul terremoto da Sabina Guzzanti “Draquila”. Toccò anche a me di rompere o forse di subire la rottura con lui. L’avevo conosciuto a Taurisano nel giugno del 1991 ad una conferenza che egli tenne “La Napoli del giovane Vanini”, che pubblicai su “Presenza” nel dicembre di quell’anno. La rottura accadde per i due militari italiani del San Marco che avevano ucciso dei pescatori indiani scambiandoli per pirati. Quando furono finalmente liberati, me ne rallegrai con una noticina su “Presenza”. La sua reazione, more solito, fu smodata. Mi scrisse una cartolina infuriato definendo i nostri militari “volgari assassini”, chiedendomi di pubblicarla. Mi rifiutai, anche per ragioni penali, evidentemente; e così fu la fine del nostro rapporto. Ma lo ricordo con simpatia e soprattutto con ammirazione. Aveva una grafia minutissima. Scriveva come parlava, con periodi molto lunghi, pieni di incidentali e subordinate, ma perfetti nella chiusura formale e logica. Nelle sue recensioni di solito coglieva un aspetto dell’opera recensita, quello che si prestava maggiormente alla contestazione e alla polemica e su quello argomentava e concludeva. Spesso, nei convegni e nelle conferenze, si rifiutava di consegnare il testo scritto dei suoi interventi e così molti di questi, non registrati, sono andati perduti. Avete fatto male a non registrarli, diceva, seccato; e qui forse non aveva del tutto torto. Anch’io, in occasione degli ottant’anni, gli dedicai un libro, “Raffaele Colapietra. Gli ottant’anni di un aquilano indomito”, una raccolta di scritti apparsi su “Presenza”, con una lunga prefazione. Immagino che rimase soddisfatto, ma non bastò, al momento opportuno, neppure a farmi uno sconticino per i due marinai.

sabato 22 aprile 2023

L'Italia e la sostituzione etnica

C’è gente in Italia a cui la crisi demografica non interessa niente, l’invasione progressiva di negri e di musulmani meno di niente. Che di qui a poche decine di anni ci possa essere una popolazione negro-musulmana che contende il primato quantitativo agli italiani, bianchi e cristiani, è cosa che non la riguarda. E in democrazia la quantità conta più della qualità! Rischiamo di diventare noi sopportati in casa nostra. Per simile gente, non conviene neppure scomodare parole particolari, sono dei mangiaccaca, senza bisogno di traduzione. Ci sono poi a sinistra quelli che s’indignano per ogni nonnulla, i cacasenno. Non c’è ministro o sottosegretario di questo governo di cui essi non hanno chiesto le dimissioni, per qualche parola, secondo loro, politicamente scorretta. Subito è scattato il terrorismo politico nei loro confronti, la mannaia delle accuse: razzista! fascista! nazista! inadeguato! rozzo! impresentabile!, con la richiesta di correggersi o di dimettersi. Neppure ai tempi della controriforma, quando un Galileo Galilei era costretto a dire di vedere cose che non c’erano né in cielo né in terra. A proposito del calo delle nascite in Italia e dell’aumento dei migranti, il ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida, immaginandosi uno scenario, che non è molto difficile prevedere fra un po’ di anni, ha detto che l’Italia rischia la “sostituzione etnica”, ossia la sostituzione degli italiani che non ci sono coi negro-musulmani che ci sono invece in abbondanza grazie all’immigrazione. La risposta ad un simile scenario secondo il ministro sta nell’incrementare le nascite di bambini italiani con una politica demografica ad hoc. Tutto qui. Parole semplici e chiare, direi sacrosante, che hanno sconvolto le opposizioni, perché l’espressione “sostituzione etnica” richiama il complotto del cosiddetto piano Kalergi. Che è una colossale minchiata, dato che a destra si è contrari all’immigrazione e sostenitori del restare ognuno a casa propria. Insomma un piano sì, quello delle sinistre, ma di distrazione di massa, per non far riflettere sulla vera questione. In Italia c’è la democrazia, che consente a chiunque di esprimere il suo pensiero e di avere una sua visione delle cose. Il politico e ancor più un ministro ha il compito di pensare oggi quel che può accadere domani in ragione del suo operato, deve avere la capacità di intercettare i problemi del futuro. Se no, che politico è? C’è una parte politica che se ne frega di quel che sarà domani la popolazione italiana e dei problemi che potrebbero esplodere a causa dei cambiamenti determinati dal calo delle nascite e dall’aumento dei migranti. Una visione vogliamo chiamarla legittima? Siamo in democrazia. Non mi piace ma consento che tu ce l’abbia, la esprima e ti batta per farla prevalere. Chiedo: perché dall’altra parte non si rispetta chi ha una visione diversa delle cose e cerca, stando al potere perché mandato dagli italiani, di provvedere ad evitare di trovarci impelagati nei mille problemi che le società multietniche producono? Chi ha una posizione non democratica in questo dibattito sono quelli di sinistra. Sono essi che nella loro presunzione di essere in un giusto “divino” vorrebbero impedire a quelli di destra di avere una posizione diversa. Purtroppo sono assecondati nella loro presunzione proprio dalla destra. A destra, invece, dovrebbero smetterla di avere nei confronti della sinistra una sorta di complesso di inferiorità, come a voler dare per scontato che quello che si pensa e si dice a sinistra sia per ciò stesso superiore a quello che si pensa e si dice a destra. Le battaglie politiche si perdono e si vincono dopo aver perso o vinto la guerra delle parole. Lo ammoniva Giorgio Almirante ai suoi dì. Forse ogni tanto a destra farebbero bene a ricordare i loro uomini e le loro idee invece di tenerle nascoste per paura, la solita paura, di passare per fascisti. È indegno in questo paese che non si possa avere un pensiero diverso da quello della vulgata di sinistra. Roba da inquisizione! A destra non interessano la superiorità o l’inferiorità delle tesi e delle parole. Sono punti di vista che possono interessare studiosi e professori, che ci sono tanto a destra quanto a sinistra. Quel che interessa è avere le idee chiare su quello che si vuole che questo paese sia, che questo paese diventi. Non bisogna avere un’intelligenza superiore per capire che se gli italiani diminuiscono e i migranti aumentano, ad un certo punto il rapporto fra le due componenti si ribalta. È questo che vogliono a sinistra. Ma se è così, lo dicano e per questo chiedano il voto agli italiani, senza nascondimenti o taroccamenti del pensiero. Per ora gli italiani hanno detto no e hanno dato il consenso a chi la pensa in maniera diametralmente opposta. Si tenga cippo di qui.

domenica 16 aprile 2023

La Destra? Sarà la nuova Democrazia Cristiana

Secondo il ministro della difesa del governo Meloni, Guido Crosetto, che è stato tra i fondatori di Fratelli d’Italia, l’attuale destra tende ad espandersi al centro fino a formare quel grande partito conservatore che era nei loro piani fin dall’inizio (Corsera, 15.04). Il traguardo è alle viste in concomitanza con due fattori, di recente in campo. Il primo è la malattia di Berlusconi e la conseguente presunta fine di Forza Italia. Il secondo è la fine del cosiddetto terzo polo di Matteo Renzi e Carlo Calenda, che in questi ultimi giorni si è come dissolto tra reciproci insulti e scambiarsi di accuse. I due fattori spazzano un ampio campo politico a disposizione della destra più in grado in questo momento di approfittarne, che è senza dubbio FdI. Questo potrebbe avviare una serie di ricadute. Se la destra di Meloni mira solo a diventare la Democrazia Cristiana dei prossimi anni – ricordiamo che Guido Crosetto viene da quel partito – che cosa accadrà a destra? Osservatori politici e studiosi sostengono che Fratelli d’Italia è la terza generazione del postfascismo (Vassallo – Vignati 2023), la prima essendo stata il Msi e la seconda Alleanza Nazionale. Questa visione delle cose dà per scontato che a destra FdI abbia prosciugato tutto quel che c’era e che ogni residuo di postfascismo è stato eliminato. È veramente così? La tesi è che in politica se si accoglie si trasforma, se si respinge si radicalizza. È pedagogia politica. La destra, accolta a suon di voti e giunta al potere, necessariamente si trasforma seguendo nuove traiettorie politiche. Se la Meloni non avesse vinto le elezioni starebbe ancora a dire che la pacchia deve finire, a chiedere blocchi navali per fermare i migranti, a minacciare il governo di debolezza e l’Europa di prepotenza. Invece la Meloni sfila oggi sui tappeti del potere che è una meraviglia, politicamente garbata, prudente e integrata. È altrettanto vero, però, che parte di quel che a destra si pensava definitivamente acquisito, la si potrebbe perdere per strada. C’è una parte di destra radicale, minima quanto si vuole, che potrebbe rifiutare l’approdo ad una nuova Piazza del Gesù. Essa potrebbe trovare una nuova organizzazione intorno a qualche personaggio della cosiddetta terza generazione non disposto a morire “democristiano”, specialmente se quei valori identitari della destra mazziniana più che fascista, Dio Patria Famiglia, non dovessero trovare evidente rispetto nella politica governativa della destra meloniana trasformatasi pour cause. Da quanto finora si è visto, al netto della propaganda dell’opposizione, che continua a gridare al lupo al lupo di destra, e a parte qualche decreto sui rave party, sull’emergenza migranti e su provvedimenti economici in favore di famiglie e imprenditori, niente finora s’è visto sulla bioetica, settore dove la destra si gioca la faccia, sulla cultura e la scuola. A fronte di tale assenza c’è un paese, sostenuto dalla sinistra, che in ogni occasione non fa che alzare la voce a difesa di certe conquiste individuali legandole alla Costituzione, e lo fa con la sicurezza di chi sa di trovarsi in casa propria e con la determinazione di chi vigila per respingere i nuovi “invasori”. Starei per dire che la destra che governa il paese legale non è ancora entrata nel paese reale e forse mai entrerà se non a condizione di una trasformazione radicale. Da quando Meloni è al governo nulla è cambiato e forse nulla cambierà in proposito se l’obiettivo, come si diceva in apertura, è quello di diventare il nuovo centro politico. Tradotto, evidentemente, in atti politici. Può essere che al termine della vicenda politica di FdI niente di rilevante resti della vecchia destra, eccetto la bella conquista di una destra non più demonizzata, pronta ad andare al governo del paese o a ritornarvi, normalmente come in ogni democrazia. L’esperienza della Meloni segna un punto di non ritorno. Ma i grandi valori identitari, sui quali punta l’azione politica, a destra per proporli come irrinunciabili, a sinistra per respingerli come estranei, restano una bandiera e basta. In concreto si tratta di valori ampiamente superati, non più pensati come effettivamente possibili. Esattamente come il fascismo di alcune frange di nostalgici, che si appagano di “riviverlo” nella storiografia, i sostenitori della destra conservatrice li possono “rivivere” nella letteratura fantasy. La società non è più disposta a passi indietro e le grandi istituzioni dello Stato, come sempre accade in simili situazioni, si uniformano. Di qui l’inevitabile trasformazione di una destra radicale e reazionaria in una destra conservatrice e moderata, ovvero la Democrazia Cristiana del 2000.

domenica 9 aprile 2023

Da La Russa più senso di responsabilità

Ho sempre votato Msi, senza o con ammennicoli aggiuntivi, tipo Destra o Alleanza Nazionale, ed ho votato Fratelli d’Italia da quando questo partito è nato, confesso, non perché fossi convinto del suo successo, che ritenevo del tutto improbabile, ma per compiere fino in fondo da quella ridotta esercizi di onestà intellettuale, dei quali uno ha bisogno per stare in pace con se stesso. Poi, in questa fase così tumultuosa e incerta che stiamo attraversando come Paese, in cui tutto nasce e muore in breve e tutto non è altro che un tentativo di ritrovare l’inizio di un nuovo regime, è come se fosse avvenuto un miracolo e Fratelli d’Italia è diventato il primo partito e i suoi uomini oggi sono al potere guidati da Giorgia Meloni. Questo governo rischia, però, di rimanere solo un capriccio della storia. Dipende dai suoi uomini. Alcuni di essi si stanno comportando bene, dimostrando di essere all’altezza delle istituzioni che rappresentano. Altri, purtroppo, si stanno comportando malissimo e non è solo persecuzione preconcetta degli avversari se un giorno sì e uno no essi chiedono le dimissioni di qualcuno. Le ultime vicende riguardano uno degli uomini più rappresentativi del partito e delle istituzioni, il Sen. Ignazio La Russa, Presidente del Senato; e questo dispiace, per l’uomo e per ciò che rappresenta. I toni da burletta che ha usato in riferimento a Via Rasella sono inaccettabili prima ancora che da uomo di partito, dall’altissima carica che ricopre, la seconda dopo il Presidente della Repubblica. Lo sanno tutti che la lettura della storia del Novecento che fa la destra non è la stessa che fa la sinistra e ciò per ovvi motivi: una parte ha perso e l’altra ha vinto. In tutti questi anni di confino politico in cui è stata relegata la destra ha rivendicato il diritto di dire la sua su vicende sulle quali la sinistra ha preteso di esercitare l’imprimatur. Sono convinto che ancora oggi un confronto alla pari è possibile tra cultori di storia di destra e cultori di storia di sinistra, ma all’insegna della verità e a parità di competenze, senza spirito risarcitorio da nessuna delle due parti. Ma un punto dal quale partire deve essere condiviso. Chi oggi ricopre cariche istituzionali della Repubblica non può ignorare che essa è nata dalla Resistenza e si fonda su una Costituzione che è esplicitamente antifascista. Questo può comportare sicuramente imbarazzo in chi non si è mai riconosciuto in essa, ma non può, nel momento in cui giura fedeltà, pretendere di riscrivere la sua storia in maniera improvvisata e sciatta. Il Sen. La Russa, se non voleva servire la Repubblica, che lui sente a sé estranea, non doveva proporsi e farsi eleggere Presidente del Senato; poteva rimanere uomo di partito, parlamentare e basta, un sopravvissuto in territorio nemico, come diceva la buonanima del musicologo Piero Buscaroli. Accettare di servire la Repubblica non significa di per sé l’obbligo di mutar ragioni politiche ed esistenziali, che ognuno può coltivare per sé, ma prendere atto della realtà e comportarsi in modo tale da non offendere nessuno. La Presidenza del Senato non può che appartenere a tutti gli italiani. O si è disposti ad onorarla in quanto tale o si rinuncia. La cosa migliore che avrebbe dovuto fare La Russa fin da principio era di dimostrare a tutti di essere un buon Presidente del Senato. Il suo successo non poteva essere che quello legato alla carica, che egli aveva liberamente voluto e raggiunto. Giurare e poi trasgredire è cosa spergiura. Lui è siciliano e sa perfettamente cosa significa nella cultura siciliana violare un giuramento. Una volta si diceva che la patria si serve anche facendo la sentinella ad un fusto di benzina vuoto; lui doveva essere disposto a servire l’istituzione rappresentata facendo anche il semaforo. Sissignore, il semaforo, quello che lui ha sempre detto di non voler fare. Ma anche questa espressione, a voler essere seri, è una caricatura ed un’offesa all’istituzione. E tuttavia non fare il semaforo non può voler dire fare il pulcinella. Può voler dire avere spazi di libertà per esprimere valutazioni e giudizi, sempre all’insegna del decoro e del rispetto. Speriamo che l’incidente basti a far prendere atto a La Russa, che è persona perbene e intelligente, sicuramente navigato, che onorare le scadenze repubblicane non significa condividerle. La sua storia non lo consentirebbe. Significa che gli obblighi istituzionali impongono di onorarle, come vuole il calendario dei vincitori. Ogni regime ne ha uno. Quello democratico è aperto a mutamenti e trasformazioni. Basta saper attendere. In caso contrario: prendere o lasciare.

sabato 1 aprile 2023

Cui prodest, La Russa?

L’ennesima gaffe dell’ennesimo La Russa. Parlando dell’attentato di via Rasella, di cui si è celebrato il ricordo qualche giorno fa, il 23 marzo, il Presidente del Senato nonché alto esponente di Fratelli d’Italia, se n’è uscito con una incredibile dichiarazione. Ha detto che quello fu un atto indegno perché quei poveri soldati tedeschi del “Bozen” morti nell’attentato, in gran parte anziani, erano dei suonatori della banda del reggimento, volendo dire che si trattava di persone innocue. Queste parole non potevano che essere il detonatore di una polemica che difatti è esplosa senza risparmio di tritolo parolaio. Si sono levati subito alti lai di disapprovazione e di sdegno da parte dei detentori ufficiali dei valori della resistenza e dell’antifascismo, piddini, grillini e sinistrini vari, moltiplicati dai media e dai social. Chi conosce l’ambiente – e La Russa lo conosce fin troppo bene – sa che una dichiarazione del genere avrebbe riaperto la questione sul fascismo e l’antifascismo della nuova classe di governo, attesa in ogni occasione per vedere che dice e come si comporta. Che Fratelli d’Italia sia la discendenza storica del Msi è cosa acclarata e non negabile. Ma si eccepisce sulla disponibilità dei suoi rappresentanti a riconoscere i valori dell’antifascismo, dato che la Repubblica Italiana è nata dalla Resistenza e la Costituzione è antifascista. Qualche giorno prima che La Russa desse fuoco alla paglia con le sue parole su via Rasella, era toccato a Giorgia Meloni dover dare spiegazioni su una sua dichiarazione “monca” sulle Fosse Ardeatine quando, piuttosto che dire che furono massacrati degli italiani perché antifascisti, disse che erano stati massacrati degli italiani per il solo fatto che erano italiani. E via per giorni, con cavilli e distinguo, un continua alla prossima puntata, giacché è improbabile che gli esponenti politici di destra, che sono al governo, ammettano pubblicamente di essersi convertiti al verbo antifascista. Qualunque cosa dicano per farsi “legittimare” – pretesa veramente obbrobriosa e ridicola allo stesso tempo – per gli incontentabili censori antifascisti non basta mai. Ci voleva altro – dicono – e poi altro ancora. La Russa ha sbagliato sia perché se n’è uscito, ancora una volta, con parole inappropriate, sia perché, essendo Presidente del Senato, dovrebbe parlare e comportarsi di conseguenza, ovvero dimostrare che anche un politico di destra, diversamente convinto di questioni fasciste e antifasciste, sa comportarsi come il ruolo gli impone, anteponendo le istituzioni a qualunque altra cosa e rispettando tutti i cittadini, anche quelli di parte avversa. Pertanto dovrebbe evitare di toccare argomenti sensibili. Ne guadagnerebbe anche la destra, come partito e come popolo che in essa si riconosce. Non dovrebbe essere difficile. A La Russa le parole non sono mai mancate. Sull’attentato di via Rasella e sul conseguente eccidio delle Fosse Ardeatine si sono pronunciati anche i tribunali: fu un atto di guerra, cui seguì un altro atto di guerra. Punto e basta. Se quelli di sinistra ne vogliono fare una questione infinita per lucrare consensi nel Paese, lo facciano pure, ma non devono trovare l’involontaria sponda proprio nella destra, che ha altra visione delle cose. Allora perché La Russa sparla di cose fasciste e antifasciste anche quando non c’è nessuna congiuntura che lo obblighi, forse a voler ricordare a tutti che l’essere giunto al potere non gli ha fatto cambiare idea? Veramente dobbiamo credere che lui rivendica di interpretare il ruolo diversamente da come richiede l’etichetta, che non vuole ridursi a fare il semaforo? È probabile. Tempo fa liquidò la faccenda del busto del Duce dicendo di averlo regalato alla sorella. Ha ridotto la condizione di avere un figlio gay a come avere un figlio tifoso di una squadra diversa dalla propria. Non pronuncia più il nome di Almirante come se il celebre segretario nazionale del Msi non fosse mai esistito. Tutto questo, probabilmente, per non “offendere” i soliti censori democratici e antifascisti. Ma, così facendo, non solo “offende” gli avversari ma anche irrita il suo ambiente politico, a cui non va giù lo svilimento della propria identità e della propria storia. A questo punto che gli costa fare il Presidente del Senato e lasciare da parte ogni altra ubbia? Se proprio non dovesse farcela, allora si porrebbe davvero l’ipotesi di dimissioni, perché non si può andare avanti trascurando le cose serie da farsi per chiacchiere di nessun costrutto e buone e utili solo agli avversari politici. I quali fingono di sdegnarsi e intanto gongolano nel mettere in difficoltà il governo.