domenica 29 gennaio 2017

Renzi e il resto di niente


Matteo Renzi è tornato. Ed è subito guerra. Lo ha fatto a Rimini il 28 gennaio, all’assemblea nazionale del partito di cui è ancora segretario. A sentirlo, sembra non si sia mai allontanato dalla politica. Stesse ciarle, stesse faccette, stessa presunzione, stessa arroganza. Si sarebbe dovuto ritirare a far altro se avesse perso il referendum della riforma costituzionale. Lo aveva detto lui stesso. E’ rimasto, forse perché non ha trovato altro da fare. Nei primi giorni del dopo dimissioni da presidente del consiglio si è fatto riprendere in un supermercato col carrello della spesa. Una versione domestica che, in regime di maschilismo, lo avrebbe condannato senza appello, quale homo inutilis; oggi, in regime di pari opportunità al rovescio, è come una medaglia al valore.
Riparte. Come tutte le ripartenze, anche la sua deve mostrarsi veloce, grintosa, determinata, per prendere gli avversari in contropiede. Come nel calcio. Non poteva perciò dimostrarsi dispiaciuto, contrito; non è nel suo dna, del resto. Perciò si è mostrato dimentico; come se dalle sue performance fossero passati anni. Si sta comportando come chi davvero non c’è mai stato. Renzi non pare il resto di qualcosa che c’è stata, pare il resto di niente.
Ecco, un altro che non potrebbe più barare. Oggi gli italiani sanno perfettamente chi è. O forse ci illudiamo che lo sappiano. Allo stesso modo lui si illude di essere nuovo.
Dopo la sentenza della Consulta sull’Italicum si è detto soddisfatto. Che fa, il fesso? No. Soddisfatto perché, a suo dire, si avvicinano le elezioni. Lo hanno detto tutti i renziani che la sentenza della Corte ha “confermato” che l’Italicum ha un fondo importante di costituzionalità. Ma che si aspettavano, che la Corte mandasse loro i Carabinieri per arrestarli tutti? Quella legge, oltre che incostituzionale, è stupida.
Se Renzi non fosse quel’immemore o sfrontato che si sta rivelando si sarebbe dovuto nascondere per un bel po’. La sentenza è stata l’ennesima bocciatura delle sue "meravigliose" riforme. Dopo quella della pubblica amministrazione (ministra Madia) e della costituzione (ministra Boschi), ecco quella dell’Italicum, la legge elettorale, così perfetta che dava per scontata una cosa non ancora avvenuta, la riforma del Senato. La classica pentola senza il coperchio: cose del diavolo o semplicemente di fessi allegri.
Le sue mance, come sono state chiamate, ottanta euro ai redditi bassi, cinquecento euro agli insegnanti per aggiornarsi ed altri cinquecento a tutti i diciottenni, hanno creato difficoltà nei conti dello Stato che ora rischia guai seri da parte dell’Europa, così il ministro dell’economia Padoan ha chiamato la procedura di infrazione minacciata da Bruxelles.
Insomma, l’uomo nuovo della politica italiana, giovane e grande comunicatore, brillante e rottamatore, che dava pacche sulle spalle ai potenti del mondo come a dei compagni di classe, in buona sostanza, dopo circa tre anni di governo, non ha lasciato niente. Dietro di sé macerie, anche in campo internazionale. Hanno perso tutti quelli per i quali lui tifava, tra cui Cameron e la Clinton. Al niente va aggiunta la sfiga, che si porta dietro, piuttosto contagiosa. Per un enfant prodige è grave.
Con quali prospettive si ripropone? Certo, non è mica fesso a dire: io sono quello di prima, non è cambiato niente. Ma non dice neppure che, consapevole degli errori e dei fallimenti, si propone di cambiare. Non dice niente che lo riguardi personalmente. Dice che vuole cambiare il partito, come se la sua esperienza al governo è finita come è finita per colpa del partito. Nelle prossime settimane vedremo come lo vorrà questo partito. Intanto si cerca una via d’uscita mentre ognuno si mette sulla porta per non far né entrare né uscire. La proposta di Pisapia o quella di trovare un nuovo leader giovane di un nuovo Ulivo sono nate morte. Prodi giustamente ha commentato con qualche preoccupazione le stranezze o le stravaganze che circolano nel Pd.
Da Roma - stessa data, altra assemblea - D’Alema ha agitato lo spettro della scissione. Non ha torto quando dice che per andare a votare subito, come vorrebbe Renzi, non ci sono le condizioni. Chiede il congresso prima, che non dovrebbe essere conta di voti ma confronto di idee, di progetti, di formazione di gruppi dirigenti.
Ad allontanare le elezioni non è tanto la mancanza di una legge elettorale omogenea tra Camera e Senato, che pure è fondamentale, quanto la mancanza sia a destra che a sinistra di intese solide e di progetti politici. Il congresso nel Pd servirebbe, appunto, a delineare una progettualità politica. Insomma, per votare subito non ci sono i mezzi (legge elettorale) e non si vedono i fini (che cosa si vuole fare). Renzi, col suo solito sarcasmo, strappando qualche applauso, ha detto che non intende rispondere a chi di lontano, da altra assemblea, minaccia. Invece di avvicinarsi i leader della sinistra o del centrosinistra si allontanano.
Si può essere d’accordo con chi dice che chi non vuole il voto subito lo fa per calcoli suoi. In politica è normale che ciò accada. Ma ai cittadini importa poco il tornaconto politico personale di questo o quel personaggio. Quel che importa loro è che scomodarli a votare ne deve valere la pena, ci deve essere un motivo importante, che è avere progetto di governo e governabilità.

Renzi non ha in questo momento né l’una né l’altra cosa. In verità non ce l’ha nessuno, né a sinistra né a destra. E figurarsi i 5 Stelle! Ma sia a sinistra che a destra c’è chi suggerisce di procedere con prudenza, che non è lentezza: è un attrezzarsi per giungere preparati a fare qualcosa una volta giunti a destinazione. 
Chi, invece, ha fretta di votare – e Renzi ce l’ha – vuole solo una rivincita personale, che potrebbe essere, però, una riperdita per il Paese.     

domenica 22 gennaio 2017

Il caso Trump ci riguarda


Si può dire quel che si vuole di Donald Trump, quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America. Si può avere nei suoi confronti simpatia o antipatia, condivisione o dissenso rispetto ai suoi progetti. Una cosa è certa: non è solo un affare americano; riguarda l’Europa, il mondo.
Va detto onestamente che più che la sua politica inquieta l’uomo, non solo per quello che dice ma per come appare, per la sua gestualità, per la sua mimica, per le sue movenze, per la sua complessiva diversità e ambiguità.  
E’ espressione, ancor più plastica di quanto non fosse il nostro Berlusconi, del mondo degli affari, dei soldi, dell’imprenditoria, della ricchezza. E’ uno straricco, che crede negli uomini che gli somigliano, particolarmente competenti nei vari settori, quelli che si sono formati sul campo. La sua Trump tower somiglia alla Villa di Arcore. Luoghi simbolo di potere conquistato, smisurato, esibito.
Ha portato nel suo governo imprenditori e generali, i soli dei quali si fida. Detesta la politica e soprattutto i suoi tortuosi processi. Ha una idiosincrasia per tutto ciò che opera senza essere immediatamente visto. Ha paura di ciò che non padroneggia. Di qui le sue sparate agli apparati e all’establishment.
Non esita a dirsi populista. Il suo è un populismo che si esaurisce nel migliore dei casi in una politica tesa al benessere e alla sicurezza del popolo, che serve peraltro a tenerlo buono e a freno, ma non è finalizzata a farlo crescere e assurgere alla partecipazione alla vita politica del paese, alla democrazia. Cresci, popolo – sembra voglia dire – ma resta popolo, subordinato e inferiore, rispetto a chi sa essere più capace, a cui spetta sempre il governo e il potere, nella formula rigida “governanti e governati”. Il potere è tuo ma lo gestisco io, perché tu non sei in grado di farlo. E neppure quelli che si dicono tuoi democratici rappresentanti. Per certi aspetti, se è lecito il paragone, ricorda il verismo letterario ottocentesco, tra paternalismo e immobilismo: ognuno deve restare al suo posto, il povero deve rimanere povero, deve rimanere attaccato al suo mondo, come l’ostrica allo scoglio (Verga), altrimenti si perde. Ritiene che gli ultimi governanti degli Usa siano stati espressione di quel popolo emancipato fino a giungere alla Casa Bianca attraverso presidenti democratici. Il massimo è stato raggiunto con Obama, un afroamericano. Lo stesso popolo che ha votato maggioritariamente per la Clinton e che solo un sistema elettorale “indiretto” le ha impedito l’elezione. Non si sente appartenere neppure al partito repubblicano e si crede il capo di un movimento nazionale e nazionalista. Ecco perché ritiene che i presidenti americani degli ultimi tempi, repubblicani e democratici, siano stati rovinosi per gli Stati Uniti d’America. Tutti i mali del mondo, secondo Trump, sono stati causati dalla politica “antiamericana” di quei presidenti.
La sua si annuncia come una vera e propria rivoluzione. L’Europa non è più il partner naturale degli Usa e se, per il bene degli Stati Uniti, occorre allearsi con la Russia di Putin, si faccia pure l’alleanza. Dice, per combattere il terrorismo dell’Isis; ma anche per tenere a bada la Cina.  L’America agli americani ricorda la dottrina di un altro presidente americano, James Monroe (1758-1831). Una dottrina che all’epoca inquietava di meno, che oggi impensierisce non poco.
Di fronte al fenomeno gli osservatori si sono divisi tra quelli che pensano che da presidente Trump non farà quello che ha detto, che non si comporterà come si è comportato prima dell’elezione, e quelli che invece sono convinti che sarà sempre lo stesso, che continuerà a perseguire gli obiettivi per i quali ha chiesto agli Americani di essere eletto.
Ad impensierire questi ultimi sono i cosiddetti trumpisti, americani e non, che spuntano come funghi. E ce ne sono tanti ormai sparsi in America e nel mondo. In Europa sono i tanti nazionalisti che minacciano chiusure e muri contro l’immigrazione. In Gran Bretagna sono i sostenitori della Brexit, in Francia i lepenisti, in Italia i leghisti. Dappertutto si rafforzano partiti nazionalisti e vedono in Trump il loro profeta, comunque una sponda. E fuori dall’Europa, la Turchia di Erdogan, la Russia di Putin, che trumpisti lo erano ante litteram. Sembra che il mondo sia scosso da un autentico terremoto, di cui Trump non è causa ma effetto.
Preoccupano particolarmente i trumpisti di più recente conversione, quelli che ormai accettano Trump come condizione per farsi meglio i propri interessi politici ed economici.
Dobbiamo temere? Dobbiamo preoccuparci? Certamente sì: ma non dobbiamo perdere il senso delle cose. Gli antitrumpisti a ventiquattro carati, alla Severgnini per intenderci, dicono che non tarderà molto e Trump andrà incontro ad un impeachment che potrebbe metterlo fuori causa. Previsione ragionata o desiderio inconfessato? Un po’ l’una e un po’ l’altro. La sua politica familista e i continui attacchi agli apparati dello Stato lasciano pensare che presto finirà nei guai.
Ma perdere il senso delle cose può voler dire anche mettersi la benda sugli occhi e non voler vedere le cause che hanno portato alla situazione odierna. Da un po’ di anni i governanti europei e americani, diciamo l’Occidente, hanno esagerato nelle loro scelte ideologiche e non hanno voluto fare i conti con la realtà dei valori e dei bisogni del popolo. Un esempio per tutti: l’immigrazione selvaggia che sta cambiando i connotati dell’Europa e dell’America.
Si ha ragione di pensare che non sia stato tanto il populismo dei partiti e dei movimenti di destra ad aver generato i Trump, la Brexit, il lepenismo, il leghismo, i nazionalismi, quanto l’antipopulismo dei partiti e dei movimenti di sinistra, di cui si sono fatti apripista i partiti democratici. Una politica più realistica, di mediazione tra inevitabili emergenze e difesa delle soglie del non negoziabile, avrebbe sicuramente garantito un diverso equilibrio. Non ci saremmo trovati oggi a temere tanto per il domani. 

domenica 15 gennaio 2017

Obama, un presidente così così


Nel discorso di commiato da Presidente degli Stati Uniti d’America, tenuto a Chicago il 10 gennaio, Barack Obama ha fatto un bilancio della sua presidenza riconoscendo che gli esiti avuti, pur importanti, restano aperti e problematici. Ha tenuto a ribadire, tuttavia, la sua fede in quei valori per i quali aveva chiesto al popolo americano di votarlo e che lui ha cercato di coltivare e rafforzare.
Grandi obiettivi, per sua stessa ammissione, dunque, non ne ha raggiunti. In otto anni di presidenza è riuscito solo ad estendere la copertura sanitaria a ventiquattro milioni di cittadini e a creare qualche milione di posti di lavoro. Che si tratti di obiettivi tipici di ogni partito democratico con valenze di sinistra, specialmente la copertura sanitaria, non c’è alcun dubbio. Sanità e reddito costituiscono sempre inclusione di cittadini nei benefici del Paese. 
A fronte di questi successi, sui quali peraltro gli esperti esprimono valutazioni controverse, c’è una gran mole di insuccessi in altri ambiti e settori, interni ed esterni.
Obama partì subito con un riconoscimento prematuro: il Nobel per la Pace nel 2009. Sulla base di che cosa l’Accademia Svedese glielo volle assegnare non si capì e non si capisce o – se vogliamo essere politicamente avveduti – si capisce benissimo. A noi italiani ricordò la scena di Ettore Petrolini quando, impersonando Nerone, il popolo lo applaudiva prima ancora che parlasse. Si era in tempi di fascismo e come satira antiregime andava benissimo. Quel Nobel, assegnato non per l’impegno profuso ma per quello da profondere, la dice lunga sul pensiero dominante che, irradiandosi dalla vecchia Europa, ormai coinvolge il mondo intero. Va detto, però, che Obama non era uno sconosciuto, era un afroamericano e non c’era bisogno di indovini per capire quale sarebbe stata la sua politica: apertura di orizzonti partecipativi e allargamento dei diritti civili e individuali. Diciamo pure che per chiunque voglia guardare alla sua esperienza, di destra o di sinistra che sia, repubblicano o democratico, egli rappresenta l’ultima e forse la più alta epifania del sogno americano. Una cosa che per Manzoni, quando parlava di Napoleone, era “follia sperar”. Ebbene negli Stati Uniti d’America sperare nel massimo delle affermazioni individuali non è mai follia. E questo, onestamente, è bello.
Ma per questa sua politica democratica, di progressiva inclusione, egli ha conosciuto risvolti drammatici quando il Paese, quello che si rifà alla tradizione americana, alla famosa “pancia”, ha risposto in maniera nervosa e a tratti isterica. I tanti ammazzamenti di giovani di colore da parte della polizia, che sembravano quasi preludere ad una guerra civile, erano messaggi ostili alla sua politica, resi ancora più espliciti dal rifiuto da parte del Congresso di mettere ordine nella vendita e nel possesso delle armi. Obama ha versato pubbliche lacrime di fronte alle tante stragi commesse senza una ragione apparente da parte di squilibrati, che però possedevano armi automatiche da guerra, con le quali davano sfogo ai loro inconsci rancori sociali. Sul piano dell’integrazione razziale e sociale Obama ha avuto dei dispiaceri. La dignità con la quale ha difeso la sua politica, nonostante non abbia conseguito grandi successi nel Paese, depone bene per lui; ma va anche detto che la sua sconfitta è stata ancor più netta quando a vincere le elezioni presidenziali è stato Donald Trump, noto per gli eccessi verbali e comportamentali. Una politica più realisticamente moderata sul piano delle aperture e delle conquiste individuali forse avrebbe conseguito esiti diversi; sicuramente non avrebbe dato legna da ardere ad uno come Trump.
Sul versante estero, la politica di Obama è ancor più deficitaria. Egli lascia uno scenario politico in cui gli Stati Uniti non hanno più quel primato nel mondo che avevano agli inizi della sua presidenza. Oggi il ruolo della Russia di Putin è cresciuto ed insidia quello degli Usa. Sul piano economico, il primato americano è contestato dalla Cina, nei confronti della quale gli Stati Uniti hanno debiti importanti da onorare. Primati, intendiamoci, che già prima di Obama erano in calo.
Agli inizi delle Primavere Arabe Obama, in ossequio alla sua cultura democratica, ha esultato e contribuito all’abbattimento di quei regimi nordafricani dittatoriali, che, però, una volta abbattuti, non sono stati sostituiti da altri più democratici ma da dittature militari (Egitto) o da pericolose anarchie (Libia), che hanno compromesso l’intera area. Obama era sul punto di attaccare la Siria di Hassad ma non ebbe il coraggio di farlo e c’è da credere non solo per l’appello di Papa Francesco ma per paura che la Russia reagisse. Ci ritroviamo, quale conseguenza di questa politica di un passo avanti promesso e di uno indietro fatto, con il terrorismo dell’Isis, una guerra, i cui fronti vanno dagli sterminati spazi del Medio Oriente fino alle nostre città e dovunque si voglia colpire l’odiato nemico crociato o qualche suo alleato.
Nel suo discorso di Chicago ha voluto ricordare i pericoli che corre oggi la democrazia americana nonostante i grandi passi avanti a suo dire compiuti; ma soprattutto ha citato i traguardi raggiunti: la fine di una lunghissima conflittualità con Cuba, l’interruzione del programma nucleare iraniano, l’uccisione di Ben Laden, l’artefice dell’attacco del 2001 alle Torri Gemelle, lo sforzo di realizzare nel mondo una più efficace difesa dell’ambiente, l’avanzamento dei dritti civili. Non ha nascosto i problemi che si affacciano a causa anche di trasformazioni inevitabili come quelle nel mondo del lavoro che causeranno un calo dell’occupazione.

Obama ha dovuto operare in otto anni in un paese difficilissimo, abitato da gente che si sente invasa da stranieri, per colpa dei quali era stato votato un presidente non proprio adeguato a condurre un paese così importante nel mondo. Obama è stato visto il Presidente degli stranieri, gli immigrati già entrati e quelli che premono alle frontiere per entrare. Di qui la paura dell’invasione e il muro col Messico, che peraltro risale all’Amministrazione Clinton. Gli americani, per otto anni, si sono sentiti stranieri in casa propria. Obama deve essersi sentito, invece, come un vescovo in terra infidelium, in una diocesi cioè abitata da infedeli. Bilancio? L’uomo fa simpatia ed esige rispetto. La sua politica desta non poche perplessità.  

lunedì 9 gennaio 2017

Europa: la neve di Puglia fa la differenza


L’enormità della nevicata in Puglia, che dura dal 6 gennaio, ha fatto dire al Governatore della Regione Michele Emiliano, che per trovare un precedente occorre andare indietro di più di cent’anni. Ce l’ha portata la befana o sono stati gli hakker di Putin, dato che la perturbazione che l’ha causata viene dai Balcani? Ovvio, mi va di scherzare.
La neve è pur sempre un evento giù da noi, una festa per i bambini che si mettono a fare subito pupazzi e a battagliare con le palle; ma anche per gli adulti che se ne vanno in giro con gli smartphone per immortalare i paesaggi urbani, i giardini e le persone, a partire dai propri famigliari ed amici.
Scherzo, perché di fronte a certe situazioni forse è l’unica cosa seria che si può fare. Obama è convinto che Putin abbia fatto vincere le elezioni a Trump per mezzo dei suoi hakker. E addirittura mette in guardia quegli Europei, che nel corso di quest’anno devono rinnovare la classe politica. Vuole far credere l’ormai ex Presidente degli Stati Uniti che corriamo seri pericoli, che la democrazia corre seri pericoli; che in Italia o in Germania vince chi vuole Putin. Fosse vero, non bisognerebbe dirlo; ma agire di conseguenza.
Che la più grande potenza politica, economica e militare della Terra si pieghi a mettere in giro voci del genere fa pensare che ormai è tutto post-verità. Più verosimilmente è lo choc per aver perso le elezioni. C’era forse un disegno in Obama: ora vince la Clinton e poi magari la Michelle. Si sa, gli appetiti vengono mangiando. L’irruzione di Trump sulla scena, ritenuta da moltissimi oscena, ha rovinato i piani. Non può essere che colpa di un malvagio. E oggi non ci sono dubbi: è lui, Putin.
Ma torniamo alla neve in Puglia. A dire il vero è un po’ tutto il Mezzogiorno d’Italia nella morsa della neve e del freddo; perfino la Sicilia.
Nel Salento la neve è caduta abbondante, ma non è montata che trenta centimetri. Cosa assai lontana dai tre metri, di cui ha parlato Emiliano per l'alta Puglia. Da noi c’è il mare da tre parti. Siamo una penisola attaccata alla penisola. L’aria del mare ha mitigato gli effetti delle precipitazioni. Ma i danni ci sono anche da noi. Coltivazioni tipiche dei climi caldi hanno subito conseguenze gravi. Le pale dei fichi d’India sono come lessate. Le piante grasse sono come riempite di liquido nero. Hanno cambiato colore i ficus. Le fontane hanno smesso di dare acqua, le farfalle dei rubinetti sono come saldate. Alcuni tubi sono esplosi. Altri hanno lasciato uscire acqua rossastra. Le strade sono impraticabili. Le scuole chiuse. Molti negozi e uffici chiusi. Molti, appena migliorato il tempo, hanno preso d’assalto i supermercati per fare provviste per chissà quale emergenza.
Ho trascorso due anni della mia adolescenza a Berna, in Svizzera. La città, col suo fiume Aar, è come sul fondo di un catino, circondata dalle montagne dello Jura bernese. Lì nevica da ottobre ad aprile e tutto funziona. Le scuole sono aperte, così i negozi e gli uffici. Le persone, di ogni età e condizione, si alzano regolarmente la mattina e vanno dove devono andare. Lì nessuno si sognerebbe di parlare di danni o di condizioni straordinarie. Come in Svizzera, anche in Germania, in Austria e in tanti altri paesi europei, dalla cintola in su.
L’Europa è anche questa: un fenomeno in Italia è poco meno di un terremoto, in un paese della Mitteleuropa è la quotidianità. Purtroppo a governare questo mostro dalle tante teste, dalle tante braccia e dalle tante gambe, che è l’Europa, sono più quelli del Nord che noi del Sud. Le teste più importanti della politica europea – a parte Mario Draghi, che comunque è un tecnico – sono tedesche, belghe, francesi, olandesi, lussemburghesi e su dicendo. Italiani, Spagnoli, Greci contano assai poco; e così Polacchi, Ungheresi e paesi balcanici.
La neve fa riflettere, proprio per la sua leggerezza e piacevolezza; sembra al di sopra di ogni sospetto di antieuropeismo. Noi Europei siamo diversi, non c’è niente da fare. Lo stare insieme, processo ormai irreversibile, almeno nei medi e lunghi tempi, mette in risalto le differenze e, purtroppo, seleziona la classe dirigente. L’Europa doveva essere fatta diversamente, nel rispetto delle tante diversità. Questo non significa che, per esemplificare, le cose buone dei paesi nordici dovevano rimanere buone, e le cose cattive dei paesi meridionali dovevano rimanere cattive. L’unione, si sa, attiva fenomeni di omologazione, purché si riconosca che in partenza si è diversi e che per stare bene insieme occorre togliere di qua e aggiungere di là in processi di lunga durata. Invece è accaduto l’assurdo. Si è detto: siamo tutti europei come in genere si dice siamo tutti figli di Dio. Non è stato solo un caso che in Europa ci abbia portato Romano Prodi, l’uomo politico italiano più simile ad un predicatore quaresimale. E invece di partire diversi per somigliarci sempre più; siamo partiti simili per diventare sempre più diversi. E, mentre si continua a dire che siamo tutti d’accordo – e non lo siamo – basta una forte nevicata, che altrove è fenomeno banalissimo, per far emergere resistenti differenze.

domenica 1 gennaio 2017

Addio 2016, vecchio malvagio!


Va bene ch’era un anno bisestile, di per sé proverbialmente foriero di sventure; ma i morti eccellenti del 2016 sono stati davvero troppi. E non solo eccellenti, posto che di fronte alla morte si possano fare gerarchie. La tremenda guerra siriana di vittime ne ha prodotte tantissime che da sola basta a far inorridire l’opinione pubblica mondiale. Tantissime sono state le sciagure. Aerei deliberatamente abbattuti o caduti per errore umano. Treni che si sono scontrati su una tratta a binario unico. Le vittime del terrorismo in ogni parte del mondo sono da autentica guerra. Terremoti prolungati oltre ogni paura hanno mietuto centinaia di vittime; in Italia hanno distrutto intere località: testimonianze di storia, di arte, di devozione, di civiltà, definitivamente scomparse. 
Il 2016, veramente annus horribilis,  ha fatto registrare una vera ecatombe di artisti, di scienziati, di scrittori, di attori, di cantanti, di imprenditori; in Italia e nel mondo, fino all’ultimo. Personaggi, che sembravano indistruttibili, come Dario Fo, Giorgio Albertazzi, Marco Pannella, se ne sono andati. Eventi normali sono stati trasformati per somma in un unico grande eccezionale evento.
Si ha l’impressione, in chiusura, che sulla Terra sia arrivata una nuova padrona di casa piuttosto dispotica e risolutiva, che ha voluto fare le pulizie generali per arredare da cima a fondo l’abitazione per i prossimi anni. Via i mobili ingombranti, via le vecchie credenze, via le vecchie attrezzature, anche se alcune erano ancora buone e funzionanti. 
Sovveggono i versi di Ugo Foscolo per la grandiosità dell’immagine: “una forza operosa le affatica / Di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe / E l’estreme sembianze e le reliquie / Della terra e del ciel traveste il tempo”.
Ecco, il 2016 non è stato un anno; è stato il tempo. Un anno avrebbe portato via un po’ di gente e un po’ di cose, nella normalità delle cifre e delle esistenze. Il tempo fa qualcosa di assai più importante, porta via, spiana, come a voler ricostruire qualcosa di completamente nuovo. Il 2016 ha fatto tabula rasa. Un Umberto Eco, ancora vivo e vegeto, brillante e graffiante, che non capisce il nuovo modo di comunicare dei social, che ci sta a fare più sulla faccia della Terra? Niente! E così se n’è andato pure lui: un ingombrante pure lui.
Il 2017 potrebbe essere l’anno primo di una nuova era. Possiamo dire che il Novecento ha messo la lapide sulla sua tomba. Pensiamo ad alcuni fatti, impensabili secondo le normali categorie politiche, che si sono verificati: la Gran Bretagna vota ed esce dall’Europa. Negli Stati Uniti viene eletto Presidente un personaggio inquietante contro tutti i pronostici e le volontà di quello che con una parola è detto l’establishment. In Italia Matteo Renzi – si parva licet… – rovina col referendum sulla riforma costituzionale come Fetonte col carro del Sole, per imperizia e presunzione. I suoi vecchi sostenitori hanno detto di lui cose che prima che lasciasse dicevano solo i suoi critici. Ma in Italia, si sa, non si va mai in soccorso di chi perde, ma di chi vince. “Quando si parte il gioco de la zara – diceva Dante – colui che perde si riman dolente, / repetendo le volte, e tristo impara; / con l’altro se ne va tutta la gente”.  
Ma ci sono state anche delle delusioni, quelle che chiamo "le diversamente vittime". Il 2016 ha visto il trionfo e il tonfo del Movimento 5 Stelle, che a Roma ha fatto registrare la più grave delusione che forza politica abbia mai dimostrato. Se ancora è lì la sindaca Raggi è perché si teme che dopo di lei possa venire il peggio, che è poi quello che c’era prima. Giornali che non ne hanno mai perdonata una agli altri, tacciono o minimizzano sul Movimento di Grillo, che è notoriamente contro le regole democratiche della Costituzione.

Il quadro politico si presenta quanto di meno comprensibile si possa immaginare. Sembra muoversi tutto e tutto sembra fermo. Berlusconi è speranzoso. Non basterebbe questo a rendere l’idea di come stiamo combinati? Un Gentiloni che perde le primarie a Roma, classificandosi terzo, viene recuperato al Ministero degli Esteri per sostituire la Mogherini e dopo l’uscita di Renzi viene chiamato a presiedere il governo. E’ come se un pugile che non riesce a battere un peso piuma, finisce per mettere ko un peso massimo. Che dire? In Italia una mezza analfabeta, con un diplomino di tre anni dopo le Medie, viene fatta Ministra della Cultura e della Ricerca e dell’Università. Sembra uno scherzo. Non lo è; lo ha portato il terribile 2016, che non ha scherzato affatto. Un Ministro che offende i giovani che vanno all’estero in cerca di lavoro si scusa per le parole; ed altro non sa fare, mentre chi gli sta accanto non lo scosta con sdegno, come dovrebbe fare.
Di fronte a quanto è accaduto nel corso di quest'ultimo disgraziatissimo anno si può solo sperare in un anno più clemente. Sperare nel 2017 necesse est!