Si può dire quel che si vuole di
Donald Trump, quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America. Si può
avere nei suoi confronti simpatia o antipatia, condivisione o dissenso rispetto
ai suoi progetti. Una cosa è certa: non è solo un affare americano; riguarda
l’Europa, il mondo.
Va detto onestamente che più che
la sua politica inquieta l’uomo, non solo per quello che dice ma per come appare,
per la sua gestualità, per la sua mimica, per le sue movenze, per la sua complessiva
diversità e ambiguità.
E’ espressione, ancor più
plastica di quanto non fosse il nostro Berlusconi, del mondo degli affari, dei
soldi, dell’imprenditoria, della ricchezza. E’ uno straricco, che crede negli
uomini che gli somigliano, particolarmente competenti nei vari settori, quelli
che si sono formati sul campo. La
sua Trump tower somiglia alla Villa di Arcore. Luoghi simbolo di
potere conquistato, smisurato, esibito.
Ha portato nel suo governo
imprenditori e generali, i soli dei quali si fida. Detesta la politica e
soprattutto i suoi tortuosi processi. Ha una idiosincrasia per tutto ciò che
opera senza essere immediatamente visto. Ha paura di ciò che non padroneggia. Di
qui le sue sparate agli apparati e all’establishment.
Non esita a dirsi populista. Il
suo è un populismo che si esaurisce nel migliore dei casi in una politica tesa
al benessere e alla sicurezza del popolo, che serve peraltro a tenerlo buono e
a freno, ma non è finalizzata a farlo crescere e assurgere alla partecipazione
alla vita politica del paese, alla democrazia. Cresci, popolo – sembra voglia
dire – ma resta popolo, subordinato e inferiore, rispetto a chi sa essere più
capace, a cui spetta sempre il governo e il potere, nella formula rigida “governanti
e governati”. Il potere è tuo ma lo gestisco io, perché tu non sei in grado di
farlo. E neppure quelli che si dicono tuoi democratici rappresentanti. Per
certi aspetti, se è lecito il paragone, ricorda il verismo letterario
ottocentesco, tra paternalismo e immobilismo: ognuno deve restare al suo posto,
il povero deve rimanere povero, deve rimanere attaccato al suo mondo, come
l’ostrica allo scoglio (Verga), altrimenti si perde. Ritiene che gli ultimi
governanti degli Usa siano stati espressione di quel popolo emancipato fino a
giungere alla Casa Bianca attraverso presidenti democratici. Il massimo è stato
raggiunto con Obama, un afroamericano. Lo stesso popolo che ha votato
maggioritariamente per la Clinton e che solo un sistema elettorale “indiretto” le
ha impedito l’elezione. Non si sente appartenere neppure al partito
repubblicano e si crede il capo di un movimento nazionale e nazionalista. Ecco
perché ritiene che i presidenti americani degli ultimi tempi, repubblicani e
democratici, siano stati rovinosi per gli Stati Uniti d’America. Tutti i mali
del mondo, secondo Trump, sono stati causati dalla politica “antiamericana” di
quei presidenti.
La sua si annuncia come una vera
e propria rivoluzione. L’Europa non è più il partner naturale degli Usa e se,
per il bene degli Stati Uniti, occorre allearsi con la Russia di Putin, si
faccia pure l’alleanza. Dice, per combattere il terrorismo dell’Isis; ma anche
per tenere a bada la Cina. L ’America agli americani
ricorda la dottrina di un altro presidente americano, James Monroe (1758-1831).
Una dottrina che all’epoca inquietava di meno, che oggi impensierisce non poco.
Di fronte al fenomeno gli
osservatori si sono divisi tra quelli che pensano che da presidente Trump non
farà quello che ha detto, che non si comporterà come si è comportato prima
dell’elezione, e quelli che invece sono convinti che sarà sempre lo stesso, che
continuerà a perseguire gli obiettivi per i quali ha chiesto agli Americani di
essere eletto.
Ad impensierire questi ultimi
sono i cosiddetti trumpisti, americani
e non, che spuntano come funghi. E ce ne sono tanti ormai sparsi in America e
nel mondo. In Europa sono i tanti nazionalisti che minacciano chiusure e muri
contro l’immigrazione. In Gran Bretagna sono i sostenitori della Brexit, in
Francia i lepenisti, in Italia i leghisti. Dappertutto si rafforzano partiti
nazionalisti e vedono in Trump il loro profeta, comunque una sponda. E fuori
dall’Europa, la Turchia di Erdogan, la Russia di Putin, che trumpisti lo erano ante litteram. Sembra che il mondo sia scosso da un autentico
terremoto, di cui Trump non è causa ma effetto.
Preoccupano particolarmente i trumpisti di più recente conversione,
quelli che ormai accettano Trump come condizione per farsi meglio i propri
interessi politici ed economici.
Dobbiamo temere? Dobbiamo
preoccuparci? Certamente sì: ma non dobbiamo perdere il senso delle cose. Gli
antitrumpisti a ventiquattro carati, alla Severgnini per intenderci, dicono che
non tarderà molto e Trump andrà incontro ad un impeachment che potrebbe metterlo fuori causa. Previsione ragionata
o desiderio inconfessato? Un po’ l’una e un po’ l’altro. La sua politica
familista e i continui attacchi agli apparati dello Stato lasciano pensare che
presto finirà nei guai.
Ma perdere il senso delle cose
può voler dire anche mettersi la benda sugli occhi e non voler vedere le cause
che hanno portato alla situazione odierna. Da un po’ di anni i governanti europei
e americani, diciamo l’Occidente, hanno esagerato nelle loro scelte ideologiche
e non hanno voluto fare i conti con la realtà dei valori e dei bisogni del
popolo. Un esempio per tutti: l’immigrazione selvaggia che sta cambiando i
connotati dell’Europa e dell’America.
Si ha ragione di pensare che non sia stato tanto il populismo dei
partiti e dei movimenti di destra ad aver generato i Trump, la Brexit, il
lepenismo, il leghismo, i nazionalismi, quanto l’antipopulismo dei partiti e
dei movimenti di sinistra, di cui si sono fatti apripista i partiti democratici.
Una politica più realistica, di mediazione tra inevitabili emergenze e difesa
delle soglie del non negoziabile, avrebbe sicuramente garantito un diverso
equilibrio. Non ci saremmo trovati oggi a temere tanto per il domani.
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