domenica 26 ottobre 2014

Dove andremo a parare di questo passo


La domanda che pochissimi si fanno in Italia ma che moltissimi avvertono come condizione psicologica è dove andremo a parare di questo passo; voglio dire procedendo a tentoni e a più o meno estemporanee e stravaganti proposte renziane. Fra le ultime, di mettere in busta paga i soldi del trattamento fine rapporto, più conosciuto come buona uscita o liquidazione, per dare l’illusione ai lavoratori di avere più soldi da spendere, di poter consumare di più e di tenere in moto la catena della produzione e del commercio. Così, liquidando nei cittadini – è il caso proprio di dirlo – quella speranza di poter disporre a fine rapporto lavorativo di un bel gruzzolo per realizzare finalmente qualcosa di importante per sé o per i figli. Oppure di dare 80 Euro al mese anche alle mamme, con un reddito sotto i novantamila Euro, per ogni neonato per i primi tre anni di vita, che rievoca politiche augustee e mussoliniane. Si dirà: ma i tempi sono quelli che sono ed è dannoso più che inutile immaginare giornate primaverili sotto la pioggia, la neve e il gelo. Insomma, stiamo male e a mali estremi, estremi rimedi, sia pure improvvisati ed estemporanei.
Il guaio è che i rimedi estremi che vengono agitati non sono tali da scongiurare veramente i mali estremi. Che sono, come ognuno sa, quelli che potrebbe infliggerci la troika europea se non dovessimo risolvere la brutta situazione in cui ci siamo cacciati per altrui e nostre colpe. Quali potrebbero essere i mali estremi? Il taglio, senza pietà e misericordia, come è accaduto altrove, di stipendi e pensioni, di unità lavorative senza porsi tanti scrupoli di articoli 18 o cose del genere. Di fronte a questa infelice prospettiva è lecito chiedersi: ma Renzi ci porterà davvero fuori o ci incasinerà di più?
Se la risposta, pur col beneficio dell’alea, è positiva, allora dovremmo tutti stringerci attorno a Renzi e seguirlo in questa sua reconquista come cavalieri dietro al Cid Campeador. Ovvio che non tanto noi semplici cittadini, la cui massima forza è il voto, dobbiamo sostenerlo nell’impresa ma tutte le forze vive del Paese, dalle politiche alle economiche, alle sindacali, passando da quelle assai importanti delle strutture burocratiche.
Se, viceversa, si ha più di qualche ragionevole dubbio che Renzi possa farcela, allora si ha il dovere di metterlo da parte e di tornare a far politica seria, attraverso una assunzione di responsabilità collettiva degna dei più drammatici momenti del Paese e della Repubblica. Penso a Caporetto del 1917, all’8 settembre del ’43, al terrorismo delle Brigate Rosse degli anni Settanta. Penso ad iniziative forti e lealmente coese perché credo che l’Italia di oggi sia paragonabile a quelle disgraziate situazioni, col minimo vantaggio di essere oggi prima della catastrofe e non dopo.  
Fino ad oggi la situazione, lungi dal migliorare, è peggiorata. Nel Paese non c’è dibattito politico autentico. Il Parlamento è semidelegittimato e impotente al punto che non riesce ad eleggere due giudici per la Consulta, come già non riuscì ad eleggere un nuovo Presidente della Repubblica. Un’intera classe politica è annichilita, incapace di avere un confronto serio e concreto al suo interno. Gli osservatori politici più autorevoli insistono nell’avere seri dubbi sull’operato di Renzi e sia pure con un linguaggio diverso si sono uniti ai critici d’assalto per dire che il governo Renzi è vuoto, che il personaggio si agita, straparla, strainsulta, ma intorno ha pressoché il deserto. I suoi ministri e soprattutto le sue ministre sono di bella presenza, ma di scarsa efficacia. Dall’ironia di Prodi per il “bellu guaglione” rivolto a Rutelli siamo passati a quella assai più velenosa della Bindi per le ministre di Renzi, tali – a suo dire – perché belle, quasi dovessero limitarsi a comunicare atmosfere concorsuali di bellezza e che la bellezza fosse di per sé “vaso d’elezione”.
Intanto non ci poniamo il problema nei giusti termini: affidarci a Renzi senza riserve o metterlo da parte perché quel che doveva mostrare lo ha mostrato in tutta la sua inadeguatezza? Tiriamo a campare tra le caricature esilaranti di Crozza e le crescenti manifestazioni di piazza.  Ci limitiamo a parlare e a straparlare pure noi, a sfotterci e a tifare pro e contro Renzi e non ci accorgiamo di scivolare sempre più verso la soluzione meno desiderabile.
Il secondo quesito pesante che dovremmo porci è se restare o meno in un’Europa che ci penalizza, che ci impoverisce, che ci declassa.
In Francia Hollande, che certo non gode di grande consenso, ha avuto il coraggio e la forza di sfidare l’Europa in nome di un sacrosanto diritto, quello di fare il bene del proprio paese, a prescindere da accordi precedentemente sottoscritti. Noi in Italia, invece, abbiamo il complesso di non apparire sufficientemente europeistici e prima di dire mezza parola di dissenso nei confronti della politica europea di rigore ci profondiamo in una serie di interminabili salamelecchi di fede europeistica. Renzi fa bene a dire che la Merkel non deve trattare i suoi partner da scolaretti che non fanno i compiti a casa; che l’Europa la deve smettere con le reprimende epistolari; ma un conto è dirlo da professore a professore, come fa Hollande, un altro da scolaretto discolo e punito a professore severo, come fa Renzi col gelato in mano.

Più di un esperto insiste nel dire che noi italiani non torneremo più alle condizioni pre-crisi, quasi a farci mettere l’animo in pace per l’infelice condizione. Ma se è assodato che stare dentro l’Europa, così come oggi è, significa per noi la povertà e la sottomissione, fino a che punto conviene restarci? Forse è giunto il momento di fare dei calcoli come si deve, senza complessi e senza paure e di incominciare ad operare per una uscita che ci consenta di recuperare la nostra condizione economica, ma soprattutto la dimensione culturale e politica.

domenica 19 ottobre 2014

Fassino, Renzi e l'eutanasia della politica


Ha detto Piero Fassino, sindaco Pd di Torino ed ex segretario dei Ds (l’ultimo ad esserlo stato prima del Pd), nonché ex Ministro della Giustizia e del Commercio con l’Estero, attualmente presidente dell’Anci, che «se il Parlamento restasse chiuso sei mesi, potrebbe perfino capitare che nessuno se ne accorga», perché «ha perso la sua centralità». Ed è, secondo lui, cosa normale, ancorché dolorosa, perché «dobbiamo ripensare le forme della democrazia politica», non dobbiamo rifugiarci «nella nostalgia di quel che c’era prima. Di nostalgia non si vive, si muore» (Intervista di Aldo Cazzullo sul “Corriere della Sera” di sabato, 11 ottobre). Poi una irrilevante rettifica sul “Corriere della Sera” del 14 successivo: «Ho posto un tema politico e culturale che sta sotto gli occhi di tutti: vi è una crisi […] delle forme politiche e istituzionali di rappresentanza» e via di seguito con altre considerazioni, condivisibili sul piano diagnostico, di meno su quello terapeutico.
Fassino va capito nell’economia della sua situazione. In quanto sindaco di Torino è espressione della più ampia platea del centrosinistra e se punta ad essere confermato alla scadenza del mandato – come punta – non può dire o fare cosa che in questo momento urti quella platea, larghissimamente renziana. Non è un’interpretazione maligna; semplicemente la sua è una condizione che non gli consente di dire altro. Questo solo oggi può dire…
Resta tuttavia grave la filosofia politica che sottende il suo pensiero. Così ragionando, infatti, tutto ciò che è accaduto, che accade e che accadrà nella vita politica di un paese, finisce per essere giustificato. Fassino non è uno qualsiasi. Cariche politiche e governative a parte, è uno che solo qualche anno fa scrisse un libro “Per passione” (Rizzoli, 2003), in cui, a proposito di Giancarlo Pajetta, disse che «non volle mai arrendersi all’idea, che si è dimostrata inesorabilmente vera, che il comunismo fosse incompatibile con la libertà e la democrazia» (p. 49). E si diceva convinto che «il riformismo [fosse] la politica più “di sinistra”, mentre [riteneva] ingannevoli le lusinghe dell’estremismo e del massimalismo e demagogiche le loro accuse al riformismo di “svendere” le idee di progresso per debolezza e incapacità» (p. 53). Alla luce di queste e di altre affermazioni non c’è da sorprendersi se oggi è su posizioni lontane da D’Alema e Bersani, i quali, però, senza essere estremisti e massimalisti, difendono alcuni principi basilari della democrazia, come la si intende a sinistra; anzi, come la si intende e basta, dato che alcune reali derive sono tali da non avere dubbi sulla loro antidemocraticità o sono tendenzialmente antidemocratiche.
Eccone alcune, senza alcun bisogno di esagerarle: 1. c’è un Parlamento, eletto con una legge incostituzionale, che ratifica, con voto di fiducia, quel che decide un governo che di fatto è un solo uomo, Renzi; 2. c’è un Senato, che si diceva andasse abolito, che non è più votato dai cittadini; 3. ci sono le province, che si diceva andassero abolite, che non sono più votate dai cittadini; col governo Renzi siamo in presenza del secondo governo extraparlamentare, non votato dai cittadini, con l’aggravante che né Monti né Renzi erano parlamentari all’atto dell’incarico; 4. il Parlamento è stato incapace di eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, lasciando in carica Napolitano, di fatto in regime di prorogatio; i cittadini, nelle loro più diverse condizioni politiche, economiche e sociali, sono privi di rappresentanza, per cui non possono in alcun modo far sentire la loro voce; 5. il capo del governo è solo uno che fa quel che la Commissione Europea gli impone, a prescindere da ogni altra considerazione;  6. l’Italia ha ceduto pezzi di sovranità all’Europa senza aver sottoposto nulla al giudizio degli italiani; 7. la quasi generalità dell’informazione spaventa quotidianamente il Paese con notizie che hanno carattere intimidatorio e ricattatorio, enfatizza quelle poche funzionali alla propaganda governativa e nasconde quelle considerate nocive; 8. importanti conquiste sociali come le garanzie dei lavoratori sono abolite come se si trattasse di vecchie inservibili suppellettili; 9. la Costituzione ormai è carta straccia, vanificata da una realtà emergenziale; 10. la Presidenza della Repubblica è impelagata in “presunte” trattative con la mafia, devastanti sul piano della credibilità e dei valori istituzionali di cui deve godere lo Stato di diritto.
A fronte di una situazione del genere, che di democratico non ha che le macerie – le si voglia vedere o meno è un altro discorso – Fassino non ha da opporre che una risibilissima obiezione: «Viviamo l’epoca in cui un movimento arriva al 25 % dei voti senza una sezione, senza una tessera, senza un segretario. Vogliamo discuterne e capire perché?» (intervista citata).
Ma Fassino è troppo intelligente per non capire che un conto è il fine un altro il mezzo. Che oggi la politica abbia forme e percorsi diversi è un dato di fatto inoppugnabile, ma che le finalità democratiche debbano essere le stesse non bisognerebbe minimamente discuterlo. Anche nei paesini di poche migliaia di abitanti ci sono giovani che con i social network riescono alle elezioni amministrative a prendere una caterva di voti; e sono giovani praticamente sconosciuti ai luoghi urbani, alla frequentazioni pubbliche, nascosti alla politica quale ancora si fa, attraverso incontri, convegni, conferenze e dibattiti. E, allora? Allora vuol dire che oggi bisogna prendere atto dei cambiamenti formali e strumentali, ma per perseguire le finalità di sempre, che durano dalle origini della democrazia.

Non bisogna farsi abbacinare dai piccoli o grandi cambiamenti e perdere di vista i piccoli o grandi traguardi dell’uomo politico, del cittadino. Questo correre dietro a Renzi, se per il sindaco Fassino ha una ragione politica, per l’uomo Fassino, culturalmente provveduto, non ha alcuna ragione etica. Il renzismo dilagante è un vero impazzimento diffuso. Lo svilire i valori della politica incomincia a diventare pratica demenziale. I valori non sono alimenti che scadono, possono perdere la loro brillantezza, la loro luce, per le inevitabili traversie della realtà, ma restano validi. Essi sono come la lampada di Aladino, rottami buttati in un angolo, ma basta che li strofini ed ecco che ritrovi i grandi desideri-bisogni della vita politica.

domenica 12 ottobre 2014

Non credere, non obbedire, mandare a strafottere


L’Italia sta diventando il paese dove nessuno più riconosce lo Stato, la legge, le gerarchie, i normali passaggi decisionali, inevitabili perché ogni organizzazione, pubblica o privata che sia, funzioni. Il fenomeno non risparmia neppure i militari. Il comandante della Capitaneria di Livorno Gregorio De Falco, diventato famoso per quel “qui comando io” nella disgraziata notte del naufragio della “Costa Concordia”, ha respinto il trasferimento ad altro compito ipotizzando un reato di mobbing.
Gli esempi più negativi ed eclatanti procedono dall’alto in basso. Il Parlamento non nomina i due giudici mancanti della Corte Costituzionale. Impotenza o deliberata riottosità? Mettiamola come vogliamo. I senatori, che ormai sanno di avere i giorni contati, si vendicano nei confronti di un’istituzione che nulla ha fatto per impedire l’abolizione del Senato.
Lo spettacolo offerto da importanti magistrati – vedi il caso della Procura di Milano – è indecoroso per le accuse reciproche e le reciproche delegittimazioni tra i procuratori-capo e i procuratori aggiunti. E dovrebbero essere loro i custodi della legge! Stanno dimostrando, essi giudici, di essere più colpevoli e più dannosi al paese dei loro giudicati.
Il Sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, ex magistrato, non accetta la condanna inflittagli per abuso d’ufficio, respinge la sospensione comminatagli dal Prefetto, continua a riunire la sua Giunta in un luogo più ameno e manda a strafottere tutti.
Il Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, dichiara di non voler obbedire alla politica estera nazionale, che in linea con l’Europa ha comminato sanzioni alla Russia di Putin, e dice che prenderà contatti direttamente con le autorità russe per riallacciare i rapporti economici con quel paese.
I sindaci di molte città italiane, tra cui Milano, Bologna, Roma, non intendono obbedire alle disposizioni dei Prefetti e del Ministero degli Interni in materia di trascrizione di matrimoni tra coppie omosessuali celebrati all’estero perché illegali per la legge italiana.
A Melendugno si parva licet – il Sindaco con qualche cavillo amministrativo blocca i lavori della Tap, un’importante opera strategica per la politica energetica nazionale, deliberati dal governo.
Ci sono zone di alcune città, come Napoli e Bari, dove i cittadini impediscono alla Polizia di catturare o solo identificare un pregiudicato. Il caso della sollevazione popolare a Napoli in seguito alla morte di quel giovane sullo scooter, che non si era fermato all’alt dei Carabinieri, è una delle pagine più eloquenti del discredito di cui gode lo Stato in alcune regioni italiane.
Alla disobbedienza, ormai diffusa come costume imperante, si aggiunge un continuo insultare il diretto superiore. Ormai il cittadino, a cui non piaccia una legge, si sente legittimato a non osservarla, a disobbedire, convinto che la sua disobbedienza basti a far abrogare quella legge. Non il contravventore della legge, dunque, deve essere punito, ma la legge. 
Sta venendo a mancare la base del Contratto Sociale, ipotizzato da filosofi e giuristi tra il Sei e il Settecento per tenere insieme il corpo sociale nell’ambito di un reciproco riconoscersi in un’autorità superiore. Il popolo – ma a questo punto è perfino improprio definirlo così – si è disgregato in un numero infinito di monadi che non riconoscono l’autorità dello Stato; lo Stato, da parte sua, non ha né la volontà né la forza di imporre il rispetto del Contratto. Chi dovrebbe dare l’esempio coi suoi comportamenti fa l’opposto, convincendo i cittadini di poter fare tutto quello che vogliono perché tutto è permesso, e se non permesso quanto meno concesso o graziosamente affrancato. Peggio: chi dovrebbe intervenire per far rispettare la legge non c’è; e dunque in assenza del guardiano tutto è a disposizione di tutti.
Di fronte alla situazione catastrofica che si sta delineando, non solo sotto il profilo economico-finanziario – questo è quotidianamente iperpropagandato e purtroppo pesantemente sentito – ma anche e soprattutto sotto il profilo culturale e sociale, invece di correre ai ripari si fa finta di niente. Si vive nell’indifferenza, se non in una reciproca ignoranza.
Renzi dice di voler cambiare l’Italia. Ma perché cambiare l’Italia, e non piuttosto gli italiani, immeritevoli assegnatari di un bene che andrebbe altrimenti gestito e vissuto? Per cambiare gli italiani, però, occorre quello che nessuno di loro vuole. Del resto, come li si può cambiare assecondandoli? Li si può cambiare usando esattamente il contrario di ciò che essi vogliono. Vogliono l’anarchia, l’impunibilità, il faccio quello che mi pare e piace? E allora, a questo punto, occorre la bacchetta! Sissignori, quella bacchetta invocata da Pier Paolo Pasolini nelle sue “Lettere Luterane”.
Come per altre situazioni, anche in questa, Pasolini seppe essere una formidabile spia di allarme fin da quarant’anni fa. Gli italiani vanno riportati nell’ordine nazionale e sociale; devono recuperare il senso dello Stato. Nessuno si spaventi per repressioni di massa, bastonature, incarcerazioni. Nessuno pensi a bibliche deportazioni. Non ce ne saranno. Gli italiani hanno dimostrato di essere docili e obbedienti ai primi colpi di bacchetta. L’italiano è uno che si uniforma all’anarchia come all’ordine, lesto e capacissimo di cambiare, passando da un regime all’altro, appena si accorge che è in atto il cambiamento.

Preoccupa, in una simile congiuntura, l’assenza degli intellettuali a lanciare l’allarme. Essi hanno trasformato una torre di vedetta in una torre d’avorio. La stretta economica e la crisi di rappresentanza politica stanno facendo passare in secondo ordine la vera emergenza nazionale, che è quella di un paese che ormai non si riconosce in niente e in nessuno.    

domenica 5 ottobre 2014

Berlusconi-Fitto, per quanto ci riguarda


Si possono dire tante cose di Berlusconi, ma non si può dire che si sia mai nascosto dietro una maschera. Certo, ha fatto di tutto per apparire gradevole, ricorrendo a tutti i trucchi delle apparenze tipiche degli uomini di spettacolo; ma il volto, il suo vero volto, quello di un Mastro don Gesualdo milanese, quello del padrone che fa e disfa, che invita e caccia, che dona e prende, che ride e fa ridere, che si diverte e fa divertire, che usa e getta, che con una mano fa finta di nascondere e con l’altra mostra, quello non lo ha mai nascosto. Perché per Berlusconi non c’è piacere, non c’è potere senza ostentazione.
Il guaio è che il suo volto non è più quello di una volta. Forse oggi la maschera se la dovrebbe proprio mettere, incollarsela, perché il suo volto di oggi è devastato dalle rughe di un invecchiamento malvagio, impietoso che rivela non solo l’età – a quella ancora può in qualche modo rimediare – ma soprattutto la natura intima, tra il grottesco e il tragico; e qui non può fare proprio niente. Grottesco, quando pensa a finalità giovanili e spera in ricandidature importanti, ed è un vecchio di ottant’anni, graziato dai suoi nemici solo perché serve a tenere in piedi la baracca di Napolitano-Renzi; tragico, perché pensa di poter rinascere mentre sta solamente morendo.
Quanto è accaduto all’Ufficio di Presidenza di Forza Italia giovedì, 2 ottobre, tra lui e Raffaele Fitto è la rappresentazione del suo vero stato di salute mentale e politica. E purtroppo non solo sua. La corte che gli sta attorno suscita, ormai da qualche tempo, quel pietoso rispetto che in genere si deve a dei poveri malati, straniti e spaesati, che hanno perso la via di casa e stanno, come si dice, più di là che di qua.
Aver attaccato Raffaele Fitto, uno dei suoi più votati leader politici, perché in dissenso dalla sua linea politica, ritenuta ambigua e suicida, con rozze e volgari minacce, non è da uomo assennato, da padre nobile, come lui ogni tanto dice di essere. Avere esplicitamente cacciato Fitto paragonandolo a Fini non sminuisce Fitto ma riabilita senza merito Fini e lo fa apparire quello che non è. Aver accusato Fitto di fargli perdere consenso nel paese con le sue critiche alla linea politica del partito, anfibia rispetto al governo Renzi, ha dimostrato solo che Forza Italia è un partito personale, che la politica che fa serve solo al suo padrone. Un padrone che, ormai prossimo alla fine, decide, come quell’altro personaggio verghiano, di portarsi con sé la sua roba.
Ha rimproverato a tutti di essere stati fedeli quando lui era il dominus assoluto e li faceva ministri ed uomini importanti, per abbandonarlo quando poi si è trovato in difficoltà, perseguitato e non più candidabile. Ecco, ancora una volta ammette di essere quello che i suoi nemici gli hanno sempre contestato: un despota! Ecco, ancora una volta dimostra di non capire che il partito non è un’azienda e che è perfettamente normale che ognuno persegua il proprio interesse nell’ambito del più ampio interesse del partito e del supremo interesse del paese. Che c’è di strano che un politico si preoccupi delle prospettive del partito a prescindere da quelle del capo, quando questi non è più nelle condizioni di guidarlo con successo? Un partito politico non è una comitiva di scapocchioni, leali e fedeli nei felici bagordi e leali e fedeli nelle tristi penitenze. Berlusconi non ha cultura politica: è digiuno per costituzione mentale come Marco Pannella lo è per calcolo e scelta.   
Fitto – e lo diciamo a prescindere se ha torto o ragione nella sua analisi e nei suoi calcoli – crede davvero che Forza Italia sia il suo partito e che la sua vita politica possa continuare in quel partito. La sua è una lealtà calcolata quanto si vuole, ma è lealtà. Forse, alla luce di quanto sta accadendo, incomincia a riconsiderare il suo più recente passato per giungere ad altre conclusioni; ma non v’è dubbio che al punto in cui è giunto non può pensare a Forza Italia come ad un porto dal quale salpare per allontanarsene così dall’oggi al domani.
Berlusconi lo ha chiamato “prete di Lecce”. Ché i preti di Milano sono diversi? Abbiamo visto chi sono i Gelmini e i Verzè. Berlusconi andrebbe silenziato per il suo bene, se continua di questo passo, altro che rivelazioni di pentiti!    
Ha rimproverato a Fitto di essere figlio di un vecchio democristiano, come se si può rimproverare a qualcuno di essere figlio del proprio genitore, sia pure politicamente parlando. Ma Salvatore Fitto, padre di Raffaele, aveva 47 anni quando morì di incidente stradale; democristiano sì, dunque, ma non vecchio, comunque volesse intenderlo Berlusconi. Ma anche qui l’ex cavaliere dimostra di essere incapace di dominarsi.
E’ forse figlio di nessuno lui? Può anche non avere riguardo per la dignità personale e per la morale pubblica – i Mastro don Gesualdo in genere non hanno né una cosa né l’altra – ma fa un torto a tanta gente che, sbagliando o costretta da un sistema elettorale bipartitico, ha avuto fiducia in lui e lo ha seguito per diversi anni; gente che alla dignità personale e alla morale pubblica tiene.
Lo scontro dell’altro giorno in Forza Italia, al di là dell’esito del voto sulla relazione di Berlusconi, con due soli voti contrari, Fitto e Capezzone, lascia il segno non solo e non tanto nel partito, ma soprattutto nell’elettorato di centrodestra.

In una stagione di riposizionamenti anche elettorali il Pd potrebbe catturare, tramite il renzismo, tanti moderati di Forza Italia e del fu PdL, e tramite le istanze sociali della sinistra tanti ex missini autenticamente convinti della bontà di una giusta politica sociale. Berlusconi rischia, con le sue stravaganti chimere, con le sue folli resistenze, di ricostruire – proprio lui! – la vecchia Democrazia Cristiana. E chissà che per lui non sia un ritorno alla pietosa grande madre Terra, dalla quale è uscito!