domenica 29 giugno 2014

L'Italia e i Mondiali, è fallito il calcio multiuso


Al Mondiale di Calcio è finita come doveva finire. Espulsi per non aver giocato. Giocare al calcio significa correre con la rabbia in corpo per buttare il pallone dentro la porta avversaria. Che lo butti dentro un nero o un bianco non conta nulla, l’importante è fare goal. Anche i più digiuni di calcio lo hanno capito dopo aver visto tante altre squadre nazionali giocare. Noi no; noi in campo passeggiavamo, camminavamo, incerti come chi, smarrito in una grande città, non sapesse orientarsi per trovare la strada di casa. 
Ma la miserrima fine degli Azzurri ha marcato l’ennesima débâcle nazionale, voglio dire dell’intera nazione. “Fuori dai Mondiali. Un caso nazionale” ha titolato in prima pagina il “Corriere della Sera” di mercoledì, 25 giugno, tradendo un retropensiero. Attraverso il calcio volevamo fare altro, probabilmente, con l’operazione Balotelli, esibire la nostra politica di integrazione. Di questo si è trattato. E’ inutile girarla: siamo rimasti vittime delle nostre storiche ipocrisie, della nostra incapacità di essere seri, moderatamente e criticamente aperti, senza spalancamenti o abbattimenti di porte.
Il simbolo di quest’ultima furbata andata a male s’incentra sul calciatore di colore più discusso della storia del calcio italiano. Doveva essere lui a far trionfare gli Azzurri; è stato lui a farci perdere la faccia: lui, la rappresentazione plastica dell’Italia multirazziale, multietnica, del Paese migliore del mondo in fatto di accoglienza.
La commistione calcio-politica era già prima. Nelle sigle della Rai create per i Mondiali i ragazzi e le ragazze che palleggiavano, piroettando, erano quasi tutti di colore, tutti con la maglia azzurra; sembrava che in Italia non ci fossero più bambini e ragazzi bianchi. Si dirà: nell’ideazione non erano italiani, erano brasiliani, come il Cristo Redentore in maglia azzurra dall’alto del Corcovado. Ma il messaggio era un altro: coi Mondiali di Calcio l’Italia voleva far passare l’immagine di un’Italia nuova, aperta al mondo, chiusa alla storia e alla tradizione nazionali. L’ostinatezza di puntare su un giocatore come Balotelli da parte del Commissario Tecnico Prandelli, in ciò sostenuto dalla grancassa mediatica, è la prova che non sempre veniva mandato in campo per ragioni tecniche. E’ stato riconosciuto dallo stesso Prandelli. Il quale dovrebbe dire a questo punto quali altri condizionamenti e quali altre pressioni ha subito e da chi per mettere in campo una squadra da marcia della pace o da escursione di boy-scout piuttosto che da calciatori degni di quattro titoli mondiali, di un titolo olimpico e di un titolo europeo. “Il fatto è – ha detto in una breve dichiarazione dopo la sconfitta col Costa Rica – che certe squadre quando giocano lo fanno con lo spirito nazionalista, che a noi è estraneo”. Questo ha detto il tecnico che non ha impiegato poi nemmeno un’ora a dimettersi dopo la figuraccia rimediata sul campo con l’Uruguay.  
Ma scaricare tutte le colpe su Balotelli, esibirlo a testa all’ingiù nel suo Piazzale Loreto, è ancor più indegno di ogni altra cosa detta e pensata. Non si può incolpare una persona per quello che è. Balotelli ha dimostrato di essere un talento calcistico autentico ma anche un soggetto labile, con grossi problemi di inserimento e di adattamento. Una persona del genere andava lasciata ai fatti suoi. Una squadra di calcio, a qualsiasi livello, non può essere un’équipe di assistenti sociali. A Balotelli si è chiesto quello che lui non poteva dare. Nemo dat quod non habet, dicevano i latini. Già, ma noi dobbiamo dimenticare anche i latini se veramente vogliamo diventare il Paese più aperto del mondo.
Cacciati dal Mondiale, tutti si sono scagliati contro questo giocatore che non ha lesinato, a sua volta, accuse all’Italia e agli Italiani. “Gli Africani – ha detto – stanno più avanti di voi Italiani veri. In Africa non si tradisce un fratello”. Non gli si può dare torto. L’orgoglio di appartenenza, come la classe, non è acqua. Almeno in questo bisogna dargli atto di una maturità invidiabile.
Ma in Italia è così e non è detto che per saperlo occorra conoscere la storia. Bastano episodi come una sconfitta al calcio perché certe verità emergano in tutta la loro bruttezza e crudezza. Non si era tutti entusiasti fascisti durante il fascismo; tutti ostinatamente antifascisti dopo? E non è accaduta la stessa cosa con comunisti e anticomunisti, democristiani e antidemocristiani, socialisti e antisocialisti, berlusconiani e antiberlusconiani? E non accadrà così con  renzismo e antirenzismo?
Aspettiamo, aspettiamo; e vedremo! Già tanti che erano ostili a Renzi, anche del suo stesso partito, ora gli stanno accanto, lo difendono, lo lodano, lo esaltano. Per cui le cose che dicono e che fanno non sono criticamente meditate, ma rispondono a pulsioni emotive di comodo immediato. Proprio come Prandelli, che in quattro anni non si è mai sognato di dire: signori, una squadra si fa per vincere, con criteri tecnici; ogni altro criterio deve rimanere fuori, se non mi consentite di fare il mio lavoro come ritengo giusto, tanti saluti e grazie. No, non l’ha mai detto, perché, tutto sommato, il modo conventuale di fare le cose in Italia finisce per deresponsabilizzare, per lavarsi le mani al momento opportuno.

Ha detto: il mio progetto tecnico è fallito. Sicuri che era un progetto tecnico? Quattro anni di conduzione della Nazionale hanno dimostrato che non ai risultati si mirava ma a qualcosa di più politico e sociale, di più pedagogico e moraleggiante. Se è così, allora, meno male che è fallito. Perché almeno così il calcio può tornare ad essere uno sport con tutta la sua fisicità e la sua eticità, ma soprattutto con la sua più immediata finalità, che è gareggiare con onore, nella consapevolezza che si può vincere o perdere, ma senza mai perdere la faccia o perdere per ragioni, anche nobili se vogliamo, ma estranee allo sport. 

domenica 22 giugno 2014

Vittorio Bodini, i luoghi, i tempi, la noia


E’ uscito per i tipi di Besa il romanzo incompiuto di Vittorio Bodini “Il fiore dell’amicizia”, riproposto così come Donato Valli lo pubblicò la prima volta sulla rivista della Banca Popolare Pugliese nel 1983, all’epoca Banca Popolare Sud Puglia, e arricchito della prefazione di Antonio Lucio Giannone.
E’ un testo problematico, non tanto per la sua incompiutezza quanto per i contenuti che vi ricorrono e che lasciano ipotizzare improbabili sviluppi. Opere simili vanno lette così come sono. Se l’autore non ha voluto riprendere il romanzo e portarlo a conclusione o addirittura distruggerlo vuol dire che gli andava bene così; che così aveva un senso. Fatti salvi, ovviamente, tutti quei perfezionamenti tecnici e stilistici che caratterizzano le opere pronte per la stampa e che ne “Il fiore dell’amicizia” mancano. Nella discorsività narrativa che caratterizza il testo l’autore trascura qua e là dettagli importanti, stilistici e sintattici, come rilevato da Valli. Lo stesso titolo non è dell’autore. Ma di chi? Non è specificato. Ricorre nel testo: «mi parve che in quella sua domanda i nostri rapporti avessero toccato un segno più umano […], si fosse timidamente affacciato il fiore dell’amicizia» (capitolo XII, p. 123). Il punto è: qual è il senso di quest’opera lasciata in tronco?
Il romanzo, dopo un approccio decisamente centrato sull’io narrante, si sposta sul gruppo di amici, che diventa il vero protagonista, e lì si spegne come lampada in esaurimento di olio al XIV capitolo, all’ingresso di una chiesa dove va a finire misteriosamente uno della comitiva, Ruggero, seguito e guardato da due suoi amici, uno dei quali è l’autore.
Improbabile che il lettore si chieda che cosa sarebbe mai potuto accadere in un ipotetico prosieguo, se non qualche altra ragazzata, come ormai la narrazione fa presagire trascinandosi stancamente negli ultimi capitoli. Non pare un percorso di formazione. Non c’è Bildung. Fuori da quel gruppo di amici il protagonista non sembra avere altri interessi; nessuna menzione alla sua attività culturale, che pure c’era; i rapporti con la famiglia pressoché ridotti a zero; nessuna prospettiva di vita. Erano anni in cui Bodini collaborava a “La Voce del Salento”, diretta dal nonno materno Pietro Marti, gli anni del suo futurismo. Interessi culturali che Bodini, giovane tra giovani”, teneva scrupolosamente fuori del gruppo. Rimprovera aspramente l’amico Albertino che aveva rivelato a Nelly che scriveva poesie: «Perché [le] hai detto questo? E’ uno stupido scherzo di cui potevi fare a meno» (p. 69).
C’è l’autocompiacimento di un’intelligenza superiore, di un giovane che sa di essere anche più bello e più fortunato (con le donne) degli altri, ammirato e rispettato dagli altri. Sottotraccia c’è il narcisismo di un dannunzianesimo epocale. A lui certe cose non potevano capitare! Non si considerava come gli altri. «Sapevo di non essere perfetto – dice – ma nel fondo di me trovavo la sicurezza che lo sarei diventato» (p. 127).
La stessa comitiva di amici in verità non costituisce un tutto organico; fra di loro non c’è intesa, nessuna finalità di vita. Più che di amicizia Bodini ritiene che si tratti di «alleanza, non più che questo in quel nostro paese dove la vita è una guerra e chi oggi ci è accanto lo è solo per un reciproco calcolo, finché non si presentino nuove circostanze» (p. 123). 
L’esaurimento narrativo del romanzo dipende dall’assenza di ideali, di interessi comuni. Si avverte un senso di vano e di vuoto, che anticipa l’horror vacui, con cui l’autore avrebbe definito il barocco. Lecce è un paese di avvocati, un paese in cui non c’è che il gioco per passare il tempo, tra pettegolezzi, malignità e piccole invidie; un paese dove domina la morale piccolo-borghese. Dove «Vi è una sola libertà di cui gli abitanti di L. sono realmente gelosi, ed è quella che esercitano nel chiuso delle pareti domestiche» (p. 107). In pieno regime fascista la politica, se pure intesa come partecipazione alle magnifiche sorti e progressive del Paese, sembra non esistere. «In generale alla gente la politica non importava proprio nulla» (p.124). Perfino i tumulti che scoppiavano qua e là in provincia non erano politica, «si trattava piuttosto di fame» (p. 124).
Il romanzo finisce proprio per mancanza di prospettiva; è asfittico e negli ultimi due capitoli si avvita senza sbocco. Viveva così la gioventù del tempo? E’ una lettura della realtà provinciale interessante se confrontata con quella che accreditava il regime come di una società mobilitata e tesa verso esiti grandiosi. Ma per Bodini non «Valeva la pena di mangiarsi l’anima per un governo lontano che non sapeva neanche che noi esistevamo, e per il quale tutta intera la nostra città non era altro  che un nome su una carta geografica» (p. 124).      
Per il fascismo c’è damnatio nominis assoluta: «partito che occupava allora il potere», «partito che si era impadronito del potere», «il giornale di quel partito», «partito al governo» e così via. Soprattutto l’espressione «partito che occupava allora il potere» fa pensare che la stesura del testo è posteriore al fascismo, dopo il 25 luglio del 1943. Giannone propende per il periodo 1942-1944, Valli per fine 1946 inizi 1947. Dettagli, importanti per critici e biografi.

La riproposizione odierna del romanzo rientra nelle iniziative editoriali per i cento anni della nascita di Bodini 1914-2014. Saranno pubblicati altri testi.

Renzi, perché tutti lo cercano, perché tutti lo vogliono


Non v’è dubbio alcuno che la crisi delle ideologie, la fine dei partiti e la perdita dei profili culturali di destra e di sinistra, nella confusione politica che ne è seguita hanno disorientato tutti, politici e analisti, anche quelli più attrezzati, i quali non hanno più punti di riferimento e si regolano come quegli artigiani che sprovvisti di metro valutano all’incirca. A volte, però, qualcuno pretende di essere preciso.
Angelo Panebianco sul “Corriere della Sera” di domenica, 15 giugno, è riuscito a ripetere due volte, in un breve editoriale, “Ma decidere non è una colpa”, che Matteo Renzi è «indiscutibilmente uomo di sinistra», «indubbiamente uomo di sinistra»; e lo ha dimostrato – dice Panebianco – con la redistribuzione dalla classe media ai ceti meno abbienti (gli ottanta euro) e con l’immigrazione.
Ma proprio su questi due temi c’è da discutere circa l’orientamento di Renzi. A mio avviso non è né di destra né di sinistra, è un qualunquista, anzi un neoqualunquista, dice e fa quello che all’istante gli torna comodo e utile. O Franza o Spagna finché si guadagna, correggendo un vecchio detto popolare.
Conferma questa mia opinione l’economista italo-americana Mariana Mazzucato, docente all’Università inglese di Sussex, autrice del recentissimo saggio “Lo Stato innovatore”, la quale, in un confronto col collega italiano Francesco Giavazzi, a “Otto e Mezzo” di Lilly Gruber, alla domanda se Renzi è un liberista o un socialdemocratico ha risposto che è un po’ dell’uno e un po’ dell’altro (16 giugno 2014).
Dispiace che un analista politico come Panebianco non abbia capito – o si sta convertendo? – che Matteo Renzi è solo un pragmatico furbacchione. Con gli ottanta euro, che non sono andati proprio ai morti di fame, a quelli cioè che percepiscono poco più di 500 euro di pensione al mese, ma a chi ha un reddito mensile sotto i 1.500 euro, Renzi ha compiuto il miracolo di avere il 40,8 % dei votanti, che lo stesso Panebianco su “Sette”, il settimanale del “Corriere della Sera” del 13 giugno, suggeriva di leggerlo con maggiore correttezza politica (“L’Italia impari a dare i numeri. Giusti”). Renzi si è comportato come l’ultimo discepolo di Achille Lauro, pur senza averlo mai avuto per maestro. Quanto all’immigrazione, Renzi è sulla scia di Prodi, Monti e Letta: vuole farsi “bello” agli occhi dell’Europa. Per carità, tutto legittimo, ma dedurre che da questi provvedimenti si vede che è un uomo «indiscutibilmente di sinistra» ne passa. 
Lo stesso Renzi, qualche tempo fa, nella prefazione al riedito libretto di Norberto Bobbio sull’essere di destra o di sinistra, ha scritto che oggi non ha alcun senso porsi simili differenziazioni, l’unica essendo oggi tra essere veloci o lenti.
Gli analisti sono costretti a prendere atto che oggi la realtà politica è avvolta da una cortina di fumo che impedisce qualsiasi distinzione e obbliga di navigare a vista. Al buio, che le vacche siano tante o sia una, non fa differenza alcuna, come non fa differenza il colore. Renzi oggi è di fatto il dominus della politica italiana proprio perché è stata azzerata la rosa dei venti. La vera meraviglia – starei per dire scandalo – è proprio questa: pur senza “occhi” vede benissimo al buio. Inutile ripetere tutte le ragioni di questo strano fenomeno: ne basta una: è espressione di un’operazione che con la democrazia tradizionale non ha niente a che fare. Nessuno ha un motivo, che sia uno, per avversarlo. Lo stesso Berlusconi ha fatto la campagna elettorale in suo favore, ostentando una paura esagerata che potesse vincere Grillo; e  lo stesso Grillo oggi bussa alla porta di Renzi, insieme alla Lega. Renzi, da quel “bombardino” che è (a Firenze chiamano così chi le spara grosse), mena vanto e dice: alcune settimane fa tutti mi trattavano come se avessi la peste, oggi tutti mi cercano e tutti mi vogliono.
Ma è lecito chiedersi: lo cercano e lo vogliono convinti della sua bontà o è solo un cambiamento di tattica? Come dire: visto e considerato che a fronteggiarlo non si busca niente, tanto vale farselo amico. O è vera la terza: hanno trovato il “fesso” da mettere alle stanghe.
I conti, evidentemente, se li sono fatti tutti male. Renzi vuole fare le riforme, ma come le vuole lui. Tanto di guadagnato se sono condivise dagli altri. In caso contrario, li mette alla porta tra insulti e sberleffi.
Sarà pure vero quello che gli ha detto Corradino Mineo, che si comporta come un autistico – e chissà che una qualche percentuale di autismo non ci sia davvero in lui – ma ciò non significa che non sia in grado di infliggere a tutti mortificazioni su mortificazioni. Finora gli è riuscito bene.  Mozart, secondo una certa tradizione, ripresa dal celebre film di Milos Forman, sembrava un mezzo idiota; ma quello che produsse nella sua breve esistenza è quanto di più geniale potesse creare un musicista. I politici italiani sono come Salieri: odiano il loro Mozart-Renzi, ma non possono non stargli dietro. Sperano di poter avere una parte nella scrittura della riforma elettorale, che potrebbe essere per il sistema e per alcuni dei suoi protagonisti una vera e propria messa da requiem.

In simile incerta situazione risulta davvero difficile per osservatori e analisti orientarsi nelle valutazioni e vedere in che direzione possano andare le nuove forme di organizzazione della competizione politica, legate evidentemente alla mamma di tutte le riforme. Appunto, quella elettorale.   

domenica 15 giugno 2014

Matteo Renzi e lo sciogliersi della neve


La neve sulla politica italiana incomincia a sciogliersi e qua e là appare quello che c’è sotto, il buono e il cattivo. Si vede quello che c’è sotto il grande consenso a Matteo Renzi, il leader uscito dal vuoto della politica. Emerge l’operazione che ha reso possibile la nascita del suo governo in un contesto di pressoché azzeramento delle posizioni di potere che in genere rendono credibile una democrazia. Tre sono i soggetti che si vedono: Europa, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il Partito democratico. Poi, il vuoto: zero sindacati, zero confindustria, zero chiesa, quasi zero politica, quasi zero stampa. Zero significa ciò che non c’è o non si vede. A parte gli scandali; ma quelli in Italia sono così alti che né neve né ghiacciai riescono a coprire.
Renzi è figlio di un’Europa, che tiene a non farlo sapere, di un Presidente della Repubblica sornione che sa che gli altri sanno della parte che ha avuto e se ne compiace, di un Partito democratico che ha sospeso il dibattito interno in attesa che la situazione apra verso nuove e più chiare direzioni.  Per questo appare come il personaggio più strano che la politica italiana abbia espresso in questi centocinquant’anni di storia unitaria. Difficile trovare qualcuno a cui somigli tra i numerosi leader politici italiani del passato. Non ha avuto finora vera conflittualità politica per saggiare le sue caratteristiche e le sue capacità. Forse somiglia un po’ a Mussolini per certo menefottismo e un po’ a Berlusconi per leggerezza di comportamenti. Vero è che la situazione politica dalla quale è emerso è assai strana. Da una madre strana non poteva uscire che un figlio strano.
E’ una stranezza che si è determinata progressivamente da tre anni in qua, da quando il Presidente Napolitano, messo alle strette da una crisi assai difficile della nostra democrazia, si è ricordato di essere un comunista, cresciuto alla scuola della più spregiudicata ideologia politica del Novecento e ha pensato bene di comportarsi di conseguenza. Napolitano, che aveva messo da parte l’arte ben appresa, vi ha fatto ricorso quando ha capito che coi metodi della democrazia tradizionale non sarebbe riuscito a raddrizzare la barca, che continuava ad imbarcare acqua. Così, bando alle formalità. L’importante è uscire dall’impasse. Se serve uno come Renzi, col suo fare da dittatorello mezzo boy-scout e mezzo travet,  va benissimo. Dopo si vedrà.
Si capisce meglio Matteo Renzi se si pensa a Enrico Letta. I due incarnano i relativi tipi e modi di far politica nel passaggio dall’uno all’altro di Napolitano: con Letta si era nella vecchia logica democratica, ossequiosa e rispettosa delle leggi scritte e non scritte, che non consentiva però di andare avanti, con Renzi in quella spregiudicata, al di fuori di ogni galateo, di passar sopra a tutto e a tutti e di procedere come uno schiacciasassi. 
Renzi non ha tardato a manifestarsi per quello che veramente è. Se ne accorse Enrico Letta ai tempi in cui era Presidente del Consiglio, quando da nuovo segretario del Pd quello in faccia gli rinnovava fiducia e alle spalle cercava il punto dove colpirlo meglio. Si disse allora che in fondo la politica è stata sempre così. Ora, però, è come un’escalation di modi inurbani e dispotici, accettati solo perché in Italia continua a farla da padrona la cortigianeria.
Gli esempi dell’arroganza di Renzi incominciano a non contarsi più. Tanto sono tanti! Il prof. Giorgio Orsoni, ex sindaco di Venezia, lo ha definito «superficiale e farisaico», dopo che, in seguito alla faccenda del Mose, si era visto abbandonato e misconosciuto da tutti, Renzi compreso, quasi fosse lo smemorato di Collegno, che, da quel che diceva, non si capiva chi fosse e da dove fosse giunto lì a Venezia a sedersi sullo scanno più alto della città dei Dogi.
Nel suo stesso partito, di cui è segretario nazionale – tradizione democristiana, non comunista, di ricoprire le due cariche di Presidente del consiglio e di segretario nazionale del partito di maggioranza – l’ex sindaco di Firenze è chiamato “dittatore”. Dopo la sostituzione di Corradino Mineo nella Commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama perché in dissenso con l’idea di Senato voluta da “Lui”, sempre nel suo stesso partito si parla di un nuovo “editto bulgaro”. Ricordiamo che l’altro editto bulgaro fu quello di Berlusconi contro il trio Biagi-Santoro-Luttazzi. Ben quattordici senatori del Pd si sono autosospesi per protesta. Renzi ha risposto con la consueta arroganza padronale oltre che con disinvolta “utile” ignoranza: «Non ho preso i voti che ho preso per lasciare il futuro del Paese nelle mani di Mineo». Linguaggio da basso mercato.
Anzitutto i voti non li ha presi lui. A certi livelli la forma è sostanza. In Italia si è votato per il Parlamento Europeo e non per Matteo Renzi; in secondo luogo il futuro del Paese è del Paese, non solo suo. Un vero leader democratico, come l’inglese Cameron, a proposito del voto europeo, ha scritto che chi ha votato alle Europee «lo ha fatto per scegliere il proprio parlamentare europeo» non altro (Corsera, 13 giugno 2014). E va bene che lo abbia detto in polemica con chi avrebbe già scelto il nuovo Presidente europeo in difformità dai trattati; ma il concetto è valido in sé. Sembra ovvio, ma qualcuno dovrebbe ricordarlo a Renzi. Se si lascia passare l’idea che il 25 maggio il popolo italiano ha votato per lui e non per eleggere il proprio rappresentante al Parlamento Europeo, allora veramente l’Italia non riuscirà mai a diventare un paese moderno e serio.

Ci sarebbe da chiedersi dove sia andata a finire quella coscienza democratica che ha caratterizzato il ventennio berlusconiano, che aveva nei girotondi, in MicroMega, nella magistratura, nella Costituzione, in tanta stampa democratica, la rappresentazione di una battaglia che poteva sembrare  eccessiva nei modi ma sicuramente nobile nei fini. Purtroppo di tutto questo, mentre la neve si scioglie, non si vede traccia; invece spuntano dai contorni sempre più chiari e vivaci ciò che resta dopo il passaggio di una grande mandria di pecore.

domenica 8 giugno 2014

Benedetto-Francesco, la strana diarchia


Gli ultimi due papi, Benedetto XVI e Francesco I, hanno posto alla chiesa cattolica una serie di problemi non di poco conto. Probabilmente gli storici di là da venire registreranno radicali cambiamenti nella nostra epoca, che noi avvertiamo soltanto come timori o speranze, a seconda dei punti di vista.
L’11 febbraio 2013 Benedetto XVI rinunciò al soglio pontificio e, benché qualcosa l’avesse fatta trapelare da tempo, il suo gesto colse il mondo di sorpresa; non così il Vaticano, in cui chi doveva sapere sapeva. Vedemmo tutti in televisione le gerarchie che ascoltavano la lettura delle  dimissioni papali come se stessero ascoltando un banalissimo Pater noster. Sapevano, sapevano!
Il primo problema è: Benedetto XVI rinunciò sua sponte o fu indotto o costretto? Porre la questione non significa di per sé essere favorevoli o contrari ad una di queste ipotesi. Chi è aduso a trattar di storia la questione se la deve porre, mettendo da parte le categorie politiche dell’immediato e ragionando sulla base di consuetudini millenarie e di testi non smentibili. Agostino, a cui non andava giù l’accusa al cristianesimo di essere stato causa della decadenza dell’impero romano la metteva sul generale e sosteneva che ogni forma di civitas terrena prima o poi rovina perché si discosta dal modello della Civitas Dei. Per questo la chiesa cristiana conforma la sua civitas a quella celeste: un solo Papa nella terrena perché un solo Dio nella celeste. Come Dio non può abbandonare, così neppure il Papa può. Si tratta di “verità” indiscutibili. Ma il Papa, in quanto uomo, può essere indotto o costretto a lasciare e dare l’impressione di averlo fatto spontaneamente e per il bene della Chiesa. Si dice per un verso che Benedetto XVI fosse vecchio, stanco, malato, deluso, incapace di far fronte ai tanti impegni e che perciò pensò bene di lasciare, per un altro che col suo gesto rivoluzionario ha compiuto la riforma iniziata da Paolo VI di svecchiamento della gerarchia ecclesiastica mettendo un limite di età: 75 anni ai vescovi, 80 ai cardinali, ad libitum il Papa. Paolo VI, infatti, introdusse l’ipotesi dimissioni papali nel diritto canonico.
Ma il Papa, benché pure vescovo e cardinale, è il Papa, è ciò che nessun altro è, per il quale non valgono le leggi che invece valgono per gli altri. Il Papa che lascia perché fisicamente o mentalmente incapace vuol dire che non ha una curia all’altezza della situazione per continuare la missione pastorale, che a volte anzi è riottosa e infedele. Chi insiste nell’incapacità di Benedetto XVI dichiara incapace la stessa Chiesa e per ragioni ben più gravi dell’insufficienza fisica o mentale del Papa.
Il secondo problema che si sta ponendo da qualche tempo, non si sa per ora quanto collegabile all’esercizio pontificio di Francesco I, è quale ruolo ha oggi nel Vaticano Benedetto XVI. Si sa che il Papa argentino non gode, dentro e fuori del Vaticano, degli entusiasmi coltivati ed esibiti dai mass media, per via di certi suoi comportamenti e di certe sue affermazioni. Se i progressisti ridono, i conservatori si preoccupano. «Dicono che io sia comunista – ha affermato di recente – ma io sto solo col Vangelo». Una risposta non innocente, perché non si può pensare che così dicendo non si sia reso conto di aver equiparato comunismo e Vangelo. Non a caso il comunista, marxista-leninista, ateo e materialista Dario Fo – così si pregia di qualificarsi – grida a pie’ sospinto che questo Papa è straordinario e affettuosamente lo chiama, come l’altro Francesco, lu Santu Jullare.
La scelta di campo del Papa ha aperto nella chiesa cattolica un fronte che diventa sempre più ampio. Ci si chiede: ma se il Papa rifiuta e combatte una società in cui ci sono i ricchi e ci sono i poveri, vorrebbe forse una società di soli poveri o una società di soli ricchi? La risposta è banale: il Papa dovrebbe non volere, ma prendere atto che la società è fatta di ricchi e di poveri e che i problemi degli uni e degli altri vengono affrontati in altra sede, con altri soggetti e con altri strumenti. Il Papa dovrebbe limitarsi a mitigare le sofferenze, quali esse siano e a chiunque toccassero. Invece Francesco I sembra preso da un delirio di onniscienza, mascherata da comportamenti umili e francescani. E meno male che, dopo un goffo iniziale tentativo di fare perfino l’esorcista, ha messo da parte il confronto diretto con Satana.  Di recente si è proposto come mediatore tra israeliani e palestinesi. Muore dall’esibirsi!
La Chiesa, di fronte alla deriva pauperistico-comunista, di pretto stampo sudamericano, incomincia a prendere le misure…forse! In un articolo apparso sul “Corriere della Sera” del 28 maggio scorso Vittorio Messori, rifacendosi ad uno studio di Stefano Violi, docente di diritto canonico presso le facoltà di Teologia di Bologna e di Lugano, sostiene che «Benedetto XVI non ha inteso rinunciare al munus petrinus, all’ufficio, al compito, cioè, che il Cristo stesso attribuì al capo degli apostoli e che è stato tramandato ai suoi successori. Il Papa ha inteso rinunciare solo al ministerium, cioè all’esercizio, all’amministrazione concreta di quell’ufficio» e conclude che ci sono due papi «chi dirige e insegna e chi prega e soffre, per tutti, ma anzitutto per sorreggere il confratello nell’ufficio pontificale quotidiano». Fuori dalle complicatissime questioni teologiche e giuridiche, par di capire che Benedetto XVI non abbia rinunciato ad essere papa, ma solo a fare il papa; di conseguenza il governo della Chiesa con compiti integrati è nelle mani dei due papi.  La qualcosa ci fa tornare al punto di partenza, e cioè al modello agostiniano della civitas celeste, per escludere che essa possa consistere nella diarchia Benedetto-Francesco.
Sta di fatto che sarebbe questa la tesi che una parte del mondo cattolico vorrebbe far passare. Il punto di domanda è: per quale ragione? Rassicurare i fedeli che non si riconoscono nel progressismo di Francesco I, con ciò tenendo unita la Chiesa? O avvisare Francesco I che c’è un’altra Chiesa, quella di Benedetto XVI, che in questa fase prega e soffre?

A corollario di simile poco appassionante questione c’è che la Chiesa rischia davvero con questi ultimi due papi di cadere nel disordine. Di recente, infatti, Papa Francesco non ha escluso che ci possano essere altri papi emeriti. A questo punto il Vaticano rischia davvero di trasformarsi in una sorta di Confraternita degli Emeriti, un ordine composto di papi in pensione. 

lunedì 2 giugno 2014

Fitto ha ragione, ma non sempre la ragione paga


L’attrito Fitto-Berlusconi data almeno da quando, dopo l’uscita dal Pdl di Alfano e compagni, piuttosto che scegliere Fitto a coordinare il partito a livello nazionale, scelta che era nelle cose per come erano maturate, Berlusconi scelse un certo Giovanni Toti, mascherandolo da consigliere personale. La scelta non fu felice, non tanto per la persona in sé, sulla quale comunque ci sarebbe da dire, quanto per il fatto che ad un politico navigato e importante, come Raffaele Fitto, Berlusconi avesse preferito ancora una volta, more solito, tirar fuori un altro coniglio dal cilindro, un altro senza quid. Una «decalcomania» ha detto Ernesto Galli Della Loggia (Corsera del 28 maggio). Solo per dire ancora: qui comando io. Ma il suo “qui comando io” aveva fatto omicidi del calibro di Casini, di Fini, di Alfano, stroncando ogni prospettiva di ricambio nel centro-destra. Fitto rischiava di fare la stessa fine.
Ma l’ex governatore della Puglia ed ex ministro della Repubblica non è tipo da farsi infilzare, per non dire che è più vecchio all’arte dello stesso Berlusconi. Appartiene ad una terra tanto ricca di caratteri, di cultura e di storia da avvertire il pericolo per tempo e per tempo trovare il modo per proseguire. Lealtà a Berlusconi, dunque, riconoscendolo leader indiscusso di Forza Italia. Che fosse un attestato furbesco, il suo, o una realistica presa d’atto, il comportamento di Fitto nella circostanza risultava saggio e realista.
Il risultato ottenuto alle Europee lo ha premiato, dimostrando di essere uno dei più forti leader della destra moderata italiana. I suoi “nemici” dicono che non sa parlare al Nord. Chiacchiere! Lo stesso si potrebbe dire di molti leader settentrionali, e non solo di Forza Italia, che non sanno parlare al Sud.
Ora Fitto sarebbe entrato in rotta di collisione con Berlusconi, ovvero coi suoi metodi dispotici di nominare i dirigenti del partito per prolungare la sua leadership. Fitto chiede primarie e chiede che i lavori dell'Ufficio di Presidenza si svolgano in streaming, ossia in pubblico. Cose normali, tanto normali che viene di dire: perché chiederle, non dovrebbero svolgersi così? Invece no. Secondo i commentatori politici dei grandi giornali circa il 75 % di quelli che contano oggi in Forza Italia è attestato sulle posizioni della trincea di Berlusconi e vuole che continui a comandare lui e come vuole lui.
I motivi di tanta ostinatezza sono i soliti: ci sono le elezioni, che potrebbero svolgersi a breve; non si fa così solo perché si è ottenuto un buon risultato elettorale; ci sono priorità come il ricompattamento del centro-destra e via di seguito con l’aggiunta anche di qualche “veleno”, come l’accusa a Fitto di voler spaccare il partito. Fitto per ora tiene duro; non sarebbe contro Berlusconi, sarebbe contro quelli che dietro Berlusconi si mettono per meglio difendere le proprie personali posizioni.
Che Raffaele Fitto abbia ragione non c’è alcun dubbio, posto che abbia un senso aver ragione in politica. In questo campo, infatti, conta l’utile, ossia il risultato più premiante, torto o ragione che si abbia. Se è vero che con lui, come dicono i giornali, c’è appena il 25 % dei dirigenti del partito, sarebbe sconveniente porsi nelle condizioni o di dover fare marcia indietro o di essere bastonato. In politica è sbagliato porre condizioni, specialmente quando si è in minoranza, salvo che uno non abbia deciso di rompere.
Fitto dovrebbe prima di tutto resistere nel partito, senza porre condizioni che poi non fosse in grado di ottenere; in secondo luogo non dovrebbe assecondare i giornali che esasperano ed enfatizzano il confronto parlando di scontri, di rotture, di disastri e di iperboli varie. Se ha agito prudentemente quando era “debole” – si fa per dire – ora che è “forte” dovrebbe agire altrettanto prudentemente; se no il risultato sarebbe paradossale: avrebbe ottenuto più dalla “debolezza” che dalla “forza”. E’ una regola antica, sempre rinnovata: mai abbattersi nella trista condizione, mai esaltarsi nella felice.
Berlusconi – come appare evidente anche ai ciechi della politica – ha tradito, ha giocato l’ultima partita elettorale a perdere, ha sconcertato il suo elettorato e spaventato gli italiani, gridando al lupo! al lupo! e offrendo a Renzi la vittoria su un piatto d’argento. Che in questo suo comportamento ci fosse la personalizzazione patologica del suo far politica, è certo: non vede altro dal se stesso. E pare che così voglia fare fino alla morte, s’intende politica. Come il Mazzarò verghiano colpisce il suo partito e grida: roba mia, vientene con me! E quei fessi che gli stanno accanto non l’hanno capito!
La partita di Fitto è difficile. Purtroppo non solo di Fitto. Dopo il riflusso di alcuni uomini importanti del centro-sinistra, come Emiliano e Vendola, sarebbe veramente una iattura se il Sud e la Puglia in particolare dovessero perdere un altro politico di spessore. Rischiamo di non avere più rappresentanza. Ovvio, quella vera!

Parole chiave: Fitto, Berlusconi, Forza Italia, Europee

domenica 1 giugno 2014

Renzi, il frutto di plastica della democrazia italiana


Le Elezioni Europee di domenica scorsa, 25 maggio, hanno dato un risultato incredibile. No, non mi riferisco allo strasuccesso del Pd (40,81 % - 31 seggi), né alla comica frenata del M5S (21,15 % - 17 seggi), né tanto meno al commiserevole contentino di Forza Italia (16,81 % - 13 seggi) né alle briciole del Nuovo centro destra (4,38 % - 3 seggi) né…né…né…ad altri più o meno pietosi, più o meno soddisfacenti risultati. Mi riferisco al fatto che – mi si passi la metafora – sul ramo di una pianta dal tronco rinsecchito e con gran parte dei rami secchi o semisecchi e spogli, è appeso, come in cima al palo di una cuccagna, un frutto bello, grosso, maturo da far venire l’acquolina in bocca. E’ il frutto del Pd, ovvero di Renzi, che ha fatto venire l’acquolina in bocca perfino a Fassina, a Bersani, a Cuperlo e a tutta la compagnia bella, che fino a ieri sperava che un colpo di vento buttasse giù quell’albero. Ma è un frutto di plastica!
La propaganda dei media, pronta sempre ad esaltare ogni risultato che faccia comodo all’establishment napolitanesco, tambureggia sullo straordinario senso di maturità della democrazia italiana. Il ragionamento è semplice: si sperava in un successo di Renzi e in una sconfitta di Grillo e tanto è stato. Che più? Ostellino sul “Corriere della Sera” ha avanzato qualche perplessità sul risultato e sul suo eroe, «un ragazzotto che se la cava bene a chiacchiere. Non ha altro da esibire; perciò fa dell’ottimismo della volontà la propria bandiera, spacciandola per programma politico» (28 maggio); ma è rara avis in un cra-cra nello stagno pieno di rane. Alcuni di quell’establishment sono contenti che finalmente Renzi è legittimato dal voto popolare, come se si fosse votato per eleggere il Capo del Governo e non invece 73 rappresentanti italiani al Parlamento Europeo. Renzi, invece, posticcio era e posticcio rimane fino ad elezione di merito contraria.
La situazione italiana si scopre grave appena si tenti una prospettiva. Ha votato appena il 57,22 % degli aventi diritto; una percentuale che è febbre alta nella temperatura corporea di un organismo elettorale malato e sofferente. Siamo stati ottimisti nell’indicare al di sotto del 65 % il profilo patologico della nazione (“Spagine” di domenica, 25 maggio).
Il risultato elettorale tuttavia è razionale. Se è accaduto vuol dire che così doveva accadere. La campagna elettorale, infatti, è stata deformata e circoscritta a tre protagonisti, dei quali uno, da premier e segretario di partito (Renzi), era su tutti gli schermi televisivi ventiquattr’ore su ventiquattro; l’altro, che doveva essere il suo antagonista naturale (Berlusconi), semplicemente “non c’era”, decaduto, smarrito, depresso, un uccello spelacchiato nella pània giudiziaria. Al suo posto c’era Grillo, un comico impazzito, ormai fuori di testa completamente, ubriaco di se stesso, delle sue manìe totalitarie: «non vinciamo, stravinciamo, prenderemo il cento per cento», «ormai stanno con noi Digos, Dia e Carabinieri». Deliri puri, tali considerati se nessuna mezza tacca di magistrato si è sentito in dovere di mandare appunto i Carabinieri o gli infermieri di un Pronto Soccorso, per prelevarlo e condurlo in un luogo di cura. In siffatte condizioni il risultato non poteva essere che quello che è stato.
Certo, ci sono gli errori, commessi e non solo negli ultimi tempi sia da Berlusconi che da Grillo. L’uno è come l’eroe ariostesco, continua a combattere e non si è accorto di essere già morto, in attesa solo di sepoltura. L’altro si è impelagato in un’avventura che non lascia intravvedere nessuna strada percorribile, stante la pervicacia di credere di poter veramente conquistare il potere da solo, e per di più democraticamente. Le sue follie evocatrici di Berlinguer sono solo trovate propagandistiche per accreditarsi presso un elettorato di sinistra. Un errore grave se si considera che il fenomeno Grillo si è dilatato grazie ad un elettorato di destra, scontento e deluso, ma pur sempre di destra. A votare il M5S nel 2013 erano stati molti ex missini ed ex aennisti, i quali questa volta hanno pensato bene di regolarsi di conseguenza dopo l’illusione dell’anno scorso.
Ora il corpo elettorale italiano deve ritrovare la condizione, prepararsi ad un confronto regolare per le prossime politiche: da una parte il centrosinistra, ormai rinnovato; salvo che a sinistra non s’inventino qualcosa per farsi male da soli. Dall’altra il centrodestra deve rinnovarsi pena la sua rovina. Le riserve egoistiche di Alfano e compagni non hanno davvero nessuna ragione. Quello che doveva essere l’inizio di un nuovo centrodestra rinnovato ed europeo si è rivelato in tutta la sua pochezza se in alleanza con l’Unione di Centro è riuscito a superare appena-appena la soglia di sbarramento. Tutti insieme a destra possono competere con l’avversario di sinistra.
Resta l’incognita del M5S, che, a questo punto dovrebbe incominciare ad istituzionalizzarsi, a trasformarsi cioè in partito che cerca con gli altri alleanze ed elaborazione dei programmi; o, al limite, a dividersi nelle sue due anime, di destra e di sinistra, per stare ognuna con lo schieramento più affine. Per questo è necessario  che il Movimento “uccida” i padri dai quali è stato messo al mondo: Grillo e Casaleggio. Il processo di avviamento al bipartitismo sarebbe così ricomposto; e l’Italia potrebbe essere o avviarsi ad essere un paese politicamente normale.

Fantapolitica? Forse. Ma ne abbiamo viste tante e tali in questi ultimi vent’anni che trovare il discrimine tra la fantasia e la realtà nella politica italiana è assai più difficile che ipotizzare la dissoluzione di un Movimento come quello di Grillo. Fini, Casini, Di Pietro: ou sont les neiges d’antan?