La neve sulla politica italiana
incomincia a sciogliersi e qua e là appare quello che c’è sotto, il buono e il
cattivo. Si vede quello che c’è sotto il grande consenso a Matteo Renzi, il leader
uscito dal vuoto della politica. Emerge l’operazione che ha reso possibile la
nascita del suo governo in un contesto di pressoché azzeramento delle posizioni
di potere che in genere rendono credibile una democrazia. Tre sono i soggetti
che si vedono: Europa, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il
Partito democratico. Poi, il vuoto: zero sindacati, zero confindustria, zero
chiesa, quasi zero politica, quasi zero stampa. Zero significa ciò che non c’è
o non si vede. A parte gli scandali; ma quelli in Italia sono così alti che né
neve né ghiacciai riescono a coprire.
Renzi è figlio di un’Europa, che
tiene a non farlo sapere, di un Presidente della Repubblica sornione che sa che
gli altri sanno della parte che ha avuto e se ne compiace, di un Partito
democratico che ha sospeso il dibattito interno in attesa che la situazione
apra verso nuove e più chiare direzioni.
Per questo appare come il personaggio più strano che la politica
italiana abbia espresso in questi centocinquant’anni di storia unitaria.
Difficile trovare qualcuno a cui somigli tra i numerosi leader politici
italiani del passato. Non ha avuto finora vera conflittualità politica per
saggiare le sue caratteristiche e le sue capacità. Forse somiglia un po’ a
Mussolini per certo menefottismo e un po’ a Berlusconi per leggerezza di
comportamenti. Vero è che la situazione politica dalla quale è emerso è assai
strana. Da una madre strana non poteva uscire che un figlio strano.
E’ una stranezza che si è
determinata progressivamente da tre anni in qua, da quando il Presidente
Napolitano, messo alle strette da una crisi assai difficile della nostra
democrazia, si è ricordato di essere un comunista, cresciuto alla scuola della
più spregiudicata ideologia politica del Novecento e ha pensato bene di
comportarsi di conseguenza. Napolitano, che aveva messo da parte l’arte ben
appresa, vi ha fatto ricorso quando ha capito che coi metodi della democrazia
tradizionale non sarebbe riuscito a raddrizzare la barca, che continuava ad
imbarcare acqua. Così, bando alle formalità. L’importante è uscire
dall’impasse. Se serve uno come Renzi, col suo fare da dittatorello mezzo boy-scout
e mezzo travet, va benissimo. Dopo si
vedrà.
Si capisce meglio Matteo Renzi se
si pensa a Enrico Letta. I due incarnano i relativi tipi e modi di far politica
nel passaggio dall’uno all’altro di Napolitano: con Letta si era nella vecchia
logica democratica, ossequiosa e rispettosa delle leggi scritte e non scritte,
che non consentiva però di andare avanti, con Renzi in quella spregiudicata, al
di fuori di ogni galateo, di passar sopra a tutto e a tutti e di procedere come
uno schiacciasassi.
Renzi non ha tardato a
manifestarsi per quello che veramente è. Se ne accorse Enrico Letta ai tempi in
cui era Presidente del Consiglio, quando da nuovo segretario del Pd quello in
faccia gli rinnovava fiducia e alle spalle cercava il punto dove colpirlo
meglio. Si disse allora che in fondo la politica è stata sempre così. Ora,
però, è come un’escalation di modi inurbani e dispotici, accettati solo perché
in Italia continua a farla da padrona la cortigianeria.
Gli esempi dell’arroganza di
Renzi incominciano a non contarsi più. Tanto sono tanti! Il prof. Giorgio
Orsoni, ex sindaco di Venezia, lo ha definito «superficiale e farisaico», dopo
che, in seguito alla faccenda del Mose, si era visto abbandonato e
misconosciuto da tutti, Renzi compreso, quasi fosse lo smemorato di Collegno,
che, da quel che diceva, non si capiva chi fosse e da dove fosse giunto lì a
Venezia a sedersi sullo scanno più alto della città dei Dogi.
Nel suo stesso partito, di cui è
segretario nazionale – tradizione democristiana, non comunista, di ricoprire le
due cariche di Presidente del consiglio e di segretario nazionale del partito
di maggioranza – l’ex sindaco di Firenze è chiamato “dittatore”. Dopo la
sostituzione di Corradino Mineo nella Commissione Affari Costituzionali di
Palazzo Madama perché in dissenso con l’idea di Senato voluta da “Lui”, sempre
nel suo stesso partito si parla di un nuovo “editto bulgaro”. Ricordiamo che
l’altro editto bulgaro fu quello di Berlusconi contro il trio
Biagi-Santoro-Luttazzi. Ben quattordici senatori del Pd si sono autosospesi per
protesta. Renzi ha risposto con la consueta arroganza padronale oltre che con
disinvolta “utile” ignoranza: «Non ho preso i voti che ho preso per lasciare il
futuro del Paese nelle mani di Mineo». Linguaggio da basso mercato.
Anzitutto i voti non li ha presi
lui. A certi livelli la forma è sostanza. In Italia si è votato per il
Parlamento Europeo e non per Matteo Renzi; in secondo luogo il futuro del Paese
è del Paese, non solo suo. Un vero leader democratico, come l’inglese Cameron,
a proposito del voto europeo, ha scritto che chi ha votato alle Europee «lo ha
fatto per scegliere il proprio parlamentare europeo» non altro (Corsera, 13
giugno 2014). E va bene che lo abbia detto in polemica con chi avrebbe già
scelto il nuovo Presidente europeo in difformità dai trattati; ma il concetto è
valido in sé. Sembra ovvio, ma qualcuno dovrebbe ricordarlo a Renzi. Se si
lascia passare l’idea che il 25 maggio il popolo italiano ha votato per lui e
non per eleggere il proprio rappresentante al Parlamento Europeo, allora
veramente l’Italia non riuscirà mai a diventare un paese moderno e serio.
Ci sarebbe da chiedersi dove sia
andata a finire quella coscienza democratica che ha caratterizzato il ventennio
berlusconiano, che aveva nei girotondi, in MicroMega, nella magistratura, nella
Costituzione, in tanta stampa democratica, la rappresentazione di una battaglia
che poteva sembrare eccessiva nei modi
ma sicuramente nobile nei fini. Purtroppo di tutto questo, mentre la neve si
scioglie, non si vede traccia; invece spuntano dai contorni sempre più chiari e
vivaci ciò che resta dopo il passaggio di una grande mandria di pecore.
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