E’ uscito per i tipi di Besa il
romanzo incompiuto di Vittorio Bodini “Il fiore dell’amicizia”, riproposto così
come Donato Valli lo pubblicò la prima volta sulla rivista della Banca Popolare
Pugliese nel 1983, all’epoca Banca Popolare Sud Puglia, e arricchito della
prefazione di Antonio Lucio Giannone.
E’ un testo problematico, non
tanto per la sua incompiutezza quanto per i contenuti che vi ricorrono e che
lasciano ipotizzare improbabili sviluppi. Opere simili vanno lette così come
sono. Se l’autore non ha voluto riprendere il romanzo e portarlo a conclusione
o addirittura distruggerlo vuol dire che gli andava bene così; che così aveva
un senso. Fatti salvi, ovviamente, tutti quei perfezionamenti tecnici e
stilistici che caratterizzano le opere pronte per la stampa e che ne “Il fiore
dell’amicizia” mancano. Nella discorsività narrativa che caratterizza il testo
l’autore trascura qua e là dettagli importanti, stilistici e sintattici, come
rilevato da Valli. Lo stesso titolo non è dell’autore. Ma di chi? Non è
specificato. Ricorre nel testo: «mi parve che in quella sua domanda i nostri
rapporti avessero toccato un segno più umano […], si fosse timidamente
affacciato il fiore dell’amicizia» (capitolo XII, p. 123). Il punto è: qual è
il senso di quest’opera lasciata in tronco?
Il romanzo, dopo un approccio
decisamente centrato sull’io narrante, si sposta sul gruppo di amici, che
diventa il vero protagonista, e lì si spegne come lampada in esaurimento di
olio al XIV capitolo, all’ingresso di una chiesa dove va a finire
misteriosamente uno della comitiva, Ruggero, seguito e guardato da due suoi
amici, uno dei quali è l’autore.
Improbabile che il lettore si
chieda che cosa sarebbe mai potuto accadere in un ipotetico prosieguo, se non
qualche altra ragazzata, come ormai la narrazione fa presagire trascinandosi
stancamente negli ultimi capitoli. Non pare un percorso di formazione. Non c’è Bildung. Fuori da quel gruppo di amici
il protagonista non sembra avere altri interessi; nessuna menzione alla sua
attività culturale, che pure c’era; i rapporti con la famiglia pressoché
ridotti a zero; nessuna prospettiva di vita. Erano anni in cui Bodini
collaborava a “La Voce
del Salento”, diretta dal nonno materno Pietro Marti, gli anni del suo
futurismo. Interessi culturali che Bodini, giovane tra giovani”, teneva
scrupolosamente fuori del gruppo. Rimprovera aspramente l’amico Albertino che
aveva rivelato a Nelly che scriveva poesie: «Perché [le] hai detto questo? E’
uno stupido scherzo di cui potevi fare a meno» (p. 69).
C’è l’autocompiacimento di
un’intelligenza superiore, di un giovane che sa di essere anche più bello e più
fortunato (con le donne) degli altri, ammirato e rispettato dagli altri.
Sottotraccia c’è il narcisismo di un dannunzianesimo epocale. A lui certe cose
non potevano capitare! Non si considerava come gli altri. «Sapevo di non essere
perfetto – dice – ma nel fondo di me trovavo la sicurezza che lo sarei
diventato» (p. 127).
La stessa comitiva di amici in
verità non costituisce un tutto organico; fra di loro non c’è intesa, nessuna
finalità di vita. Più che di amicizia Bodini ritiene che si tratti di
«alleanza, non più che questo in quel nostro paese dove la vita è una guerra e
chi oggi ci è accanto lo è solo per un reciproco calcolo, finché non si
presentino nuove circostanze» (p. 123).
L’esaurimento narrativo del
romanzo dipende dall’assenza di ideali, di interessi comuni. Si avverte un
senso di vano e di vuoto, che anticipa l’horror
vacui, con cui l’autore avrebbe definito il barocco. Lecce è un paese di
avvocati, un paese in cui non c’è che il gioco per passare il tempo, tra
pettegolezzi, malignità e piccole invidie; un paese dove domina la morale
piccolo-borghese. Dove «Vi è una sola libertà di cui gli abitanti di L. sono
realmente gelosi, ed è quella che esercitano nel chiuso delle pareti
domestiche» (p. 107). In pieno regime fascista la politica, se pure intesa come
partecipazione alle magnifiche sorti e progressive del Paese, sembra non
esistere. «In generale alla gente la politica non importava proprio nulla»
(p.124). Perfino i tumulti che scoppiavano qua e là in provincia non erano
politica, «si trattava piuttosto di fame» (p. 124).
Il romanzo finisce proprio per
mancanza di prospettiva; è asfittico e negli ultimi due capitoli si avvita
senza sbocco. Viveva così la gioventù del tempo? E’ una lettura della realtà
provinciale interessante se confrontata con quella che accreditava il regime
come di una società mobilitata e tesa verso esiti grandiosi. Ma per Bodini non
«Valeva la pena di mangiarsi l’anima per un governo lontano che non sapeva
neanche che noi esistevamo, e per il quale tutta intera la nostra città non era
altro che un nome su una carta
geografica» (p. 124).
Per il fascismo c’è damnatio nominis assoluta: «partito che
occupava allora il potere», «partito che si era impadronito del potere», «il
giornale di quel partito», «partito al governo» e così via. Soprattutto
l’espressione «partito che occupava allora il potere» fa pensare che la stesura
del testo è posteriore al fascismo, dopo il 25 luglio del 1943. Giannone
propende per il periodo 1942-1944, Valli per fine 1946 inizi 1947. Dettagli,
importanti per critici e biografi.
La riproposizione odierna del
romanzo rientra nelle iniziative editoriali per i cento anni della nascita di
Bodini 1914-2014. Saranno pubblicati altri testi.
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