domenica 22 giugno 2014

Vittorio Bodini, i luoghi, i tempi, la noia


E’ uscito per i tipi di Besa il romanzo incompiuto di Vittorio Bodini “Il fiore dell’amicizia”, riproposto così come Donato Valli lo pubblicò la prima volta sulla rivista della Banca Popolare Pugliese nel 1983, all’epoca Banca Popolare Sud Puglia, e arricchito della prefazione di Antonio Lucio Giannone.
E’ un testo problematico, non tanto per la sua incompiutezza quanto per i contenuti che vi ricorrono e che lasciano ipotizzare improbabili sviluppi. Opere simili vanno lette così come sono. Se l’autore non ha voluto riprendere il romanzo e portarlo a conclusione o addirittura distruggerlo vuol dire che gli andava bene così; che così aveva un senso. Fatti salvi, ovviamente, tutti quei perfezionamenti tecnici e stilistici che caratterizzano le opere pronte per la stampa e che ne “Il fiore dell’amicizia” mancano. Nella discorsività narrativa che caratterizza il testo l’autore trascura qua e là dettagli importanti, stilistici e sintattici, come rilevato da Valli. Lo stesso titolo non è dell’autore. Ma di chi? Non è specificato. Ricorre nel testo: «mi parve che in quella sua domanda i nostri rapporti avessero toccato un segno più umano […], si fosse timidamente affacciato il fiore dell’amicizia» (capitolo XII, p. 123). Il punto è: qual è il senso di quest’opera lasciata in tronco?
Il romanzo, dopo un approccio decisamente centrato sull’io narrante, si sposta sul gruppo di amici, che diventa il vero protagonista, e lì si spegne come lampada in esaurimento di olio al XIV capitolo, all’ingresso di una chiesa dove va a finire misteriosamente uno della comitiva, Ruggero, seguito e guardato da due suoi amici, uno dei quali è l’autore.
Improbabile che il lettore si chieda che cosa sarebbe mai potuto accadere in un ipotetico prosieguo, se non qualche altra ragazzata, come ormai la narrazione fa presagire trascinandosi stancamente negli ultimi capitoli. Non pare un percorso di formazione. Non c’è Bildung. Fuori da quel gruppo di amici il protagonista non sembra avere altri interessi; nessuna menzione alla sua attività culturale, che pure c’era; i rapporti con la famiglia pressoché ridotti a zero; nessuna prospettiva di vita. Erano anni in cui Bodini collaborava a “La Voce del Salento”, diretta dal nonno materno Pietro Marti, gli anni del suo futurismo. Interessi culturali che Bodini, giovane tra giovani”, teneva scrupolosamente fuori del gruppo. Rimprovera aspramente l’amico Albertino che aveva rivelato a Nelly che scriveva poesie: «Perché [le] hai detto questo? E’ uno stupido scherzo di cui potevi fare a meno» (p. 69).
C’è l’autocompiacimento di un’intelligenza superiore, di un giovane che sa di essere anche più bello e più fortunato (con le donne) degli altri, ammirato e rispettato dagli altri. Sottotraccia c’è il narcisismo di un dannunzianesimo epocale. A lui certe cose non potevano capitare! Non si considerava come gli altri. «Sapevo di non essere perfetto – dice – ma nel fondo di me trovavo la sicurezza che lo sarei diventato» (p. 127).
La stessa comitiva di amici in verità non costituisce un tutto organico; fra di loro non c’è intesa, nessuna finalità di vita. Più che di amicizia Bodini ritiene che si tratti di «alleanza, non più che questo in quel nostro paese dove la vita è una guerra e chi oggi ci è accanto lo è solo per un reciproco calcolo, finché non si presentino nuove circostanze» (p. 123). 
L’esaurimento narrativo del romanzo dipende dall’assenza di ideali, di interessi comuni. Si avverte un senso di vano e di vuoto, che anticipa l’horror vacui, con cui l’autore avrebbe definito il barocco. Lecce è un paese di avvocati, un paese in cui non c’è che il gioco per passare il tempo, tra pettegolezzi, malignità e piccole invidie; un paese dove domina la morale piccolo-borghese. Dove «Vi è una sola libertà di cui gli abitanti di L. sono realmente gelosi, ed è quella che esercitano nel chiuso delle pareti domestiche» (p. 107). In pieno regime fascista la politica, se pure intesa come partecipazione alle magnifiche sorti e progressive del Paese, sembra non esistere. «In generale alla gente la politica non importava proprio nulla» (p.124). Perfino i tumulti che scoppiavano qua e là in provincia non erano politica, «si trattava piuttosto di fame» (p. 124).
Il romanzo finisce proprio per mancanza di prospettiva; è asfittico e negli ultimi due capitoli si avvita senza sbocco. Viveva così la gioventù del tempo? E’ una lettura della realtà provinciale interessante se confrontata con quella che accreditava il regime come di una società mobilitata e tesa verso esiti grandiosi. Ma per Bodini non «Valeva la pena di mangiarsi l’anima per un governo lontano che non sapeva neanche che noi esistevamo, e per il quale tutta intera la nostra città non era altro  che un nome su una carta geografica» (p. 124).      
Per il fascismo c’è damnatio nominis assoluta: «partito che occupava allora il potere», «partito che si era impadronito del potere», «il giornale di quel partito», «partito al governo» e così via. Soprattutto l’espressione «partito che occupava allora il potere» fa pensare che la stesura del testo è posteriore al fascismo, dopo il 25 luglio del 1943. Giannone propende per il periodo 1942-1944, Valli per fine 1946 inizi 1947. Dettagli, importanti per critici e biografi.

La riproposizione odierna del romanzo rientra nelle iniziative editoriali per i cento anni della nascita di Bodini 1914-2014. Saranno pubblicati altri testi.

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