domenica 30 giugno 2013

Francisco Primero, el Caudillo de Dios


Qualcuno dovrebbe dire a Papa Francesco che essere il Pontefice della Chiesa di Roma non è esattamente come essere un aspirante caudillo in un paese dell’America Latina. Lo dico col massimo rispetto per i popoli sudamericani, in particolare per quello argentino, che per metà è di origine italiana.
Per come questo Papa si comporta sembra che abbia non poche difficoltà, fra cui la paura, tanta paura. Di che, non si capisce. Ci viene, però, in mente la fine di due papi degli ultimi tre; di Papa Luciani, morto in circostanze non chiare, e di Papa Ratzinger, dimissionario, o, come s’incomincia a sospettare, dimissionato. Egli parla di una potente lobby gay, che si aggira nei palazzi del Vaticano. Che lo abbia detto in privato, come ha tenuto a precisare padre Lombardi, suo portavoce, e non in pubblico conta poco: la verità non abbisogna di aggettivi. Anzi, la verità che si rivela a pochi – lo insegnava Gesù Cristo – è più forte di quella che si riserva a molti.
Vada che non vuole abitare nel Palazzo Apostolico, preferendo Santa Marta; vada per questo suo neofrancescanesimo che piace tanto anche come folklore; vada pure per il suo pauperismo che si traduce nel gesto plateale di lasciare la poltrona vuota ad un concerto musicale, peraltro programmato ai tempi di Benedetto XVI, perché lui – pare abbia detto – non vuole passare per un principe del Rinascimento. Ora, però, incomincia a fare discorsi meno passabili. Dire ai giovani, già sazi – e non da ora – di libertà: non abbiate timore di andare controcorrente, in pratica, disobbedite, è come farsi fomite di qualcosa che forse in Argentina o in qualsiasi altro paese del Sud America potrebbe starci, ma in Europa è come piantare l’albero di Pancho Villa a Piazza San Pietro. Altro che l’abbeverarsi dei cavalli dei cosacchi nelle fontane di quella piazza; qui siamo in presenza di un personaggio fuori tempo e fuori luogo, avendo egli scambiato il Pincio per la pampas.
I suoi estimatori cercano una pezza al giorno per giustificare affermazioni e comportamenti, ma questo lavoro di vulcanizzazione incomincia a diventare sempre meno sostenibile.
Partiamo dal suo francescanesimo. Lo sa Papa Bergoglio che se la Chiesa fosse stata quella di Francesco d’Assisi sarebbe finita mille anni fa? Lo sa che per la Chiesa come lui la intende non c’è futuro alcuno? E che una Chiesa in crisi è preferibile ad una chiesa che non esiste? La prima, infatti, può sempre riprendersi, la seconda no. Io credo che la Chiesa debba incominciare a preoccuparsi di questo commissario liquidatore. Il quale, dietro il fuoco pirotecnico di dichiarazioni ad effetto, con metafore da parroco di campagna – per fortuna, non siamo ancora a Papa Galeazzo – nasconde i veri problemi della Chiesa di oggi.
La Chiesa oggi deve rispondere ad una serie di domande provenienti da individui che sono cristiani e che tali vogliono rimanere senza regredire a Francesco d’Assisi o a Jacopone da Todi. Cristiani alle prese con problemi che nel medioevo di Papa Francesco non si ponevano proprio. Risposte sulla fede, sulla vita, sulla famiglia, sulla società, sui comportamenti individuali, su come rispettare i dieci comandamenti di Dio in una società postmoderna.
Su questi problemi Papa Francesco tace; direi, colpevolmente. Avrà pure letto Dante! Conoscerà i canti del Paradiso (XI-XII) in cui un domenicano, San Tommaso, fa l’elogio di San Francesco, e un francescano, Bonaventura da Bagnoregio  fa l’elogio di San Domenico, per sostenere che Dio “a sua sposa soccorse / con due campioni, al cui fare, al cui dire / lo popolo disviato si raccorse”! La Chiesa, nei suoi momenti di crisi, ha avuto ed ha bisogno dell’esempio sia della spiritualità di San Francesco sia dell’intelligenza di San Domenico. 
Un cristiano può divorziare continuando a credere nel suo Dio? Può scegliere di avere un fine-vita assistito se dovesse cadere in uno stato di coma irreversibile? Può usare precauzioni nei rapporti sessuali per non contagiarsi? Può ricorrere ai ritrovati della scienza per la procreazione quando essa non è procurata da modalità tradizionali? Può ricorrere all’interruzione di gravidanza quando questa comporta danni alla salute e all’esistenza di madre e figlio? Può un sacerdote sposarsi per evitare o comunque ridurre il fenomeno della pedofilia? Possono due omosessuali convivere e continuare ad essere cristiani?

E’ a queste domande che la Chiesa deve dare risposte, perché è per queste problematiche che molti si sono allontanati da essa e continuano ad allontanarsi. L’insistenza sulla povertà davvero è uno sproposito quando non è fatta nell’ambito della carità e dei provvedimenti per ridurla. Farla passare addirittura per un bene grida vendetta al cospetto di Dio. Povertà significa sofferenza e Dio non può volere che gli uomini soffrano. L’aspirazione di Papa Francesco non sembra essere la salvezza della Chiesa, da lui disprezzata per come essa si è finora proposta, ma una sorta di ruolo da caudillo, sia pure de Dios, fatto di atteggiamenti populistici e demagogici, del tutto privi di finalità pratiche e caratterizzati da un estetismo affettatamente sciatto.

martedì 25 giugno 2013

Berlusconi: per chi suona la sentenza


Di fronte alla condanna di Berlusconi a sette anni di carcere e alla interdizione perpetua dai pubblici uffici, la reazione degli italiani è stata radicale: da una parte i soliti nemici di Berlusconi, che hanno gioito perché giustizia è stata finalmente fatta; dall’altra i soliti suoi amici, che hanno strillato per l’ennesima condanna immotivata di una magistratura che opera in concorso esterno in associazione politica. Gli uni ideologicamente domiciliati in giornali come “la Repubblica”, “il Fatto quotidiano”, “L’Unità”, “Il Manifesto”; gli altri ne “il Giornale” e in “Libero”. Considerati questi giornali come moschee, nel senso che quello che dicono è la voce del profeta.
Personalmente vivo anche questa vicenda in maniera problematica. Leggo abitualmente il “Corriere della Sera” e mi trovo in buona compagnia dei Battista, dei Franco, dei Romano, dei Panebianco, dei Galli Della Loggia, degli Ostellino e via di seguito, pur non condividendo con questi signori né la condizione né le ragioni della criticità berlusconiana. Non la condizione, per il fatto che non mi ritengo un liberale; non le ragioni, perché non ho le loro stesse preoccupazioni, che sono legate alla sorte del governo Letta. Vengo dal Msi e ho vissuto il bipolarismo, che mi ha costretto a stare con Berlusconi, con sofferenza. Realisticamente e coerentemente non potevo non riconoscermi che nel polo di destra. Montanelli si turava il naso e votava Democrazia Cristiana. Beato lui, che poteva poi liberare il naso e poter respirare. Io non mi sono turato niente perché non sono mai stato un campione di apnea e la puzza diffusa era tale che non trovavo un luogo dove poter respirare senza ammorbarmi. Non pochi ex del Msi si sono rivelati più carogne dei berlusconiani. Stare sull’altra sponda, la rive gauche, per carità, mi avrebbe fatto sentire un sopravvissuto in territorio nemico più di quanto non lo fossi già.
Con Berlusconi tuttavia ce l’ho in maniera particolare per quell’essere ignobile che è stato, avendo trascinato nel ridicolo e nel vergognoso tutto un popolo, che nella sua parte politica si è riconosciuto per vent’anni, pur con dei distinguo. Sicché ero e sono convinto che le accuse che gli sono state mosse e per le quali è stato condannato sono vere. E’ politicamente e moralmente condannabile perché, quand’anche risultasse innocente o addirittura fosse innocente, si è tuttavia messo nelle condizioni di essere accusato. Da questo punto di vista non si è mai sufficientemente talebani.
Come suo detrattore di destra non posso perciò che gioire, pregustando anche la sua definitiva uscita di scena, che consentirebbe una rinascita della destra su altre basi politiche ed etiche. Si spera sempre che ogni sconfitta sia l’inizio di una vittoria. Sono così contento della sua condanna che la vivo come una vendetta, direi giusta vendetta.
Ma, ecco, il dubbio che come vendetta possa essere nata anche nella mente dei giudici che hanno emesso la sentenza di condanna mi indigna come cittadino di un paese che ormai deve fare i conti con una magistratura che è parte tra le parti politiche. Ma se ho detto di essere convinto della colpevolezza di Berlusconi, perché ora non riconosco la stessa convinzione nei giudici che lo hanno condannato? Sono forse incoerente, contraddittorio? Non riconosco agli altri ciò che riconosco a me? Nient’affatto. Un cittadino può convincersi della colpevolezza di un imputato ed emettere una sentenza di condanna nei suoi confronti senza avere prove. Il cittadino non istruisce processi, non sente testimoni, non valuta documenti. La sua convinzione di colpevolezza gli deriva da quel che legge, da quel che sente, dal suo senso critico; la sua verità non ha bisogno di prove. Diceva Pasolini: io so perché sono un intellettuale. Ma i giudici devono condannare o assolvere, a prescindere dalle loro convinzioni personali, sulla base di prove. La verità giudiziaria è una verità basata sugli atti processuali. E’ lo Stato di diritto, è lo spirito della giustizia. Se il giudice assolve o condanna senza prove sufficienti, sulla base di convinzioni diffuse o peggio ancora sotto le pressioni di un’opinione pubblica avversa all’imputato, viene meno al più elementare dei suoi doveri. Il giudice ideale è quello che, pur convinto della colpevolezza, assolve perché non ha le prove per condannare.
Il dubbio che Berlusconi sia riuscito anche questa volta a costruire un castello di prove a suo discarico è legittimo che lo abbiano il cittadino e il giudice, ma cittadino e giudice hanno doveri diversi. Il giudice non può dire: non ci sono le prove perché Berlusconi ha tanti soldi da pagare i migliori avvocati e da corrompere decine di testimoni, ma io sono il giudice e lo condanno lo stesso. 

Se questo è avvenuto nella sentenza di condanna ad personam, per colpire un “impunito” o peggio ancora per colpire la parte politica che rappresenta, è un fatto estremamente grave che non potrà non avere conseguenze altrettanto gravi.     

domenica 23 giugno 2013

La politica tra usa e getta e vintage


E’ tipico dei periodi di crisi e di torbidi il nascere e morire di iniziative politiche dopo breve e più o meno sfortunata esistenza. Da qualche tempo assistiamo allo spettacolo indecoroso del Movimento 5 Stelle, con tanti inutili parlamentari, divisi non da scelte politiche ma da questioni che sarebbe assai più bello tacere, come il trattenimento in parte o in tutto dello stipendio da parlamentare o, in tempi più recenti, l’espulsione di qualcuno che ha osato criticare Manitù-Grillo. Ma qui c’era poco da scomodare Nostradamus, era tutto chiaro fin dall’inizio. Non ha visto chi non ha voluto vedere, come gli occhiuti de “Il Fatto Quotidiano”, che dal Movimento di Grillo s’aspettavano chissà quale rigenerazione nazionale.   
La scelta civica di Monti sembrava più resistente, ma ha fatto anch’essa una brutta fine, annunciata dal risicato dieci per cento che le aveva consentito di avere quattro gatti alla Camera e al Senato. In tutte le partite successive al voto di febbraio non è entrata mai in gioco. Irrilevante per l’elezione del Presidente della Repubblica, altrettanto per la maggioranza parlamentare, benché coinvolta nel governo con una sua rappresentanza. Incredibile il crollo d’immagine di Monti, l’uomo che da anni era un po’ il fiore all’occhiello dell’Italia in Europa e sembrava destinato ad una carriera epocale. Ora il divorzio formale: l’Udc di Casini lascia Scelta civica. Si sono accorti che i due insieme non fanno uno. Meglio, perciò, che ognuno se ne stia a casa sua, avendo scoperto che lo stato di casa propria è da preferire a convivenze difficili e soprattutto inutili. Fini era stato già mandato a casa dall’elettorato, che qualche volta sa prendere decisioni assai meglio e prima dei politici.
Ovvio che tutti sperino di tornare. Del resto il governo Letta, cosiddetto di servizio, è a termine; diciotto mesi – dicono – e poi di nuovo le grandi speranze di cambiare l’Italia con una nuova legge elettorale. Se riusciranno a farla!
E proprio nel mercato politico dell’usa e getta tutti si danno da fare per non farsi trovare impreparati all’appuntamento elettorale. I mesi che restano di qui alla scadenza governativa si caratterizzano per le trovate partitiche dei nuovi prodotti. Anche i due partiti che oggi sembrano solidi nella loro struttura, Pd e Pdl, in realtà si stanno ripensando.
Il Pd, rinfrancato dalle Amministrative di Maggio-Giugno, vinte 16 a 0, da Sondrio a Catania, come orgogliosamente ripete Bersani, gode di una bonaccia. Ma coi tempi che corrono sarebbe un errore considerare durevole una condizione provvisoria. E’ possibile che il partito si spacchi al prossimo congresso, che le sue due componenti, ex Pci ed ex Dc, prendano la strada, anch’esse, del ritorno a casa. Una casa ristrutturata, evidentemente, con nuovi servizi e nuovo arredo, dove è possibile anche confrontarsi e perfino litigare ma con la consapevolezza di appartenere ad una stessa famiglia.
La Destra punta tutto sul vintage, ossia sulla riproposizione di quei valori e di quelle promesse che vent’anni fa le consentirono di conquistare il potere politico. Il Pdl pensa di tornare da dove era partito, da Forza Italia, nella speranza di esorcizzare il tempo passato. Ma più verosimilmente pensa già al dopo Berlusconi. Non è improbabile che chi spera di liberarsi di lui, comunque accada, stia più dentro che fuori la Destra.
La convivenza coi vecchi missini, benché aennizzati, non è stata molto felice. Ha creato problemi, ben oltre la doppiezza e l’inaffidabilità di Fini. Lo si vede anche in periferia, nei piccoli comuni, dove ancora le due componenti non s’intendono, mentre – a dire il vero – la promessa di dare un esempio di onestà amministrativa e di pulizia, che era la cifra storica degli eredi di Almirante, si è risolta in una Waterloo vergognosa. Basti pensare a quanto è accaduto a Roma, a livello comunale e regionale. Alemanno e la Polverini, che sembravano due campioni della Destra pulita e ordinata, si sono lasciati irretire dagli interessi di un elettorato becero e cialtrone. Ora un po’ dappertutto nascono iniziative per chiedersi che tipo di Destra ripensare, come chiamarla per farla apparire diversa, per proporla ad un elettorato che forse non c’è più.
Il tentativo di Fratelli d’Italia è sostanzialmente fallito. Mancano le idee forza, le parole d’ordine, la cultura di riferimento e soprattutto prove concrete di capacità di intercettare i bisogni della gente e di tradurli in soluzioni a breve e a lungo termine. Forse le idee più nuove stanno nei gruppuscoli, tipo Casa Pound, ma questi non hanno l’organizzazione adeguata a farsi largo in un elettorato deluso ma non ancora smarrito del tutto, che crede di più nella grande forza trainante piuttosto che nel piccolo e coraggioso movimento.

Oggi, comunque, a destra si torna a discutere. E’ sicuramente importante; ma potrebbe non bastare. 

domenica 16 giugno 2013

Letta, dalla crisi altra crisi


Lo sfascio, atteso, preconizzato, del Movimento 5 Stelle, ha scazzicato Bersani e i suoi seguaci. Quanti siano non si sa, ma ora parlano apertamente di probabile governo di cambiamento. Il che significa che ormai nel governo Letta “si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, per dirla con Ungaretti. In verità oggi la politica è assai meglio spiegabile con la poesia. Tutto cambia nel volgere di poche settimane. Grillo, grillini e grilleschi sono stati trafitti da un raggio di sole ed è stata subito sera (Quasimodo). Chiamo grilleschi quei giornalisti che hanno creato il mito di Grillo, senza essere grillini, propagandandone il verbo, giustificandone tutto, come se il comico genovese fosse davvero quello che Fico, neo-presidente della Commissione Rai, va dicendo: Grillo è patrimonio dell’umanità. Ma vaffanculo!
Torniamo a ragionare di politica, che è meglio. Difficile ipotizzare scenari con una realtà che muta direzione e velocità come un ghepardo dietro la preda. Chiedersi dove si potrebbe andare non è solo un gioco. Aiuta a ragionare sulle cose possibili.
Primo scenario. Un sufficiente numero di grillini potrebbe lasciare il Movimento e dirsi disposto a nuove ipotesi di governo insieme a Pd e Sel di Nichi Vendola. Il Pdl – o come canchero potrebbe ri-chiamarsi – toglierebbe la fiducia al governo Letta facendolo cadere. Le due ipotesi potrebbero avere successione diversa, prima l’una e poi l’altra di conseguenza, ma il risultato sarebbe lo stresso. Se così accadesse, votare non si potrebbe votare con la legge attuale. Nascerebbe, a questo punto, il governo di cambiamento, presieduto pour cause da Bersani. Il quale, in un’intervista apparsa sul “Corriere della Sera” (15 giugno), ha detto: “Oggi abbiamo un governo di servizio. Lo sosteniamo e lo sosterremo. Vi abbiamo impegnato i nostri migliori esponenti. Ma è compito di tutti noi tenere viva la prospettiva di un governo di cambiamento…Stavolta staccare la spina non comporta automaticamente andare a votare”. Questi però sono i classici conti senza l’oste, anzi senza gli osti. Nel Pd, infatti, gli osti sono più degli avventori in osteria. Non a caso Bersani ha detto che “al prossimo congresso ragioniamo su cos’è un partito, cos’è una democrazia”. Evidentemente nel Pd non lo sanno ancora. Quando si dice l’ostinatezza! In Italia l’albero della democrazia dà questi frutti, non altri. Da politico – non da missionario in partibus infidelium – Bersani, che è uomo onesto e intelligente, dovrebbe abituarsi a modellare la creta che ha. 
Un altro scenario potrebbe essere questo. Il governo Letta appronta una legge elettorale, magari il Mattarellum modificato, perché così com’è non piace al Pdl. Allora si andrebbe a nuove elezioni, magari in autunno o all’inizio di primavera del 2014. Il centrodestra si riproporrebbe di “nuovo vestito”, anzi di vecchio, con l’usato sicuro di “Forza Italia” o con qualcos’altro come “Via col vento”. Il Pd si scinderebbe tra le due anime, democristiana e comunista. Sarebbe la cosa migliore. Lo dice pure Cacciari. L’una tenterebbe il Centro, vecchio pallino di Casini, magari con qualche rimasuglio riciclato, tipo Fini, che prima o poi tornerà. Oh, se tornerà! L’altra si metterebbe a guidare la galassia che è sempre stata la sinistra, incasinata dai nuovi arrivati, fra cui Ingroia, che ancora non si vergogna di essere tre volte fallito: come giudice, come politico e come cittadino. Quale potrebbe essere l’esito lo sa solo il Signore.
Per come si stanno mettendo le cose è impensabile che si facciano quelle riforme istituzionali invocate; che vengano adottati quei provvedimenti strutturali per favorire l’occupazione giovanile e per restituire efficienza allo stato sociale ormai diventato un guscio vuoto.
La spesa pubblica, criminalizzata per non criminalizzare ladri e corruttori, non consente più quei servizi essenziali che hanno caratterizzato il Paese fino agli anni Ottanta del secolo passato. Gli ospedali sono cattedrali nel deserto, spogliati di interi reparti; le carceri, per non farle scoppiare, vengono svuotate senza preoccupazione alcuna di restituire alla società circa sessantamila soggetti pericolosi; le scuole continueranno a non avere né personale né strutture adeguati. Non meno gravi i servizi degli enti regionali e comunali.

Il Paese continuerà a soffrire nella recessione sempre più grave, con esiti, anch’essi preoccupanti e dai risvolti imprevedibili. Il rincrudelirsi della violenza, ormai diffusa ad ogni livello, con quotidiani assassinii sempre più facili e per futili motivi, è provocato da uno stato di sofferenza sociale che trova sfogo nel gesto disperato e folle. Mariti che ammazzano moglie e figli, figli che ammazzano la mamma, persone che si danno fuoco, s’impiccano o si gettano dalla finestra è ormai il lugubre notiziario giornaliero. E si dice che ancora non stiamo a niente!

mercoledì 12 giugno 2013

Francesco piace alle sinistre perché è un non-Papa


Perché Papa Francesco piace tanto alle sinistre? In un primo momento ho pensato alla sua duplice appartenenza ad una famiglia di poveri emigranti italiani dell’Ottocento e ad un continente povero. Poi ho pensato al suo populismo, fatto di calore e vicinanza ai malati, ai bambini, ai sofferenti; e soprattutto di ostentato rifiuto del Palazzo e dei suoi privilegi. Insomma, per il suo porsi in discontinuità coi papi che lo hanno preceduto. Quel suo esordio, “buonasera”, dopo una pausa quasi imbarazzante, esaltato dai media fino all’inverosimile, tradiva un forte imbarazzo, tipico del “come comincio”, che tanto ha angustiato generazioni e generazioni di studenti davanti alla traccia di un tema. Tutto ciò non mi convinceva del tutto. Doveva esserci altro, qualcosa che lì per lì mi sfuggiva.
Finora Papa Francesco non ha mai fatto trapelare nulla di nuovo sui cosiddetti valori cristiani non negoziabili, come li definiva Benedetto XVI. Nulla sull’aborto, nulla sul divorzio, nulla sul  sacerdozio delle donne, nulla sul celibato dei preti, nulla sull’uso di anticoncezionali, nulla sul testamento biologico, nulla sul matrimonio gay, nulla sulla procreazione assistita, nulla di nulla. Eppure piace alle sinistre, le stesse che su queste problematiche hanno scatenato una guerra feroce sul povero Papa Ratzinger, ribattezzato Papa Pazzingher, inducendolo a rassegnare le dimissioni.  
Poi, finalmente, l’illuminazione. Come non pensarci prima? Piace perché non fa il Papa, Francesco è un non-Papa. La sua teologia della nonna, metaforicamente declinata ora col sudario che non ha tasche, ora col funerale mai seguito da un carro traslochi, ora con San Pietro che non aveva conti in banca e pagava le tasse col pesce che andava a pescare, non può essere linguaggio di papa. Il quale ha sì a cuore i poveri, ma non può predicare la povertà come un bene, mentre la gente si uccide perché non ha lavoro e perciò neppure i beni di sostentamento minimi per sé e i propri cari.
E se tutti quelli che danno l’8 per mille alla chiesa cattolica lo prendessero in parola? Se la chiesa di Francesco fa l’elogio della povertà, Francesco non ha che da dire pubblicamente: signori contribuenti, l’8 per mille datelo a chi volete, non alla mia chiesa, a cui i soldi fanno schifo.
Un giorno dice che il politicamente corretto è il linguaggio degli ipocriti e dei corruttori e che tutti gli uomini dovrebbero esprimersi con la semplicità dei bambini. Ma il giorno successivo dice che i cattolici devono “immischiarsi nella politica” per portare con la loro presenza i valori cristiani. Sono messaggi enfatizzati dai media, come se contenessero chissà quale pensiero straordinario. Se gli adulti devono regredire e far politica come i bambini, allora si eleggano direttamente i bambini, a partire dai consigli comunali per finire ai due rami del parlamento.
Il fatto è che questo Papa non sa quando usare il linguaggio dei fanciulli e quando quello degli adulti, quando quello dei poveri e quando quello dei ricchi, quando quello delle donne e quando quello degli uomini, quando quello dei peccatori e quando quello dei virtuosi, quando quello dei preti e quando quello dei laici. I suoi fedeli non hanno sesso, non hanno età, non hanno condizione; sono come esseri privi di profilo umano.
Dice che lui non voleva essere papa. Figurarsi! Con ciò offende due volte Dio: la prima, perché dice una bugia; la seconda, perché non riconosce allo Spirito Santo giustezza di vedute. Chiacchiera Francesco, senza mai dire nulla di politica cattolica in difesa dei valori che pur potrebbero essere, se non negoziati per ottenere qualcosa, ridefiniti nei termini comportamentali per non creare nei fedeli quel senso di inadeguatezza  che li angustia e li fa sentire indegni.
Aspettiamo. Forse non è ancora tempo. Qualcosa, prima o poi, Francesco la dirà di finalmente cattolico. Povertà a parte, il suo cavallo di battaglia, l’altro tema sul quale insiste è che i preti rinuncino ad inseguire carriere e posti di potere. Anche qui, ci vuole tanto ad azzerare tutto? Niente gerarchie: todos caballeros! E così nessuno prevarica nessuno.
Si può immaginare l’obiezione del cattolico difensore ed estimatore di questo papa: ma le cose che dice non vanno prese tutte alla lettera! Colpito. Ma, quando fornisce a chi lo ascolta lo strumento critico per sapere finalmente quel che va preso alla lettera e quello che va preso per il suo senso morale?

La crisi della Chiesa è la crisi dei suoi preti, dei suoi vescovi, dei suoi cardinali, dei suoi uomini. Quando Papa Francesco si rivolge loro con un messaggio chiaro e inequivocabile? Non si accorge che la società sulla spinta delle sinistre sta diventando ogni giorno di più indifferente ai valori, negoziabili o meno, della Chiesa? No, non si accorge; o fa finta di non accorgersene. E nel frattempo quel processo di scristianizzazione continua. Piace Francesco alle sinistre perché finalmente le lascia agire indisturbate.    

domenica 9 giugno 2013

Identità nazionale e famiglia non sono bagattelle


Aveva ragione Indro Montanelli quando diceva che in Italia una politica di destra la può fare solo un governo di sinistra e, viceversa, una politica di sinistra la può fare solo un governo di destra. Ora che destra e sinistra sono insieme al governo, che faranno? Io farò una cosa a te e tu farai una cosa a me? Vedremo.
Fino ad ora hanno fatto alcune cose importanti, non importantissime, diciamo a livello di quel vivere inteso come campare. Non è poco, dati i tempi. In situazioni di carestia bisogna accontentarsi anche di un tozzo di pane raffermo. Si tratta di cose perciò che non riguardano specificamente né la destra né la sinistra. La sospensione dell’Imu sulla prima casa, il finanziamento della cassa integrazione in deroga, il pagamento dei debiti degli enti pubblici alle aziende creditrici, riguardano tutti gli italiani.
Dunque, per il “vivere” tutti d’accordo; e sul fronte del “filosofare”? Qui si capisce poco che cosa si stia facendo di destra e che cosa di sinistra. O, per lo meno, si vede qualcosa di sinistra; non si vede nulla di destra. Nelle more di qualche apparizione, è lecito sospettare che qualcosa di grosso si stia rimuginando. Che Berlusconi la faccia franca nei processi? Che passi il presidenzialismo e il Cavaliere punti alla presidenza della repubblica? Che Alfano speri di liberarsi di lui se dovesse essere condannato? Insomma, in qualcosa si spera, qualcosa però che per motivi diversi è inconfessabile; che soprattutto non esce dalla logica della lotta politica personale, che vede Berlusconi e Alfano fare i loro propri conti politici. Dalle loro elucubrazioni, il popolo di destra – ammesso che ancora ce ne sia uno – è del tutto assente.
La destra si è sempre caratterizzata per la difesa delle grandi sintesi collettive – Stato, Società, Nazione – e dei valori ad esse collegati. E’ la destra che si può anche non condividere, ma è la più nobile. Essere di destra significa sentire sotto e sopra la pelle l’idea di un certo modello di Stato e di Società. In questo modello, per l’individuo c’è posto solo se è capace di sacrificare certi diritti e certi bisogni. Se non è capace o non è disposto vuol dire che è decisamente di sinistra, che ha altra cultura ed altra sensibilità. In una società democratica è perfettamente normale che gli individui coltivino sensibilità diverse, si battano per diritti diversi, per modelli diversi. L’Italia è un paese democratico. La democrazia, nella sua essenzialità, è il campo ben squadrato con le sue regole dove si confrontano le due squadre.
Ora, sul tavolo ci sono due grossi problemi, collegati all’identità nazionale e alla famiglia. Chi li considera bagattelle evidentemente si sbaglia o fa il furbo. Per un verso lo jus soli, che riguarda la cittadinanza italiana per tutti coloro che nascono sul territorio italiano, senza nessuna distinzione; e il riconoscimento agli omosessuali di tutti i diritti di cui godono i cittadini italiani, matrimonio e adozione di figli compresi. Questi due punti stravolgerebbero, ove passassero, la società italiana. Sono, come ognuno può vedere, obiettivi della sinistra, perché è la sinistra, almeno qui in Europa, che si batte per i diritti individuali di un certo tipo. Il fatto che ci sia anche qualcuno di destra a sostenerli non significa che ipso facto diventano obiettivi di destra. Bondi farebbe bene a grattarsi da sé i propri pruriti o tornarsene a farlo nella sua antica dimora, che era appunto la sinistra.
Il governo Letta ha due ministri, entrambi del Pd, posti al perseguimento del diritto di cittadinanza generalizzato (jus soli) e del diritto degli omosessuali a vivere pienamente la cittadinanza italiana (pari opportunità). Sono i ministri, di italianità acquisita, Kyenge e Idem. Entrambi donne. Essi perseguono con serietà e coerenza i loro obiettivi. E’ appena il caso di ricordare che in un primo momento ministro alle pari opportunità era la Biancofiore del Pdl, poi trasferita perché non gradita ai movimenti di sinistra o, per dirla papale papale, era un ostacolo ai loro obiettivi.
La Kyenge e la Idem hanno annunciato, insieme alla Presidente della Camera Boldrini (di sinistra) che il 15 giugno andranno al gay-pride di Palermo. Una scelta assolutamente coerente. Ci mancherebbe altro che non andassero! Ma allora questo governo si assumerebbe la responsabilità – ovvio, responsabilità grave per uno di destra, grandissimo merito per uno di sinistra – di far compiere passi avanti importanti a questi due obiettivi.
E che dovrebbe fare la componente di destra del governo? Mandare tutto all’aria? La risposta non è nell’umore immediato di chi ancora si considera di destra. Sarebbe poco male. Ma potrebbe essere nei comportamenti di una destra che oggi prende atto di essere scolorita e confusa, per non dire del tutto assente, ma che, come l’acqua che scava il suo corso, potrebbe di qui a non molto giungere tumultuosa a rivendicare il suo spazio di sfogo. Vediamo ormai che masse di gente si riversano sulle piazze e danno vita ad autentiche rivolte di popolo anche per motivi inizialmente da poco. L’ultimo caso in Turchia, dove si è iniziato per difendere un parco e si è finiti per difendere un modello di vita.

Lo stravolgimento della società dai suoi caratteri tradizionali è materia importante e incandescente. La destra non può riconoscere come suo né come con-suo un simile stravolgimento. Berlusconi e Alfano, Letta e tutta la sua corte di destra e di sinistra sono avvisati. 

mercoledì 5 giugno 2013

Papa Francesco e il politicamente corretto


Nell’omelia pronunciata nel corso della messa dalla Cappella della Domus di Santa Marta, la mattina di martedì, 4 giugno, Papa Francesco ha detto, come sempre, parole chiare e spoglie. Cosa, questa volta? Che il Vangelo condanna il politicamente corretto, in quanto ipocrisia e linguaggio di corruzione, teso a trarre vantaggi personali. Un messaggio non specificamente rivolto ai politici, giacché per politicamente corretto s’intende quel parlare in modo tale da non irritare o offendere qualcuno e favorire l’incontro e il dialogo. Il che può accadere in ogni settore e circostanza del vivere politico ed economico, civile e sociale. Ovvio che i politici siano i più esposti e i più esperti in questa ars dictandi.
Non si può dare torto a Papa Francesco. In genere è così. Il capo della chiesa cattolica non può fare distinguo, parla sempre erga omnes. Non esistono per lui comportamenti buoni in un luogo e cattivi in un altro; buoni come mezzi e cattivi come fini o viceversa cattivi come mezzi e buoni come fini. Nessun relativismo della comunicazione. Il politico, dunque, come il prete, il commerciante come il diplomatico, il militare come il giornalista: tutti devono “parlare con la semplicità dei bambini”.
Ma con chi ce l’aveva Papa Francesco? Escluso che egli sia un sempliciotto, che è cosa diversa da semplice – peraltro viene da formazione gesuitica – le sue parole sono rivolte soprattutto al popolo dei fedeli, in cui sono compresi tutti gli uomini nelle più varie circostanze di professione sociale. Lo spirito del parlar diretto e semplice, senza edulcorazioni e rivestimenti truffaldini, è quello di non venir meno all’ottavo comandamento di Dio: non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo. Chi non dice la verità per come la conosce commette peccato, alla stregua dell’ammazzare e del rubare. Ma il Papa sa anche che non tutti gli uomini e non in tutte le circostanze possono usare il linguaggio della verità per come lui lo intende. Davvero crede che gli uomini tutti possano parlare con la semplicità dei bambini? E’ come pensare all’età dell’oro che una volta vagheggiavano i poeti affetti da mitologia.
Le ragioni del suo dire possono essere diverse. Esclusa quella di fede, secondo cui non bisogna mai dire una menzogna per non incorrere nel peccato del citato ottavo comandamento – è fin troppo ovvio – le altre sono esse stesse politiche.
La prima è che lui vuole rimarcare la distanza della chiesa dal mondo della politica. Sembra voglia dire: io sono il Papa e considero il mondo della politica il regno di Satana. Come il demonio si traveste per essere ben accetto, così voi politici vi travestite per catturare la fiducia della gente. I politici, infatti, usano il linguaggio dell’ipocrisia per coprire delle verità scomode o contrarie all’interesse personale o della propria parte politica. Tradizionalmente i papi sono stati autentici politici, non solo nel tempo del loro regno temporale ma anche dopo; in quanto tali si sono piegati anche loro non tanto al politicamente corretto quanto al politicamente utile. Ogni chiesa nazionale ha contribuito e contribuisce come può alla vita politica della propria nazione. Il Papa provvede anche politicamente alla vita dell’umanità sparsa in tutto il mondo. Il messaggio di Francesco I è particolarmente importante nel momento in cui in Italia la politica ha toccato livelli allarmanti di degenerazione, in cui l’uso dell’ipocrisia non è un rimedio cui si ricorre per necessità ma una sorta di virtù, per cui più si finge, più si edulcora, più s’inganna e più si eccelle.   
La seconda ragione è l’offerta di un mezzo di decodificazione della comunicazione politica. I cittadini sappiano che i politici non dicono la verità, mentono per vizio, allo scopo di catturare la loro fiducia. Va da sé che il politicamente corretto, cioè l’ipocrisia, non ha come contrario il linguaggio di Beppe Grillo, tanto per intenderci. Il quale stravolge anche lui la verità, l’avvolge in  panni laceri e sudici quanto gli altri l’avvolgono in bei vestiti; anche lui per scopi che niente hanno a che fare col bene cristianamente inteso.

Forse Papa Francesco, non fosse altro che per completezza di “lezione”, avrebbe dovuto mettere in guardia i cittadini anche da chi usa un linguaggio licenzioso e violento per ottenere per diversa via quello che altri si propongono di ottenere con un linguaggio gradevole e accattivante. Nello spazio della politica la comunicazione del Papa diventa, che lo si voglia o meno, essa stessa politica.

domenica 2 giugno 2013

Berlusconi, oggetto del desiderio di Letta-Alfano


Deve essere stato siglato un patto d’acciaio tra Enrico Letta e Angiolino Alfano, Presidente e Vice-presidente del Consiglio dei ministri di questo strano governo; un patto segreto. Gli obiettivi di ogni governo sono scritti e sottoscritti, detti e ridetti in ogni pubblica sortita. Qualche volta sono gli stessi uomini di governo a ripeterli, per vantarsene se sono stati raggiunti. Qualche altra volta sono le opposizioni, interne ed esterne, che li rinfacciano come non raggiunti. Così anche per questo governo. A fronte dei risultati conseguiti e legittimamente esibiti da Letta, c’è un Renzi, dello stesso partito, che parla di vivacchiamento, per svilirne l’importanza. E’ la politica, per come si esercita in Italia. Ma ci sono altri obiettivi che non vengono esplicitati o, a volte, nemmeno consapevolmente perseguiti. Sono obiettivi di risulta, che arrivano imprevisti e forse solo intuiti quando già se ne vedono i segnali.
L’obiettivo nascosto, che è nell’esercizio e nella durata di questo governo, è la definitiva messa da parte di Silvio Berlusconi. E’ lui l’oggetto proibito del desiderio. Nessuno lo ipotizza pubblicamente. Forse a nessuno conviene farlo; ma intanto è in rebus. Quali sono gli elementi che rendono questa ipotesi più che probabile? Almeno due. Uno è l’eventuale condanna di Berlusconi da parte del tribunale di Milano; l’altra, la capacità di fare le cose che questo governo ha detto di voler fare. Il tempo farà il resto.
Il primo elemento, nel quale è in germe l’annientamento di Berlusconi, non lascia spazio ad altre prospettive. La conferma della sentenza per la truffa ai danni dello Stato vorrebbe dire per Berlusconi l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. A quel punto la partita è chiusa. Ma può essere che questa sentenza di condanna non ci sia, per una sorta di non concordata scelta di liquidazione politica di Berlusconi, nel segno dello Zeitgeist, mettiamola così. A questo punto entrerebbe in campo il secondo elemento, e cioè il successo del governo Letta-Amato, che farebbe apparire del tutto superata la presenza politica di Berlusconi; per lui inizierebbe una lenta ma inesorabile fuoriuscita dalla scena politica. Perché mai una politica che ha ben operato, sia pure in una formula atipica, dovrebbe tornare ai prischi dolori di uno scontro berlusconiani-antiberlusconiani, che ha caratterizzato vent’anni circa di lotta politica in Italia e che ha fatto solo macerie?
Ovvio che una simile prospettiva deve fare i conti col diretto interessato. Berlusconi, se dovesse scappare dalla mannaia dell’interdizione dai pubblici uffici, cercherà di riciclarsi non più come leader di governo, ma come padre fondatore della nuova repubblica, che questo governo si propone di costruire. Il Cavaliere potrebbe ambire ad una delle massime cariche dello Stato. Conoscendolo, c’è da giurare che pensa alla Presidenza della Repubblica o a quella del Senato. Improbabili sia l’una che l’altra. Le requisitorie dei pubblici ministeri di Milano non sono sentenze, saranno pure sgangherate, ma il segno lo lasciano lo stesso. Per rubare un po’ di lessico classico, le Berlusconarie, intese come orazioni contro Berlusconi a guisa delle Catilinarie di Cicerone, vogliono mettere ostacoli insormontabili perché egli possa mai più approdare a cariche pubbliche di così elevata importanza.
Il Cavaliere se ne starà con le mani in mano? Se ci fosse una sola persona in Italia a pensarlo bisognerebbe clonarla prima che se ne perdesse la preziosa specie. Quando capirà l’antifona, egli farà di tutto per mettere in difficoltà il governo e dimostrare al popolo italiano che lui ha ancora nella lampada olio da ardere.
Oggi afferma e ribadisce che le sue traversie giudiziarie non hanno a che fare col governo. Ma non è sincero e se pure lo fosse ci sono meccanismi politici ineludibili. Nel Pdl è il dominus incontrastato, comanda e determina. Lo sanno tutti. Il fatto che ogni tanto emergano mugugni per il doppio incarico che ha Alfano la dice lunga. C’è in questo partito una sorta di quiete che prelude ad una tempesta. Le perturbazioni ci sono tutte, quando si combineranno gli elementi, la tempesta scoppierà.
L’obiettivo segreto di questo governo è ambizioso, ma nello stesso tempo è il male che può minarlo e farlo precipitare. La fine di Berlusconi è perciò il suo massimo traguardo e il suo massimo pericolo.