sabato 13 gennaio 2024

Elogio della "scorrettezza"

Appare chiaro a tutti che incontrando per strada uno zoppo non lo si saluta dicendo: buongiorno, zoppo. È da cretini il solo pensarlo. Ma che si debba abolire il proverbio “chi va con lo zoppo impara a zoppicare” per non pronunciare la parola in sé offensiva, mi sembra altrettanto cretino. Occorre buonsenso e soprattutto rispetto del prossimo. Basterebbe, a questo punto, il Galateo di mons. Giovanni della Casa, qua e là aggiornato. È il modo di parlare senza offendere, attenti a non dire cosa che possa urtare la suscettibilità di qualcuno. Arte non sempre facile. Nella nostra società, in preda ormai a delirio buonista, l’ipocrisia ha raggiunto livelli che se fosse un fiume diremmo di guardia. Essa è detta, con una formula eufemistica, “politicamente corretto”, che vuol dire non chiamare le cose coi loro nomi se essi sono offensivi. Meglio usare giri di parole. Se il tondo offende, non lo puoi per questo chiamare quadrato. Prima si usava dire “absit iniuria verbis”, senza offesa, e potevi continuare a parlare con aderenza alla realtà. Oggi non ti salva niente e nessuno se ti scappa di dire la verità o di essere sincero. Siccome le parole hanno una loro forza, questo modo di intendere la comunicazione ha trasferito i significati dalle parole ai fatti di riferimento certificandone il falso. Aristotele diceva che le parole sono conseguenza dei fatti, non il contrario. È stato abrogato il concetto di normalità, e dunque anche il nome. Tutti sono normali. Come nella Fattoria degli animali di George Orwell tutti gli uomini sono uguali. La realtà dice altro, ma tu non lo devi dire. Si fa l’elogio del diverso in ogni sua forma. Salvo a ricorrere a medici e specialisti se qualcosa di diversificante insorge a modificarti lo status psicofisico. Estetisti e chirurghi plastici fanno affari d’oro, non si bada a spese pur di rientrare in una normalità d’altra parte negata. Dietro la maschera del buonismo c’è la vera natura umana, che alla detestata normalità ci tiene, altro che. Fare una stroncatura di un libro o di un’opera d’arte è peggio che sparare sulla Croce Rossa o aggredire un paralitico. E se la critica è fondata, non ti salvi lo stesso, anzi è peggio. Quello che dici, lo dici per invidia o per cattiveria. Una volta c’erano giornali e riviste che si intitolavano alla discussione e alla polemica e non c’era periodico che non avesse rubriche del genere, oggi, invece, sono intitolate Lettere al Direttore o Punti di vista. Polemizzare è vietato, stroncare è delittuoso. Nell’apoteosi del diverso, l’unica cosa da condannare è la diversità vera, di pensiero e di espressione. Pensarla diversamente è peccato e reato insieme. Ti devi adeguare al politicamente corretto. Chi non ci sta è osteggiato, bandito, confinato fuori dal consorzio civile. Si rischia perfino il codice penale perché da qualche anno sono previsti i reati di razzismo con tutti i suoi ammennicoli. Se sei impiegato o professore rischi di perdere il posto, se sei un giornalista rischi di essere radiato dall’Ordine, se sei un calciatore rischi l’espulsione, la multa e la squalifica. Insomma, senza perder tempo a gregoriare, chi si permette di essere veramente diverso e di esprimersi di conseguenza è fottuto. Ops; fottuto non si dice. Eppure fino a non molti anni fa si insegnava a scuola a dire sempre la verità, ad usare sempre la parola diretta e appropriata anche per ragioni di economia comunicativa. Improprietà di linguaggio e prolissità erano errori. Se un pensiero può essere espresso con tre parole, è sbagliato usarne quattro, dicevano maestri e professori. Le parole di più – ammonivano – sono del maligno, s’intende il diavolo, che ai miei tempi si temeva. Le bugie hanno le gambe corte, si diceva; allungano il naso. Spaventavano i bambini per non dirle. Alle lezioni di catechismo s’insegnava che dire bugie è peccato mortale. Ho perso l’amicizia di non pochi amici che si sperticavano di elogi nei miei confronti fino a quando ho recensito loro un libro. Nel darmelo, con tanto di dedica, mi dicevano: lo affido a te perché so che tu dici sempre quello che pensi. Ma appena ho detto quel che pensavo, addio amicizia. Di fronte ad un giudizio espresso con franchezza, sincerità e cognizione di causa, non c’è amicizia che tenga. Conosco la storia e so che questa, come tante altre mode, passerà e si tornerà a dire pane al pane e vino al vino. Per ora accontentiamoci, senza tradire la nostra indole, di giocare all’ala, che è il luogo più vicino al bordocampo, pronti ad uscircene. Importante che l’arbitro non ci sbatta fuori prima che inizi la partita sulla base di un sentito dire che abbiamo il vizio di entrare sempre a gamba tesa.

sabato 6 gennaio 2024

Si licet osservare, Presidente

Si licet vorrei fare alcune osservazioni al discorso che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha fatto la sera del 31 dicembre. Ciò non toglie nulla al valore del messaggio, che, come sempre, si è fondato sui più alti valori umani, quali si riscontrano in Italia, in Europa e nel mondo e sulle problematiche politico-sociali che abbiamo vissuto nel corso dell’anno. Non è retorica per riequilibrare successive osservazioni per così dire non in linea. Non c’è impasto che non abbia varietà di materiali, che, presi uno per uno, rivelano caratteri diversi. La prima osservazione è sulla frase del Presidente: “i diritti umani sono nati prima dello Stato”. Un’affermazione che non trova riscontro nella storia. Il concetto stesso di diritto, anche il più naturale, è dentro lo Stato. A partire da quello hobbesiano. Romolo, che traccia il solco entro cui fonda Roma e ordina come si deve vivere, mette in essere lo Stato (uomini, territorio, leggi). Diritti e doveri s’intendono all’interno di quel territorio, valgono per quegli uomini in forza di quelle leggi. Fuori, quegli uomini non hanno né diritti né doveri, non sanno neppure che cosa sono. A volte certe affermazioni danno per scontato un trascorso che non si ritiene necessario indicare. Ma ricordare che al di sopra di tutto c’è lo Stato è importante in una fase, quella che stiamo attraversando, in cui lo Stato non gode né di buona salute né di buona reputazione. Lo Stato è convivenza, è ordine, è sicurezza. Nella solennità di un discorso presidenziale ha un suo posto. Ricordarlo agli uomini che lo rappresentano ai più vari settori e livelli e ai cittadini tutti non è mai un memento superfluo. Qui si aggancia la seconda osservazione. Nel discorso del Presidente non ricorre nemmeno una volta la parola “dovere”. Sembrerebbe che in questo Paese non ci siano più doveri per nessuno. Anche qui, probabile che il Presidente li abbia dati per scontati. Sappiamo da sempre che non ci sono diritti là dove non ci sono doveri. Ricordarlo non è vano, specialmente in una fase di confusione diffusa, in cui gli episodi di sciatteria istituzionale sono quotidiani. La terza osservazione riguarda un passaggio molto bello del Presidente, il riferimento ai ragazzi di Pizza aut., di Casale di Principe e alla gente di Romagna che, mentre lavora nel fango per ricostruire dopo le devastazioni della natura arrabbiata, canta “Romagna mia”. Grande esempio di civiltà, di maturità civica, di socialità dei cittadini encomiati. Sono gli italiani che emergono sempre al momento opportuno. Giustamente gli interessati ne hanno gioito, come se avessero ricevuto un premio inaspettato. Ma anche qui il Presidente nulla ha detto delle cause a proposito del disastro romagnolo, riconducibili alla negligenza degli uomini e delle istituzioni mal rappresentate che sono state all’origine della catastrofe. Come in Romagna, è accaduto in tante altre parti d’Italia negli anni precedenti, accadono da troppi anni ormai. Sappiamo quanto danno è stato fatto al territorio in questi ultimi anni, quanto sia stato cambiato l’assetto naturale dei luoghi. Si dà la colpa ai cambiamenti climatici, ma non si riflette abbastanza sui cambiamenti prodotti dagli uomini, dagli sconsiderati comportamenti umani. Non solo dei politici, ma anche dei cittadini qualunque. Penso agli incendi estivi. Al “non ci sto” della natura, gli uomini dovrebbero essere più saggi e più prudenti. È il momento di prendere atto che la natura va rispettata, che deve essere l’uomo ad adeguarsi a lei e non viceversa. La natura che viene adeguata alle esigenze umane molto spesso è violata. Su certe emergenze non si insiste mai troppo. I commenti del giorno dopo hanno messo in rilievo che il Presidente ha voluto evitare temi e toni divisivi, avendo constatato che la condizione sociale, con tutte le problematiche che riguardano i giovani, gli anziani, i malati, le donne, è già precaria e frammentata di suo. Quanto alla Costituzione, che taluni politici e organi di stampa hanno posto al centro del discorso presidenziale, non sembra essere stata così insistita come si vorrebbe far credere (citata appena due volte). Quel che non può passare inosservato, invece, è il richiamarsi del Presidente a Papa Francesco, specialmente in materia di emigrazione: «non girarsi dall’altra parte». Che dire? La Chiesa che detta la linea allo Stato, quando non è neppure forte come ai tempi di Pio XII, fa pensare ad uno Stato che forse ha bisogno di ritrovarsi in tutto il suo primato e in tutta la sua laicità.