lunedì 29 febbraio 2016

L'informazione e le notizie "inventate"


Ma sta combinata proprio così male l’informazione in Italia? Possibile che si debba ricorrere a stravaganti trovate pur di dare qualche notizia fuori dalla paccottiglia giornaliera che non interessa più nessuno? I giornalisti sono tacitati, ovvero impediti di svolgere il loro compito al meglio delle loro capacità. Ma a chi giova tappar loro la bocca, costringerli a giochini miserabili e stupidi? L’informazione dovrebbe a questo punto interrogarsi sulla crisi che la sta mortificando e riducendo a poco più di un’azienda con sempre meno posti di lavoro. I prepensionamenti di tanti validi giornalisti sono la prova della difficoltà del settore. E’ improbabile che gli addetti ai lavori si intrerroghino da sé e si diano delle risposte. I giornali sono restii da sempre a parlare dei casi propri. E invece di lì dovrebbero partire, secondo l’assunto del vangelo, della pagliuzza nell’occhio altrui e la trave nel proprio.
Oh, “senta il caso avvenuto di fresco” direbbe il Giusti. Un bambino ha inventato una parola e subito la notizia conquista tutti i media e balza sulle prime pagine perfino dei quotidiani nazionali. Manco fosse stato inventato il più formidabile vaccino contro la più terribile malattia! Invece è una macroscopica balordaggine. Interviene perfino l’Accademia della Crusca, che sollecitata ad inserirla tra i neologismi, risponde con diplomazia: se e quando ricorrerà nell’uso comune.
Ma la notizia dov’è? Sembra che l’informazione vada alla ricerca spasmodica di qualcosa che la renda meno cattiva e monotona, tra guerre, mafie, femminicidi, unioni civili, rapine, spionaggi, depistaggi, crisi di borse e magari anche di Inter e Milan. O forse, come è più probabile, c’è una parola d’ordine degli editori ai direttori, e da essi ai giornalisti: non potendo parlare di cose serie, non potendo svolgere il compito specifico dell’informazione, fate come i maghi, trasformate le zucche in carrozze. Un po’ come si usa in dittatura, dove non si fa che celebrare il regime, tra bambini prodigio, spose fedeli, gesti eroici di umili servitori dello Stato, parate e parazioni.
Se è così, va bene pure che l’invenzione di una parola da parte di un bambino che, non sapendo come qualificare un fiore ricco di petali escogita l’aggettivo “petaloso”, faccia notizia. Ma, attenzione, perché la vera notizia non è del bambino bensì dell’informazione e della società nel suo insieme. Così l’informazione, che tende a nascondere le sue difficoltà, finisce per metterle al sole.
Che i bambini siano creativi non occorre rimarcarlo più di tanto. Il Pascoli spiega la sua poetica proprio con la creatività del “fanciullino”. “Egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente”. Il poeta è proprio chi da adulto conserva intatte le caratteristiche del bambino, tra cui in primis la capacità di stupirsi, di commuoversi, di comunicare in maniera originale e creativa. Non a caso un gran numero di parole le hanno inventate i poeti, non sempre “fanciullini” in verità. I linguisti hanno calcolato che Dante nella Commedia utilizza circa 27.700 termini, in gran parte da lui inventati nei modi più diversi, un’enormità se si considera che un suo grandissimo contemporaneo poeta come lui e forse di lui più raffinato come Guido Cavalcanti ne utilizza 800 e che l’area lessicale del volgare tra Duecento e Trecento passa da 4/5.000 vocaboli a 10/15.000.  
Il bambino è naturalmente portato ad inventarsi le parole, sollecitato dal bisogno di nominare un oggetto, un fatto, un evento; non sa ancora che esiste un vocabolario. Va a scuola proprio per imparare a disciplinarsi, a non usare parole trovate lì per lì dalla sua immaginazione, ma solo quelle comprese nel codice linguistico in uso, ovvero nel vocabolario della lingua.
Allora, perché tanto rumore per una parola, oltretutto brutta e scorretta, come “petaloso”? Oggi si tende a concedere libertà espressiva a tutti, anche a costo di giungere alla Babele, ossia all’incomunicabilità. L’invasione delle parole straniere, inglesi soprattutto, è niente in confronto al gergo dei giovani che si esprimono secondo un codice linguistico liquido, tanto per usare un termine di moda, ad indicare un linguaggio in continua trasformazione e reinvenzione. Per non parlare dei social, dove si tuitta e si fesbucca dalla mattina alla sera con un linguaggio a volte inventato all’istante.
I bambini inventano per candore e innocenza, non sapendo che esiste un codice; i giovani inventano per ribellarsi ai codici e poter comunicare da iniziati, come tendono ad essere. E gli adulti? Non dovrebbero almeno essi dare prova di equilibrio e di saggezza? Macchè! Inventano pure loro, non solo parole, ma anche fatti, forse per diversivo, in presenza di un mondo che è davvero, come lo definiva Tommaso Campanella, “una gabbia di matti”. O forse di “mattei”. Il bambino che inventa la parola “petaloso”, in quanto notizia, è un’invenzione assoluta.

L’Ordine, invece, di organizzare inutili, ripetitivi e perditempo seminari di aggiornamento professionale, farebbe meglio a preoccuparsi della deriva che sta prendendo il settore. 

domenica 28 febbraio 2016

25 febbraio 2016: l'Italia è un'altra!


Giovedì, 25 febbraio 2016, è una data che definire storica è poco. In questo giorno l’Italia è diventata un’altra; ha riconosciuto che due dello stesso sesso possono unirsi formalmente a costituire una famiglia, potendo così godere di alcuni benefici che lo Stato riconosce alle famiglie cosiddette normali. Per ora solo alcuni benefici; poi si vedrà. L’obiettivo è di riconoscere alle coppie omosessuali anche il diritto di adozione di bambini. Come il battello ebbro del poeta maledetto Rimbaud così il battello dei diritti umani scivola lungo l’italico fiume del riconoscimento pieno e dell’equiparazione totale delle unioni civili alle altre forme di unione, come il matrimonio religioso e il matrimonio civile. Fin qui il fatto, nudo e crudo; a parte la metafora del battello e del poeta francese, noto omosessuale, funzionale a stabilire in incipit da che parte sta chi scrive; che è segno di onestà intellettuale e di chiarezza.
Siccome non si tratta di una legge qualsiasi, come ognuno obiettivamente riconosce, ma di una legge di rottura col passato millenario, che potrà avere di qui a non molto ricadute importanti sulla società, fino a stravolgerla per un modello sociale al momento solo ipotizzabile, è opportuno chiedersi: ma la Costituzione cosa dice in merito? E di qui la seconda domanda: può un Parlamento o un Governo introdurre una legge senza tener conto della Costituzione, che è la Magna Charta che informa e regola la vita giuridica e politica del Paese?
All’art. 29 la Costituzione dice: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Al tempo dei padri costituenti, come pomposamente vengono ricordati i membri dell’Assemblea Costituente, non erano neppure lontanamente ipotizzabili unioni di omosessuali riconosciute dalla Repubblica. Dunque, nella lettera e nello spirito la Repubblica  esclude ogni altra famiglia che non sia quella naturale fondata sul matrimonio; né in altri articoli apre lontanamente a percorsi aggiuntivi.
E allora, come è possibile legiferare in difformità se non proprio in contrasto con la Costituzione? Risposta: si può, perché la legge sulle unioni civili è un’operazione politica; e la politica – si sa – è l’arte del possibile. E la Costituzione? Penso alla battuta di un celebre film di Totò, che non riferisco per il rispetto che ho per il massimo documento della nostra Repubblica e dei lettori.
Detto più seriamente il problema è tra la Costituzione, che per natura è rigida, e la politica che per natura è fluida. Nascono di qui i due modelli sociali. C’è chi ritiene che il Paese debba essere ordinato e osservare le leggi esistenti, cambiandole secondo modalità di legge, quando ne ricorre l’opportunità; e c’è chi ritiene, invece, che il Paese è in continuo spontaneo trasformarsi e perciò le leggi esistenti che impediscono o frenano le trasformazioni non vanno osservate. Gli uni peccano in rigidismo, gli altri in fluidità. Questi ultimi sono vincenti; è questione solo di tempo, ma gli obiettivi li raggiungono sempre. Riconoscerlo, però, non significa dar loro ragione. Ci sono conquiste che non si possono cambiare a capriccio, dopo aver fatto scempio non solo delle leggi ma anche di tutto ciò che ad esse sottende, in primis della natura e della ragione.
Questa legge, salutata come la più alta, la più importante, una tappa fondamentale sul cammino della civiltà, rompe una tradizione di diecimila anni di storia. Viene di pensare che per diecimila anni gli uomini, gli italiani, sono stati ciechi; non si sono mai accorti di vivere nell’inciviltà dei rapporti sociali.
Sarebbe tuttavia ingiusto non ricordare che le unioni civili e tutto quello che ne seguirà di conseguenza, tra inutili strepiti di alcuni parlamentari, sono passate anche per merito/colpa di un Papa, che più passa il tempo e più si configura come un Antipapa. Lo è nel fatto prima ancora che nel diritto. Francesco ha lasciato fare e continuerà a lasciar fare. Lui non si occupa di questioni spirituali, ma di questioni sindacali, politiche, giudiziarie, di costume spicciolo e di tanta voglia di apparire, di essere in cattedra. Nascono di qui le sue udienze di massa: a politici, a imprenditori, a giornalisti, ad artisti. Lui, il Papa venuto dalla fine del mondo, si sta rivelando davvero un papa dell’altro mondo.    

domenica 21 febbraio 2016

Papa Francesco: sbavature messicane


Papa Francesco dà l’impressione di non saper mettere sempre in conto le conseguenze delle sue parole e dei suoi gesti, tradendo una inadeguatezza di fondo all’importantissimo ruolo che occupa. Egli appare come un artigiano che, abituato a lavorare con martello e scalpello, si trova improvvisamente davanti ad un sofisticatissimo macchinario computerizzato. Il mondo non è l’America Latina, è qualcosa di più, è qualcosa di meno, è qualcosa di peggio ed è qualcosa di meglio. Pretendere di gestire le anime dell’intera ecumene, avendo una visione parziale di essa, potrebbe portare ad esiti discutibili, forse perfino rovinosi. Il tempo lo dirà.
In aereo, di ritorno dal Messico, incalzato dai giornalisti, ha detto due cose che ne rafforzano il profilo di uomo pubblico un po’ trasandato. La prima è che “chi costruisce solo muri non è cristiano”; l’ha detto chiaramente contro Donald Trump in piena corsa per la candidatura repubblicana alla Casa Bianca. Il candidato repubblicano ha promesso che se eletto presidente farà costruire un muro tra Messico e Stati Uniti lungo tutto il confine, per impedire che i messicani sconfinino nel suo paese e lo invadano coi loro portati di violenza, di droga e di ogni altra nefandezza sociale.
A mio modestissimo avviso, senza avere la furia mistica di uno Jacopone da Todi esercitata contro Bonifacio VIII, dico che ha sbagliato; e non per un motivo soltanto. E’ vero che il Papa ha tutto il diritto di dire, oltre che il dovere, che chi costruisce solo muri non è cristiano – peraltro condivisibilissimo pensiero – ma dirlo in quel momento e in quella circostanza lo ha inchiodato ad una polemica, dalla quale un personaggio di così elevata statura spirituale dovrebbe tenersi lontano. E difatti Trump, un miliardario già noto per le sue sparate contro gli avversari politici e più in generale contro chi lo critica, ha risposto da par suo: “mettere in dubbio la fede di una persona è vergognoso; Francesco è un papa che fa politica”. Sicché papa Francesco si sarebbe comportato in maniera vergognosa; farebbe il politico. Questo e non altro è l’esito della sua dichiarazione, buona e doverosa in sé, ma detta in un momento e in un luogo sbagliati, con una chiara allusione deformante per aggiunta, “solo muri”, come se Trump volesse solo costruire muri e non altro. Va da sé che un politico deve sapere ed essere pronto a costruire muri quando occorrono i muri e a costruire ponti quando occorrono i ponti.
La seconda dichiarazione improvvida papa Francesco l’ha fatta sulle unioni civili; più o meno di questo tenore: “il papa non si immischia nelle faccende politiche italiane”. Giusto! Anche questa affermazione ha in sé del buono. Il papa deve pensare al mondo e non soltanto al paese in cui c’è la sede di Pietro. Quante volte la chiesa in Italia non è stata attaccata per le sue intrusioni, più o meno fondate, nella politica? L’ultima, quella del Cardinale Bagnasco a proposito dell’opportunità di usare il voto segreto per l’approvazione della legge sulle unioni civili, trattandosi di una legge ad alta tensione coscienziale.
Ma in questa sua affermazione di principio c’è del pilatesco. Se la vedano i vescovi, io mi lavo le mani. E no, cara Santità! Lei non può fare il messicano in Messico e l’italiano in Italia. Lei è sempre lo stesso, in Messico e in Italia. Qui è in gioco qualcosa di assai più importante di un principio di pratica pontificale.
Con l’approvazione della legge sulle unioni civili è in gioco la stessa visione della vita che da duemila anni sostiene la Chiesa. La società che si vuole costruire è decisamente anticristiana, antispirituale in senso ampio; è la devastazione dei valori millenari, fondati sulla natura e sulla ragione. E ciò a prescindere dal proprio credo religioso.
Mettere al mondo dei figli ed educarli in una cornice sociale di ordine mentale e spirituale non è la stessa cosa che allevarli nel disordine di generi, di genitori, di pratiche esistenziali considerate da sempre, da ben prima del cristianesimo, innaturali e irrazionali. Battersi contro le unioni civili o comunque vogliano chiamarle con tutti gli annessi e i connessi, acquisto di bambini e uteri a noleggio, significa battersi per garantire ai propri figli e più in generale a tutti gli esseri umani di crescere in una famiglia, che è una ed una soltanto. Non è una battaglia quella delle unioni civili; è la guerra della civiltà contro il ritorno alla giungla, unico luogo in cui ognuno fa quello che vuole e che può senza limitazioni di sorta.
La ragione per la quale papa Francesco tace su una questione così importante afferisce – e qui torniamo al punto di partenza – alla sua inadeguatezza a capire le ragioni del singolo all’interno di una società ordinata ed evoluta. Lui – per banalizzare – è fermo alle esigenze di una società, quella latino-americana, che non ha ancora risolto i problemi della fame; mentre non sa che dire ad una società che si trova alle prese con la digestione.

La sua visione francescana della vita riporta la società al medioevo, con tutto quello che significa: rifiuto di ogni principio di profitto, che è alla base della società capitalistica ed industriale, il denaro essendo lo sterco del diavolo; elogio della povertà, non superamento della povertà; vita da vivere secondo bisogni e desideri naturali, quali che essi siano, senza che nessuno si erga a condanne: chi sono io per giudicare?; lotta alla corruzione, al lusso e alla carriera; disprezzo di tutto ciò che non serve ai bisogni materiali e immediati degli uomini. Chiese, musei ed altre strutture – secondo papa Francesco – possono servire ma devono rispondere alle priorità materiali e immediate di chi ha bisogno. Se questo è un papa, viene di farsi turchi.          

domenica 14 febbraio 2016

Diritti umani, ripensare la destra


La destra, intesa genericamente come insieme di valori e di stile di vita, in Italia è perdente, in dipendenza anche da una più ampia crisi della destra europea. Non la destra economica, s’intende, che ancora impera sovrana, ma quella immateriale che trova ragioni e suggestioni in un preciso statuto culturale. Ammettere di essere perdente non significa ammettere di avere torto. E’ lo spirito del tempo, lo Zeitgeist. Che non è una cosa piovuta dal cielo, ben inteso, ma preparata da uomini e da eventi abbastanza identificabili.
Dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi c’è stata un’inversione di tendenza, che ha via via spazzato dalla cultura e dal costume ogni idea di conservazione e di tradizione. Le idee-forza di quella destra erano sul piano politico tutte nel primato dell’insieme, ovvero dello Stato, della Nazione, della Società, le tre grandi sintesi umane. Sul piano dell’individuo le idee-forza erano i miti della forza, della bellezza, del successo, della gerarchia.
L’inversione di tendenza ha aperto sul piano politico ad un processo di frantumazione giuridica, con un crescendo di autonomie locali; sul piano individuale ha portato se non all’esaltazione, alla comprensione e al recupero di ogni individualità, comunque fosse: debole, brutta, svantaggiata, in una visione di uguaglianza generale: non uno dopo l’altro, ma uno accanto all’altro; orizzontalità per verticalità.
Questa trasformazione è figlia di una cultura radicale, mista di socialismo e liberalismo, che ha avuto elaborazione e diffusione nel mondo. Campioni di questa cultura sono pensatori come Karl Popper (società aperta) e Zygmunt Bauman (società liquida), per citarne solo alcuni tra i più noti. L’una e l’altra, benché calibrate sull’esistente, danno l’idea della trasformazione e del dinamismo e costituiscono il supporto ideologico di ogni individualismo in una cornice sempre più fragile di società e di stato. Oggi, in ragione di un simile pensiero, è mutato il concetto di giusto. E’ giusto ciò di cui io, individuo, sento il desiderio o la necessità, qui ed ora. Ciò che mi piace non solo è lecito, ma se non mi viene concesso io lo rivendico come un diritto. Mi sottometto al denaro solo perché mi consente di soddisfare le mie esigenze, primarie secondarie superflue; ma davanti a me individuo non conta lo Stato, non conta la Società, non conta la Nazione: io sto prima di tutto. Quasi un comandamento! 
A questo processo di arretramento dell’insieme non è estranea la Chiesa, dove è avvenuto, in questi ultimi tempi, un trapasso che ha del traumatico.
“Come si riconosce ciò che è giusto?” si chiedeva papa Benedetto XVI nel suo discorso al Reichstag di Berlino il 22 settembre 2011, meno di cinque anni fa. Rispondeva: “Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. […] riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione”.
C’è sentore di una simile idea di giusto oggi nella Chiesa di papa Francesco? Il giusto di papa Francesco si limita alla natura, ovverossia all’apparente e all’immediato, che non possono essere che fisici e secolari. Papa Francesco non si è limitato a togliere la correlazione tra natura e ragione, a rompere l’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, ha cancellato la ragione. In Francesco non c’è un solo richiamo alla spiritualità, alla razionalità, alla prospettiva. Per lui non c’è che il presente e il soddisfacimento dei bisogni immediati dell’uomo.
C’è sempre una ragione nelle cose del mondo: papa Benedetto XVI che lascia – non si sa quanto spontaneamente – per papa Francesco è la dimostrazione storica e la rappresentazione plastica della sconfitta di un modo di intendere la vita. La Chiesa in questo passaggio ha voluto esserci. Il silenzio di Francesco sulle grandi questioni bioetiche è più di una indicazione di strada da percorrere. E’ la presa d’atto di una sconfitta. Una sconfitta di quella Chiesa che si è sempre riconosciuta nella conservazione e nella tradizione dei valori spirituali e universali.
Nel Parlamento italiano si fa oggi un gran parlare su una legge (unioni civili). Ma si discute inutilmente! Essa è già nella testa della gente, nella realtà delle cose, si colloca nella filiera dei diritti individuali. Dal divorzio all’aborto, dalle unioni civili alle coppie di fatto, dalle adozioni indiscriminate agli uteri in affitto e alle gravidanze multigestibili, ogni cosa va verso il riconoscimento, come le acque di un fiume vanno naturalmente al mare.
Si tratta di una battaglia che la destra, anche quella moderata, anche quella cattolica, ha perso e non si avvede neppure che l’ha persa.
Nel momento in cui un moderato o un conservatore si guarda bene dall’esprimere pubblicamente nei confronti di certi comportamenti e di certe situazioni quanto esprimeva fino a qualche anno fa, ipso facto ammette la sconfitta. Ci sono casi illustri di pentiti, collaboratori d’ingiustizia: Gianfranco Fini, che disse che lui un figlio ad un professore omosessuale non l’avrebbe mai affidato; ai Dolce & Gabbana, che osarono distinguere tra omosessualità privata e omosessualità ostentata; al pastificio Barilla, che in una pubblicità disse che avrebbe continuato sempre a produrre per la famiglia tradizionale. Tutti a scappare con la coda fra le gambe, per motivi banali e profani, chi per non perdere voti (Fini), chi per non perdere soldi (Dolce & Gabbana, Barilla).

Riconoscere la sconfitta per la destra – e direi anche per la Chiesa – può essere il primo atto di un riesame di coscienza. Oggi si conoscono i guasti di una società che si è piegata al verbo del consumismo e del nichilismo borghesi, svendendo i valori dello spirito e della legge; e perciò si va verso un altro tipo di società. Più che giusto! Ma quali guasti saranno provocati da una società basata su valori individuali, esasperati fino all’inverosimile? Non lo sappiamo. Potremmo ipotizzarli. Per certi aspetti ne vediamo le avvisaglie. Ogni modello produce dei guasti, ha le sue degenerazioni. Solo quando si avvertirà l’esigenza di rimettere ordine nelle cose si potrà ripartire. Allora la destra potrà tornare a dire la sua. Senza voler restaurare, perché nel frattempo già troppe cose saranno cambiate; ma neppure senza rinnegare, perché i valori di fondo non scambiano di colore né perdono di sostanza. Si tratta di trovare la strada di una nuova aristocrazia dello spirito.   

domenica 7 febbraio 2016

Trivellazioni nell'Adriatico, Renzi teme i referendum


Sembra che la modernità in Italia, nel Mezzogiorno soprattutto, debba sempre risolversi in un dilemma: o il lavoro e il benessere economico da una parte o la salute in povertà dall’altra. Il caso Ilva a Taranto ha sbattuto in faccia alle persone questa drammatica realtà: o l’occupazione e il cancro o la disoccupazione e la fame. Come se in mezzo non ci fosse altro. Così è pure per le trivelle alla ricerca del petrolio nell’Adriatico.
La trivellazione del fondo marino eseguita a regola d’arte, come si dice, non dovrebbe rappresentare minaccia alcuna per l’ambiente. Ma si sa che l’incidente, l’imprevisto può sempre accadere; e con l’imprevisto bisogna fare i conti, prima non dopo, perché le conseguenze potrebbero essere disastrose. L’incidente accaduto nel 2010 nel Golfo del Messico con lo sversamento in mare di enormi quantità di petrolio e l’inquinamento delle coste della Florida, in seguito all’inabissamento di una piattaforma petrolifera della British Petroleum, ha messo in sacrosanto allarme il mondo.
Non voglio dire che noi in Italia siamo più soggetti ad “imprevisti” che in altre parti del pianeta, ma non possiamo non riconoscere che molto spesso da noi le decisioni si prendono a cuor leggero, se non addirittura con spirito truffaldino e, a disastro compiuto, non si sa né chi le ha prese né come né perché. Di acciaierie, tanto per fare un esempio, ce ne sono tante in Europa, eppure non producono i disastri che hanno prodotto in Italia. Allora…
E’ di tutta evidenza che la politica deve preoccuparsi sia del lavoro e del benessere economico, sia della salvaguardia dell’ambiente e della salute dei cittadini. Di qui la necessità di dire sì o no solo dopo aver studiato la cosa in ogni suo aspetto e in ogni sua conseguenza, come del resto vuole la legge. Qualsiasi struttura produttiva in un contesto paesaggistico, urbano o naturale, deve essere valutata in rapporto alle due necessità, considerate non come esclusiva l’una dell’altra, ma come coesistenti. Laddove non è possibile garantire la salute dei cittadini occorre rinunciare a qualsiasi impianto industriale, fino a quando non si trovano i giusti rimedi preventivi. La salute prima di tutto! E’ massima degli antichi.
In Italia nel 1987 abbiamo bocciato con un referendum il nucleare (80,6 %) non perché non avessimo bisogno di energia ma perché l’installazione di centrali nucleari poteva costituire catastrofi. Ce lo aveva detto l’anno prima il disastro di Chernobyl in Ucraina. Poi sappiamo che centrali nucleari ci sono in molti paesi d’Europa, perfino confinanti col nostro. Il che conferma che progresso e salute non si escludono l’un l’altra, laddove le cose si fanno come Dio comanda.
Ora siamo alle prese con l’ennesima minaccia ambientale. Il governo Renzi ha dato la concessione alla multinazionale Petroceltic Italia a fare delle prospezioni nel mare Adriatico nei pressi delle isole Tremiti per vedere se nella zona c’è petrolio.
Ha tenuto conto il Ministero per lo Sviluppo Economico che in quella parte di mare c’è un Parco Naturale? Ha tenuto conto dell’impatto ambientale e dei rischi che si possono correre? Abbiamo ragione di dubitarne. Infatti sia il governo, per bocca del ministro Federica Guidi, sia i dirigenti italiani della multinazionale in questione, hanno cercato di spostare il problema, minimizzando: ma si tratta solo di prospezioni, non è il caso di allarmarsi. Ma si “prospetta” a che scopo? Gli esperti hanno spiegato che perfino le prospezioni procurano dei danni all’ecosistema. In un articolo apparso sul “Nuovo Quotidiano di Puglia” (13 gennaio 2016) il prof. Ferdinando Boero, docente di Zoologia e Biologia Marina all’Università del Salento, ha detto che “le prospezioni si basano sull’emissione di fortissimi impulsi sonori che hanno sicuramente impatti sui cetacei (delfini, balene e capodogli) e probabilmente anche sul resto della fauna. Le prospezioni non sono qualcosa di innocuo, e già violano la Direttiva Marina dell’Unione Europea” (Le leggi dell’ecologia e le leggi dell’economia, 13 gennaio 2016). Ma, a parte ciò – a parte solo per esigenza retorica – una volta accertato che il petrolio c’è, che si fa, buonasera e grazie e si smonta tutto? Era solo curiosità? Via, cerchiamo di essere seri!
A fronte del referendum contro le trivellazioni, già ammesso dalla Corte Costituzionale, il governo cerca di perdere tempo. Alcuni quesiti sono stati disinnescati da Renzi col cambiamento nella legge di stabilità di norme afferenti la materia, due altri sono oggetto di conflitto di attribuzione davanti alla Consulta. Ed è notizia di oggi, sabato, 6 febbraio, che il Ministero dello Sviluppo Economico ha detto stop alle trivellazioni in mare davanti alle coste dell’Abruzzo, ma non nel Canale di Sicilia e alle Isole Tremiti, dove il limite delle dodici miglia non è garantito.
E’ probabile che il provvedimento del Ministero miri a disinnescare la mina referendaria. Si sa che al governo i referendum sono indigesti. Ma i referendum si devono fare, perché deve essere chiara la volontà dei cittadini su un problema così serio.

Ma, invocati dai comitati promotori per lo svolgimento in un unico giorno con le Amministrative (Election day), anche per il risparmio di trecento milioni di euro, i referendum sono osteggiati perché si teme possano influire sul voto politico degli elettori. Esprimersi contro le trivellazioni in mare è in un certo senso esprimersi contro chi le ha autorizzate o chi potrebbe ancora autorizzarle, ossia il governo. E questo Renzi non lo sopporta. Non teme l’inquinamento del mare e delle coste italiane; teme il referendum contro.