domenica 30 gennaio 2011

Nichi Vendola o della normalizzazione

Non c’è dubbio alcuno che Nichi Vendola è un essere fortunato. In genere la fortuna si volgarizza con quella parte anatomica che s’associa da sempre agli omosessuali, oggi detti, con un termine più vago e carezzoso, gay. Qui nel Salento, poi, i termini relativi alla fortuna e a certe parti anatomiche diventano più coloriti e perciò per buon gusto meno riferibili. Ignoro i motivi di simile associazione; ma se così si dice, viva la saggezza popolare che non sbaglia mai.
Nel caso di Vendola, però, sul fattore fortuna e sulla parte anatomica che la volgarizza occorre insistere, perché quel suo essere omosessuale è componente importante del suo successo. “L’omosessualità – dice di se stesso – è un pezzo del mio scisma dalle «due chiese», dalla chiesa comunista e dalla chiesa cattolica”. Sarà, e gli fa onore; ma resta la sua vicinanza spirituale a ben due chiese, una vocazione bichiesastica, anche se solo per poi allontanarsene dall’una e dall’altra.
Sta di fatto che è stato così abile da trasformare un fattore tradizionalmente negativo, la diversità sessuale, in un fattore di positività, anzi di carisma. La gente oggi ha voglia di diversità. I normali hanno tradito le attese, si sono rivelati banali nelle loro esperienze di vita pubblica e privata. Forse fa eccezione Berlusconi, che, però, è scaduto nel burlesque, genere di spettacolo con donne e donnette, nude e seminude, che si muovono con intenti ed esiti comici e dissacratori fra corpi maschili sfatti e parti anatomiche di difficile resa plastica.
L’ingresso a Montecitorio di Vendola nel 1992 non fu liscio, c’era un contenzioso su quel seggio, risolto in suo favore perché la maggioranza era di centrosinistra e votò pro domo sua. E già questo la dice lunga, anche se è in coerenza con tutto il suo vissuto. Lui beneficia sempre di situazioni indipendenti dai suoi meriti, che pure ha.
Poi è indubbio che sappia fare. Così lui stesso sintetizza: “Ci sono sempre due vocazioni in me. Il Nichi Vendola ludico, anarchico, infantile, narcisista. E quello instancabile, organizzatore, sorvegliato speciale delle sue stesse passioni, investito dei suoi doveri pubblici. Che è capace di piegare la sua indole e di scommettere le scommesse più paradossali della sua vita”.
Attenzione a quel “sorvegliato speciale”. C’è in Vendola una componente inquietante, che lui fa passare per “ludico-anarchico-infantile”. E’ in quello sguardo torvo, tendente all’alto, accentuato da un viso tondo e paffuto che contrasta con le linee spigolose di chi mostra senza riserve quel che è. Nichi Vendola non ha ancora detto chi è. Nell’espressione tradisce una condizione che sente come sua connaturata, si sente un “sorvegliato speciale”. Ma, attenzione, avrebbe potuto dire banalmente: c’è un Nichi Vendola che sa dominare le sue passioni; invece ha rovesciato con un’abile manovra retorica i termini usando un genitivo soggettivo, con l’oggetto (passioni) che diventa soggetto e lui “sorvegliato speciale”. Si compiace sentirsi un eversore sociale: è il suo narcisismo.
Anche quel suo essere appena appena balbuziente è un tocco di pennello nella campitura. Il suo eloquio non è lineare, ma va per circonlocuzioni. Interrompe un periodo, apre un inciso e poi un altro, esercita rapide giravolte discorsive con sorprendenti metafore simboliche ed evocative, che destano stupore e coinvolgono emotivamente l’uditorio, come le ingegnosità barocche. Ma, alla fine, che ha detto? Boh! Piace, e tanto basta. C’è, tra i suoi esegeti, chi ne studia la lingua e la sintassi come fenomeno di comunicazione poetico-politica. Si ritiene lui stesso un poeta.
All’epoca del suo primo scontro con Fitto per la presidenza delle regionali mi sembrava un personaggio importante; sufficientemente colto, intelligente, faticatore, coerente e coraggioso. Per la presidenza della regione, pur con qualche riserva, e non di ordine banalmente fisico, poteva andar bene. E poi, confesso, io, elettore obtorto collo di Fitto, volevo rendere a questi più importante una vittoria che a me e non solo a me sembrava scontata. Invece non fu così, vinse il diverso, diventato bacino di tutte le confluenze rivendicazionistiche ed antiberlusconiane, qui nella Puglia si dicono antifittiane perché incardinate nel più banale degli uomini politici: Raffaele Fitto. Fu la vittoria della diversità sulla normalità. Ma già la prima vittoria alle primarie della sua area politica vs il postdemocristiano Francesco Boccia, altro normale, fu il frutto della sua connaturata fortuna, di alcuni brogli primar-elettorali, e dell’appoggio di tanta stampa locale che creava gli spot elettorali per farli passare come fatti di cronaca. Una mattina a Lecce sui monumenti più importanti erano appesi cartelloni con scritte che inneggiavano a Vendola e sparlavano di Fitto. Il giorno dopo i quotidiani locali riempirono pagine e paginoni con monumenti e slogan.
Altra fortuna sfacciata al suo secondo successo, dopo aver liquidato con irrisoria facilità il povero Boccia, nuovamente bocciato. Vendola se la vide con una figura modesta, una sorta di vittima sacrificale di Fitto, al quale non andava giù che un altro riuscisse dove lui aveva fallito. In questo fu aiutato dai nemici giurati della Poli Bortone, l’unica che avrebbe potuto contendergli, non dico sicuramente vincere, la presidenza della Regione. Ma sono tappe, queste, che nel vissuto dell’uomo di Terlizzi sono banali momenti della sua eccezionale fortuna.
Di recente un sociologo dell’Università di Bari, Onofrio Romano, ha scritto un saggio su Vendola e sulle famose “Fabbriche di Nichi”, che fuori dal linguaggio retorico sono dei comitati politico-elettorali a servizio permanente effettivo con lo scopo di fabbricare il consenso. Qualcosa che evoca i titoli di due famosi saggi, uno di Dino Biondi, “La fabbrica del Duce”, e l’altro di Renzo De Felice, “Gli anni del consenso”, entrambi riferiti a Mussolini.
A proposito dei dirigenti della “Fabbrica Zero”, un po’ la sede centrale di questa organizzazione, Romano scrive: “Quasi tutti hanno un rapporto di carattere professionale con la Regione Puglia: in gran parte si tratta di consulenti gravitanti all’interno degli assessorati più significativi, ma ci sono liberi professionisti che intestano all’ente una quota consistente delle loro parcelle, nonché membri di società e associazioni che lavorano con progetti finanziati dalla Regione. Di fatto, parte dell’attività professionale finanziata dall’ente viene condotta a beneficio delle Fabbriche”. Per Romano si tratta di strutture al cui interno si opera in un rapporto gerarchico ed utilizzano strumenti di marketing e pertanto “non si inquadrano in un modello di tipo democratico”.
Come dire che il diverso Vendola va sempre più normalizzandosi man mano che avanza verso la candidatura alla Presidenza del Consiglio. Ma il suo normalizzarsi lo fa scendere dall’Olimpo della sua diversità sui pascoli dell’Arcadia, dove tanti venditori di illusioni hanno pure conosciuto fasti ma anche infauste conclusioni. Nella sua area politica se ne sono accorti, e già incomincia a perdere colpi.
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domenica 23 gennaio 2011

Magistratura-Berlusconi: è duello d'onore!

In un paese serio lo scontro Magistratura-Berlusconi dovrebbe concludersi con la decapitazione – politica, per carità! – di una delle due parti. A prescindere dalle nefandezze, vere o presunte, di Berlusconi e dalle persecuzioni giudiziarie, anche queste vere o presunte, da parte della magistratura, uno scontro di tale portata dovrebbe risolversi senza compromessi. Secondo regole cavalleresche o dei duelli d’onore: all’ultimo sangue!
Se Berlusconi si è macchiato ed ha macchiato l’istituzione che rappresenta e la nazione tutta di quelle colpe contestategli, allora deve essere bandito da qualsiasi carica pubblica. Se, invece, è stata la magistratura a farsi parte politica e a perseguitare coi suoi potenti mezzi Berlusconi, allora quei giudici che ne hanno fatto parte siano condannati a vivere il resto dei loro giorni in qualche centro sociale di loro scelta. Se invece gravi colpe hanno sia l’una che l’altra parte, come probabilmente è, allora si puniscano entrambe nelle persone coinvolte, una volta per tutte.
Il mondo intero se la ride di un Presidente del Consiglio che organizza orge e festini nella sua casa e di una magistratura che fa politica. Sarebbe già grave se il mondo ci deridesse soltanto per una delle due cose; essere derisi per entrambe francamente è insopportabile. L’una cosa rende più appariscente l’altra, in un reciproco ingigantirsi agli occhi di tutti.
Non c’è chi non condanni la condotta di Berlusconi, ma non c’è neppure chi non si preoccupi dei comportamenti di certi magistrati, che si dimostrano impegnati in qualcosa che gli austriaci nella prima guerra mondiale chiamarono Strafexpedition (spedizione punitiva). Lo stesso Presidente della Repubblica, nel parlare di turbamento, non può rivolgersi che alle due parti.
Ormai è di tutta evidenza che le ragioni dell’una e dell’altra parte non contano nulla in confronto agli interessi della nazione. Il popolo italiano è stanco di sentirsi come ad una lotta tra galli e a fare il tifo per l’uno o per l’altro.
Cosa assai grave il constatare come in questo paese non esistono più autorità tali da poter intervenire con autorevolezza e forza. La Chiesa si limita a generici richiami; la Presidenza della Repubblica ad altrettante generiche preoccupazioni. Gli organi superiori della magistratura esprimono un interesse corporativo e politico degno di miglior causa. L’intellighenzia è divisa sugli spalti ed ha perso di credibilità. I figli di Berlusconi, che potrebbero intervenire sul genitore per essere risparmiati da tanto fango che piove loro addosso, non riescono a dire né ai né bai. Le stesse forze politiche alleate di Berlusconi non riescono a fargli capire di avere comportamenti più decorosi per il bene e l’interesse di tutti e si schierano in sua difesa come se fossero alle Termopili.
Mi chiedo dove è andata a finire la destra etica e sociale in questo paese; la destra della legalità, una volta diffusa in tutti gli strati sociali. Condannata a trasformarsi in forza di governo, la destra politica che si rifaceva allo Stato etico e allo Stato sociale, oggi, ha perfino paura non dico di guardarsi indietro, per non trasformarsi in Gorgone, ma addirittura di volgere lo sguardo a lato per vedere qual gente si ritrova accanto.
La componente ex missina ed ex aennina, quella rimasta immune da fughe verso un truffaldino ignoto moderno ed europeo del Frègoli-Fini, non impone a Berlusconi di comportarsi in maniera più composta, dal momento che non è solo in gioco la sua personale reputazione ma anche quella di tutta la parte politica che rappresenta, nell’insieme e nei singoli, e dell’intera nazione.
C’è una parte della classe politica di centrodestra che è di tutto rispetto, che rappresenta davvero la parte migliore del processo di trasformazione della politica di questi ultimi anni. Mi riferisco ai tanti ministri che hanno dimostrato non solo di saper fare i ministri ma hanno avuto anche una condotta esemplare come uomini privati e pubblici. Tremonti, Maroni, Frattini, Gelmini, Brunetta, Carfagna, Alfano, Prestigiacomo, La Russa, possono piacere o non piacere, ma non risultano nelle cronache del pettegolezzo e della malversazione. Perché non si fanno forti di questa loro riconosciutagli autorevolezza, conquistata sul campo, per pretendere da Berlusconi maggiore rispetto delle regole, adeguata prudenza nei comportamenti pubblici e privati, una maggiore oculatezza nella scelta di certi frequentatori della sua casa?
Non si capisce che rapporto possano avere gli ex missini con gente depravata e degenerata come le losche figure chiamate in causa in questi giorni. Una volta a destra si aveva ribrezzo per puttane, magnacci e affini, perché poi tali sono frequentatrici e frequentatori di Berlusconi. Oggi, invece, inspiegabilmente, a destra si ritiene che frequentare simile gentaglia è segno di emancipazione politica e conquista di credibilità democratica. Quando mai sono stati liberali e garantisti i missini quando era in gioco il superiore interesse della nazione?
I cittadini si sentono non solo schifati e preoccupati da quanto sta succedendo nel nostro Paese, ma singolarmente non c’è chi non si senta mortificato nell’immaginare un uomo come Berlusconi, che per altri aspetti ha dimostrato di essere uomo di valore e di grandi risorse umane, mettere il suo onore e il suo destino politico fra le gambe di quattro insulse zoccolette e nelle mani di qualche rivoltante lenone.
Per altro verso non c’è cittadino che non sia incazzato di brutto per una magistratura che non ha tempo e mezzi per risolvere i problemi giudiziari della gente e poi ha tempi e mezzi ad abundantiam per spiare in casa dei politici da perseguitare; per una magistratura che ottunde il senso dello Stato e gli interessi della nazione con un presunto inanimato automatismo giudiziario.
In un paese serio tutto questo non sarebbe accaduto, non accadrebbe. Nel nostro è condizione ormai abituale. Se vogliamo recuperare la giusta dimensione dobbiamo fare piazza pulita, incominciando dalla partita che si è aperta da sedici anni a questa parte: o Berlusconi o la magistratura deviata o entrambi devono essere puniti.
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domenica 16 gennaio 2011

Giustizia e Berlusconi: il morbo infuria

All’indomani del terzo rigetto del lodo sul legittimo impedimento da parte della Corte Costituzionale, ipocritamente interpretato da ciascuno come un successo della propria parte politica, Berlusconi ha ricevuto l’ennesimo avviso di reato. Una coincidenza da traffico ferroviario elvetico. Questa volta, tanto per cambiare, è accusato di prostituzione minorile con una coda di altri non meno gravi reati. Una vicenda da film-panettone, con Lele Mora per regista ed Emilio Fede aiuto, non per caso avvisati di reato anch’essi. Non stiamo scherzando. Dalla Noemi/Papi alla Ruby/Bunga-Bunga il Paese è tutto un set cinematografico sotto gli occhi del mondo intero.
Benché ormai questa schifosissima minestra ci venga propinata da sedici anni, mattina, mezzogiorno e sera, lo stomaco non si è assuefatto; e viene da vomitare ogni volta. Non è solo imbarazzante; è intollerabile! Usare anatemi, appellandosi all’etica e alle pubbliche virtù, che in questa nostra terra vigono dai tempi della Roma più antica, è come dichiarare il fallimento di una millenaria civiltà, che dimostra di non avere più strumenti di difesa.
Il ruolo di Presidente del Consiglio espone inevitabilmente al pubblico. Né Berlusconi né altri per lui possono perciò eccepire la privacy. Non c’è vita privata che tenga per uno che ha il ruolo di guida di una nazione. Si può solo negare la materia dell’accusa. E questo fanno l’interessato e i suoi legali, per i quali fino ad oggi ha speso trecento milioni di Euro. Ipse dixit.
Per comodità di ragionamento diamo per vero tutto quello che si dice di lui, e che lui stesso in parte non nega. Un cittadino che si rispetti, però, che abbia un minimo di pensiero critico e che ha il diritto di influenzare col voto la vita del Paese, non può fermarsi all’indignazione, gratis e scontata come l’olio santo; ha almeno tre tappe mentali da percorrere.
La prima è che Berlusconi espone il Paese al ludibrio internazionale per vizio; la magistratura italiana lo espone all'ammirazione per virtù. Pare che il vizio dell’uno e la virtù dell’altra siano irrinunciabili. Ma chi fa la peggiore figura è quella parte maggioritaria del popolo italiano, che, puntualmente, nonostante tutto, vota Berlusconi. Sicché il vizio ricade sulla parte che lo difende e lo vota, la virtù sulla parte che lo denuncia e lo combatte. Saranno pure esemplificazioni, queste, ma tant’è: viziosi contro virtuosi. Una simile divaricazione è fuorviante e inaccettabile.
La seconda è che chi sta con Berlusconi non può assumersi la parte del vizio così, sic et simpliciter. Prima di tutto ha il diritto di chiedersi perché tanto accanimento giudiziario nei confronti di Berlusconi, che, vizi personali a parte, interpreta il pensiero politico e le esigenze di milioni di cittadini, rappresenta il Paese ai massimi livelli internazionali al punto che i suoi successi personali sono anche i successi del Paese Italia. Siccome non stiamo parlando solamente di donnette che si appassionano al “Grande Fratello” e si commuovono partecipando alle gare di “Amici”, ma anche di persone che sanno perfettamente come sono andate e come vanno le cose in Italia, ecco che non è irrilevante una videata sulla magistratura virtuosa. La lentezza, per non definirla diversamente, della magistratura italiana è proverbiale nel mondo quanto gli spaghetti e la pizza. Stupisce, invece, che nel caso di Berlusconi sia così solerte, puntuale e continua al punto da configurarsi come un Tribunale Speciale. E’ altrettanto provato, inoltre, quanto e più delle scorribande erotiche di Berlusconi, che una cospicua parte della magistratura viene da una formazione comunista e che da sempre si sente milizia al servizio di quel partito comunista o di quel che resta, che nelle intenzioni doveva conquistare il potere per l’autentica liberazione del Paese. Questa magistratura deve il posto che occupa a quel partito. Si sa che il Partito comunista aveva le sue scuole di formazione che preparavano ai concorsi per entrare in magistratura; ne aveva altre con lo stesso obiettivo: occupare posti di dirigenza in ogni altro settore della vita pubblica. Era la strategia della rivoluzione strisciante, dopo che era stata abbandonata, perché non praticabile, quella violenta e d’impatto. Queste cose oggi sembrano fantapolitica. Invece sono cose ovvie, scontate, banali. I partiti politici – e il Partito comunista era il più Partito di tutti, non per niente il suo segretario era detto il Migliore – conquistavano consensi attraverso l’occupazione di centri dirigenziali e decisionali a tutti i livelli. Stupisce come una simile lettura venga rifiutata, quando è sufficiente prendere un qualsiasi manualetto di politica o di storia dell’Italia della seconda metà del Novecento per illuminarsi sulle tecniche usate dai partiti per conquistare il consenso. Ciò non significa che la magistratura militante avvii l’azione giudiziaria contro Berlusconi quando viene a conoscenza di un reato che lo riguardi, peraltro c’è l’obbligatorietà dell’azione penale, solo per impegno politico; significa semplicemente che essa avvia il procedimento giudiziario anche quando sa perfettamente che non porta ad alcun risultato concreto, solo per infliggere un colpo all’immagine di Berlusconi, costringendolo a ricorrere agli avvocati, ad impedirgli di governare con efficacia. A questa magistratura non importa tanto condannare Berlusconi nell’immediato, quanto continuare a tenerlo sotto scacco, impedirgli di far politica sotto l’assedio giudiziario; gutta cavat lapidem dicevano i latini. Tutto questo ormai è così evidente che non c’è persona di medio-bassa intelligenza che non lo abbia capito. Questa magistratura è il braccio giudiziario di una parte politica, nella fattispecie del centrosinistra. Negarlo estende la malafede anche dove non c’è.
La terza tappa è squisitamente politica. Chi sta nel centrodestra si indigna delle stravaganze di Berlusconi né più né meno di chi sta nel centrosinistra. Lo schifo – stavo per dire un’altra cosa – è schifo per tutti. Ma se uno sta dalla parte di Berlusconi è per ragioni politiche, perché ne condivide in tutto o in parte l’azione politica, si riconosce in tutto o in parte nella sua visione delle cose pubbliche. E aggiungo: si rende ben conto che né nel centrodestra né tanto meno nel centrosinistra ci sono al momento alternative a Berlusconi. Sicché piuttosto che abbattere una realtà, che pur non piace per certi aspetti ma non ha un minimo di alternativa, preferisce un governo che governi pur che sia nella speranza che nel frattempo maturino nuove situazioni politiche, nella direzione politica evidentemente auspicata, ma qualitativamente migliore e soprattutto più decorosa.
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domenica 9 gennaio 2011

Lasciamo perdere Battisti, è molto meglio per tutti

Peggio del male in sé è il parlarne, specialmente quando produce memorie terribili e non c’è un comune sentire nazionale sulla stessa vicenda; ed anzi alle lacerazioni prodotte si aggiungono altre lacerazioni. E’ il caso della vicenda Battisti, di cui, ora per un diniego di estradizione, ora per un altro, si continua a parlarne col rischio anche di rovinare i rapporti internazionali del nostro Paese, ora con la Francia, ora col Brasile.
Il Presidente Napolitano lo ha amaramente ammesso: non siamo riusciti a farci capire dagli amici, vicini e lontani, su che cosa è stato il terrorismo in Italia e quali sacrifici ha comportato combatterlo e sconfiggerlo. In linguaggio diplomatico è il risentimento nei confronti di Francia e Brasile per averci negato il pluriomicida Battisti perché scontasse la pena in Italia.
Oltre tutto, in atmosfere celebrative dell’Unità d’Italia il nome di Cesare Battisti evoca altri personaggi, che meriterebbero ben altra rimembranza. Evoca Cesare Battisti, l’irredentista trentino, socialista, amico di Mussolini ai tempi de “L’Avvenire del lavoratore”, giustiziato dagli Austriaci nel 1916 per la sua italianità. Si ritrova circa un secolo dopo a dover spartire la completa omonimia, di nome e cognome, con un terrorista, pluriomicida e pluricondannato.
Si dice che Battisti sia oggi un bravo scrittore di noir, un genere che evidentemente ce l’ha nel patrimonio genetico e nel vissuto personale. I ragazzi di oggi, che non conoscono più la storia d’Italia, non sanno chi è Cesare Battisti “uno”, ma, a forza di sentir nominare tutti i giorni questo nome, sanno chi è Cesare Battisti “due”, il solo Cesare Battisti che conoscono.
Qualcuno dirà: si metterà fine a questa triste ed incresciosa vicenda nel momento in cui sarà estradato in Italia, dove sconterà i suoi quattro ergastoli, passati in giudicato.
Non sono d’accordo, non perché non ritenga che non debba scontare la pena – in fondo è da anni che vive in pena, un po’ in fuga e un po’ in prigione – anzi, ma perché per come potrebbero mettersi le cose in Italia col suo rientro si aggiungerebbe danno al danno; si aprirebbe un nuovo capitolo. Rischieremmo di sentir parlare di lui chissà per quanti anni ancora. Poiché – siamone certi – ricomincerebbe il solito tormentone della grazia, come è accaduto per Adriano Sofri, il leader di “Lotta Continua” condannato quale mandante dell’assassinio del Commissario Luigi Calabresi, oggi riverito editorialista de “la Repubblica”. Non fosse altro che per questa malaugurata ipotesi, facendo violenza al mio concetto di giustizia punitivamente educativa, ritengo che quel Battisti vada lasciato dove sta.
Non sembri incoerente. La vicenda Battisti ha aperto tre fronti di discussione, sui quali occorre riflettere con freddezza. Uno, è che chi commette delle azioni criminose, quali che siano i motivi ad averlo indotto, deve scontare la pena per una prioritaria esigenza sociale e per il rispetto delle vittime. Due, di fronte ad un fenomeno così complesso e articolato come fu il terrorismo va cercata una soluzione politica che i casi singoli comprenda e superi, una sorta di sanatoria sociale. Tre, non si possono mettere in crisi i rapporti internazionali per una questione che tutto sommato è di giustizia e di storia interna.
Sul primo fronte, sono del parere che chi commette un delitto e viene condannato debba scontare la pena fino in fondo, a prescindere da ogni e qualsiasi considerazione. E’ bensì vero che la Costituzione della Repubblica, all’art. 27, vuole che “Le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ciò non esclude che debbano essere scontate. Nel vivere la pena, il condannato non solo può rieducarsi, ma può diventare un esempio per gli altri.
Quanto al secondo fronte, alla teoria cossighiana della “guerra civile”, per cui bisognerebbe trovare una soluzione politica, non si può non rilevare che essa riduce quella complessa vicenda ad una guerra circoscritta a belligeranti politici ed esclude la società. In via di principio è sbagliato aprire varchi nella sovranità dello Stato, creare discontinuità, delle zone franche, all’interno delle quali giustificare delitti nei confronti dello Stato stesso, delle sue istituzioni e di privati cittadini. Vorrebbe dire che lo Stato, concedendo e concedendosi una qualche vacatio, viene meno ad uno dei punti fondanti del patto sociale: l’amministrazione della giustizia. E ciò è assolutamente inammissibile. Le forze politiche “belligeranti” possono riconoscere torti e ragioni, avere pentimenti o altro, ma non possono pretendere di creare un vulnus allo Stato, che deve imporre sempre il dominio della legge. Per certi aspetti il fatto che Battisti sia fuori d’Italia e che non ce lo vogliano estradare non è giusto ma conveniente. Se fosse in Italia sarebbe peggio, verrebbero fuori le più accese tesi innocentiste o colpevoliste, giustificazioniste o intransigenti. Non dobbiamo dimenticare che furono migliaia i firmatari del manifesto in suo favore. Il danno che ne deriverebbe sotto il profilo politico sarebbe ancor più grave di quello umano prima e giuridico poi.
Il terzo fronte si differenzia dai primi due perché riguarda i rapporti esterni dello Stato. Qui sono in gioco altri e più importanti interessi. La Francia, per esempio, è una nazione sorella, fa parte da sempre della Comunità Europea. Diverso è il discorso della Carla Bruni: per fortuna non siamo tutti figli di sua madre. Col Brasile abbiamo rapporti economici tra i più importanti. Incrinare i buoni rapporti con questi due Paesi sarebbe sbagliato. Certo, resta lo schiaffo che ci rifilò la Francia qualche anno fa, quando fece graziosamente scappare Battisti, e lo schiaffo del Brasile, che addirittura ci nega l’estradizione con ragioni offensive e lesive della nostra dignità.
Se l’Italia fosse il paese che le autorità politiche brasiliane sospettano, e cioè un paese rancoroso e disposto comunque a farla pagare a Battisti, non sarebbe poi un’impresa impossibile raggiungerlo in casa loro e fargli fare la fine che merita. Come hanno sempre fatto e come tuttora fanno certi paesi, tra comunismo e banditismo, a cui quel Lula si è sempre ispirato.
L’Italia, invece, è così civile che mentre richiede l’estradizione, per un’insopprimibile esigenza di civiltà giuridica, spera che non gliela concedano per una cinica convenienza politica. Ma Lula questo non lo può capire!
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domenica 2 gennaio 2011

Ma perché gli avvocati non stanno ai fatti?

Mi sono sempre chiesto perché gli avvocati, che facciano arringhe o requisitorie, a seconda che difendano o accusino, non stanno ai fatti. Hanno bisogno sempre di scantonare, di aprire verso direzioni diverse, di minimizzare o ingigantire per collocare fatti e persone in un contesto in cui spesso stanno come i cavoli a merenda. Uno è imputato di violenza? Ebbene l’avvocato che lo difende dice che è un buono, che in una circostanza ha aiutato una vecchietta a portare un pacco pesante al primo piano di casa, che fa sempre la carità ai semafori, che ha difeso per strada una ragazza da un molestatore, che si è sempre prodigato per gli altri e via di questo passo. Sì, ma nella circostanza oggetto di causa, è stato o no violento? Accipicchia, dice l’avvocato che lo attacca. Non può non essere violento uno che da bambino si divertiva a bruciare i cassonetti della spazzatura e a rompere i lampioni della pubblica illuminazione, che è figlio di un delinquente, di una madre che è una poco di buono, che ha una sorella che fa la bella vita ed un fratello drogato e spacciatore. E poi – conclude – uno con una faccia simile, che fa paura al solo vederlo, può non essere un malvagio?
Ora, perché i giudici non interrompono gli avvocati incontinenti e sproloquianti quando stanno per andare oltre il fatto e fissarli in re? Perché permettono che facciano apprezzamenti su persone che a quel fatto sono estranee? Che sconfinino in valutazioni addirittura di tipo razzista e lombrosiano? Perché permettono che una ragazza che ha subito una violenza venga sottoposta in aula da parte dell’avvocato che difende il violentatore ad apprezzamenti lesivi della sua reputazione, con l’aggiunta di violenza a violenza?
Dipendesse da me, per una autentica riforma della giustizia, partirei dalla riforma di tutti i suoi operatori. Una riforma culturale, predisponendo anche meccanismi per i contravventori. Agli avvocati imporrei una rigorosa aderenza al fatto del contendere, all’insegna dell’essenzialità.
Una volta agli esami di maturità, quando la prova scritta d’italiano era un tema – parlo per cognizione di causa, avendo fatto il commissario d’italiano in decine e decine di esami di Stato – il primo criterio di valutazione della commissione era “aderenza alla traccia”, conditio sine qua non per evitare di dover valutare un elaborato, magari un capolavoro ma che con la traccia non aveva attinenza alcuna, o solo qualche parziale riferimento.
Aderenza, dunque, ed essenzialità. Si ridurrebbero i tempi dei processi e soprattutto non si trasformerebbero le aule giudiziarie in pollai, con tanti galli e galline che si beccano, ai danni del cittadino, sia che si trovi lì come imputato, sia come parte lesa, sia come teste.
Credo che sia capitato a chiunque nella vita di trovarsi in un’aula giudiziaria. Si sarà reso conto che è una delle disgrazie più fastidiose, non dico gravi; ce ne sono altre, ai cani dicendo. Anzi, neppure ai cani, per non offendere gli animalisti.
Capitò a me, qualche anno fa. Seppi in quella disgraziata circostanza di essere un calunniatore, un tracotante, uno che si divertiva ad insultare chi invece si prodigava per il bene comune. Io avevo la colpa di aver pubblicato un articolo sul periodico che dirigevo in cui si denunciava la malefatta di un sindaco, il quale querelò me e l’articolista. Quel sindaco era un comunista e ci querelò non per dimostrare che avesse ragione e noi torto, ma perché comunque ci infliggeva un danno economico, secondo una tattica ampiamente collaudata e applicata contro la stampa nemica. L’avvocato che difendeva quel sindaco ci accusò di essere dei calunniatori, avendo pubblicato notizie false e tendenziose, e che il suo cliente era così buono che era disposto a perdonarci. Noi rifiutammo la proposta di remissione di querela avanzata anche dal Presidente, che voleva accordarci, e chiedemmo invece che si discutesse nel merito. Per tutta risposta, quell’avvocato gridò ore rotundo e con gestualità teatrale: “Ecco, Signor Presidente, che Le avevo detto? Sono due tracotanti”.
E dire che io e il mio collaboratore eravamo convinti di essere dei benemeriti della pubblica moralità!
In un’altra occasione seppi di essere un violento, un tiranno, un torturatore e “non aggiungo altro” – disse quel miserabile di avvocato – ché se dicessi quello che so sul suo conto non lo farei più uscire di casa”. Figurarsi, dovevo andare ogni giorno a scuola! Pure invenzioni con la tecnica della preterizione: e non dico che…, tipica degli avvocati. Un linciaggio vero e proprio, che con la fattispecie, oltre tutto, non c’entrava niente, cui il Presidente della Corte d’Appello assisteva ne verbum quidem.
Recentemente, nel processo di primo grado contro il giovane Colitti di Ugento per l’assassinio di Peppino Basile, l’avvocatessa che lo difendeva nella sua arringa è andata a finire a cose che col delitto e con l’accusa non c’entravano a niente, della serie: il sindaco aveva portato dei fiori alla bambina che aveva testimoniato, la tesi del parroco “coraggio” e via di seguito, che evocavano aspre polemiche avvenute nel paese e che sconfinavano nella politica. E quando il sindaco si è pubblicamente lamentato, la bellicosa avvocatessa lo ha attaccato extra moenia. E non si è fermata lì, perché se l’è presa con il Pubblico ministero e ne ha avute anche per il capo della Procura, che aveva commentato con molta prudenza e con rispetto la sentenza di assoluzione, da lui trovata “singolare”.
Gli avvocati dovrebbero darsi una regolata. Essi sono uno dei mali della giustizia. Anzi, non sarebbe esagerato dire che la giustizia italiana è la giustizia degli avvocati e in subordine dei magistrati e delle procure. Quando si parla della giustizia che non funziona, stranamente non si parla mai di loro. La colpa è di tutti, dal Ministro agli uscieri; degli avvocati mai. Mancherà pure la carta per le fotocopiatrici, mancherà pure il personale, mancherà tutto quello che si vuole; ma quel che manca soprattutto è l’etica del rispetto, quella che non si può comprare ma sicuramente imporre fino a quando non si fa per scelta e con convinzione ciò che si fa per obbligo e costrizione.
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