domenica 2 gennaio 2011

Ma perché gli avvocati non stanno ai fatti?

Mi sono sempre chiesto perché gli avvocati, che facciano arringhe o requisitorie, a seconda che difendano o accusino, non stanno ai fatti. Hanno bisogno sempre di scantonare, di aprire verso direzioni diverse, di minimizzare o ingigantire per collocare fatti e persone in un contesto in cui spesso stanno come i cavoli a merenda. Uno è imputato di violenza? Ebbene l’avvocato che lo difende dice che è un buono, che in una circostanza ha aiutato una vecchietta a portare un pacco pesante al primo piano di casa, che fa sempre la carità ai semafori, che ha difeso per strada una ragazza da un molestatore, che si è sempre prodigato per gli altri e via di questo passo. Sì, ma nella circostanza oggetto di causa, è stato o no violento? Accipicchia, dice l’avvocato che lo attacca. Non può non essere violento uno che da bambino si divertiva a bruciare i cassonetti della spazzatura e a rompere i lampioni della pubblica illuminazione, che è figlio di un delinquente, di una madre che è una poco di buono, che ha una sorella che fa la bella vita ed un fratello drogato e spacciatore. E poi – conclude – uno con una faccia simile, che fa paura al solo vederlo, può non essere un malvagio?
Ora, perché i giudici non interrompono gli avvocati incontinenti e sproloquianti quando stanno per andare oltre il fatto e fissarli in re? Perché permettono che facciano apprezzamenti su persone che a quel fatto sono estranee? Che sconfinino in valutazioni addirittura di tipo razzista e lombrosiano? Perché permettono che una ragazza che ha subito una violenza venga sottoposta in aula da parte dell’avvocato che difende il violentatore ad apprezzamenti lesivi della sua reputazione, con l’aggiunta di violenza a violenza?
Dipendesse da me, per una autentica riforma della giustizia, partirei dalla riforma di tutti i suoi operatori. Una riforma culturale, predisponendo anche meccanismi per i contravventori. Agli avvocati imporrei una rigorosa aderenza al fatto del contendere, all’insegna dell’essenzialità.
Una volta agli esami di maturità, quando la prova scritta d’italiano era un tema – parlo per cognizione di causa, avendo fatto il commissario d’italiano in decine e decine di esami di Stato – il primo criterio di valutazione della commissione era “aderenza alla traccia”, conditio sine qua non per evitare di dover valutare un elaborato, magari un capolavoro ma che con la traccia non aveva attinenza alcuna, o solo qualche parziale riferimento.
Aderenza, dunque, ed essenzialità. Si ridurrebbero i tempi dei processi e soprattutto non si trasformerebbero le aule giudiziarie in pollai, con tanti galli e galline che si beccano, ai danni del cittadino, sia che si trovi lì come imputato, sia come parte lesa, sia come teste.
Credo che sia capitato a chiunque nella vita di trovarsi in un’aula giudiziaria. Si sarà reso conto che è una delle disgrazie più fastidiose, non dico gravi; ce ne sono altre, ai cani dicendo. Anzi, neppure ai cani, per non offendere gli animalisti.
Capitò a me, qualche anno fa. Seppi in quella disgraziata circostanza di essere un calunniatore, un tracotante, uno che si divertiva ad insultare chi invece si prodigava per il bene comune. Io avevo la colpa di aver pubblicato un articolo sul periodico che dirigevo in cui si denunciava la malefatta di un sindaco, il quale querelò me e l’articolista. Quel sindaco era un comunista e ci querelò non per dimostrare che avesse ragione e noi torto, ma perché comunque ci infliggeva un danno economico, secondo una tattica ampiamente collaudata e applicata contro la stampa nemica. L’avvocato che difendeva quel sindaco ci accusò di essere dei calunniatori, avendo pubblicato notizie false e tendenziose, e che il suo cliente era così buono che era disposto a perdonarci. Noi rifiutammo la proposta di remissione di querela avanzata anche dal Presidente, che voleva accordarci, e chiedemmo invece che si discutesse nel merito. Per tutta risposta, quell’avvocato gridò ore rotundo e con gestualità teatrale: “Ecco, Signor Presidente, che Le avevo detto? Sono due tracotanti”.
E dire che io e il mio collaboratore eravamo convinti di essere dei benemeriti della pubblica moralità!
In un’altra occasione seppi di essere un violento, un tiranno, un torturatore e “non aggiungo altro” – disse quel miserabile di avvocato – ché se dicessi quello che so sul suo conto non lo farei più uscire di casa”. Figurarsi, dovevo andare ogni giorno a scuola! Pure invenzioni con la tecnica della preterizione: e non dico che…, tipica degli avvocati. Un linciaggio vero e proprio, che con la fattispecie, oltre tutto, non c’entrava niente, cui il Presidente della Corte d’Appello assisteva ne verbum quidem.
Recentemente, nel processo di primo grado contro il giovane Colitti di Ugento per l’assassinio di Peppino Basile, l’avvocatessa che lo difendeva nella sua arringa è andata a finire a cose che col delitto e con l’accusa non c’entravano a niente, della serie: il sindaco aveva portato dei fiori alla bambina che aveva testimoniato, la tesi del parroco “coraggio” e via di seguito, che evocavano aspre polemiche avvenute nel paese e che sconfinavano nella politica. E quando il sindaco si è pubblicamente lamentato, la bellicosa avvocatessa lo ha attaccato extra moenia. E non si è fermata lì, perché se l’è presa con il Pubblico ministero e ne ha avute anche per il capo della Procura, che aveva commentato con molta prudenza e con rispetto la sentenza di assoluzione, da lui trovata “singolare”.
Gli avvocati dovrebbero darsi una regolata. Essi sono uno dei mali della giustizia. Anzi, non sarebbe esagerato dire che la giustizia italiana è la giustizia degli avvocati e in subordine dei magistrati e delle procure. Quando si parla della giustizia che non funziona, stranamente non si parla mai di loro. La colpa è di tutti, dal Ministro agli uscieri; degli avvocati mai. Mancherà pure la carta per le fotocopiatrici, mancherà pure il personale, mancherà tutto quello che si vuole; ma quel che manca soprattutto è l’etica del rispetto, quella che non si può comprare ma sicuramente imporre fino a quando non si fa per scelta e con convinzione ciò che si fa per obbligo e costrizione.
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