martedì 26 febbraio 2013

Ha vinto il voto-veto



Forse è appena il caso di ricordare che “voto” significa, nell’accezione più letterale e immediata, espressione di volontà. In quanto tale, ha in sé un’accezione di positività. Si vota perché si faccia in un modo e non in un altro, si vota una persona perché la si ritiene più capace di un’altra.
Perché questa premessa? Perché ancora una volta col voto del 24 e 25 febbraio 2013 ha trionfato il “non voto”, un’espressione di “nolontà”, una nozione tomistica, un’indicazione “contro” qualcuno o qualcosa, la fuga da un male. Mi riferisco soprattutto al voto espresso a Grillo, che risulta il primo partito alla Camera. Partito, si fa per dire. Chi ha votato Grillo, senza conoscere né i programmi né le persone che se ne facciano garanti, ha voluto semplicemente protestare. Ha voluto dire basta ad una classe politica abbondantemente ciarliera, litigiosa, incapace e disonesta; ma senza conoscere altro, convinta forse che egli abbia portato da chissà quale pianeta un carico di uomini nuovi di zecca, tutti discreti, capaci e onesti. 
Ma non solo chi ha votato per Grillo ha inteso essere piuttosto “anti” che “pro”. Chi ha ridato la sua fiducia a Berlusconi, per esempio, lo ha fatto per un’avversione irriducibile nei confronti della sinistra comunque essa si presenti. E perfino chi ha votato Bersani e le liste di sinistra lo ha fatto per un’avversione viscerale nei confronti di Berlusconi. Così per Monti e via dicendo. Chiaro che la generalizzazione va presa solo per cogliere il nocciolo della questione. Va da sé che ci sono stati elettori convintamente berlusconiani, convintamente bersaniani, convintamente montiani. Ma quanti?
La vittoria di Grillo è figlia del porcellum e dei media. In una consultazione elettorale con voto di preferenza, domanda: dove Grillo avrebbe trovato mai tanti candidati da far votare a ragion veduta, piuttosto che, a corpo e non a misura, dalle sue prediche sguaiate e offensive? Come avrebbe mai potuto raggiungere il paese in lungo e in largo senza la “complicità” dei mezzi di informazione e diciamo pure di propaganda? Chi ha votato Grillo, ha votato il nulla incartato.
Ma tant’è. Un po’ si prevedeva. In questo voto-veto incrociato, che sembra quasi parodiare il montaliano “codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo ciò che non vogliamo”, è venuto fuori un pareggio. Che è stato determinato dal tentativo di dare una sterzata al sistema maggioritario bipartitico. L’intrusione di Monti, calcolata o meno, ha impedito che il grande elettorato si pronunciasse su uno o sull’altro partito-schieramento. La truffa istituzionale si è realizzata.
Alla Camera solo un porcellum – sempre lui! – può trasformare un vantaggio di meno di mezzo punto in percentuale in una caterva di seggi di maggioranza; mentre al Senato si torna a sperare nella buona salute di ottuagenari e nonagenari per garantire di quando in quando una maggioranza. E’ un film già visto, che ha portato dove sappiamo tutti. O forse si spera che si possa risolvere il problema con un semplice cambio lessicale, scouting invece di campagna acquisti? Anche questo è un film già visto. Già si pregustano i nuovi Scilipoti, i nuovi “responsabili”, i nuovi viados e transgender della politica.
Nulla accade, però, senza offrire qualche spunto di positività, di ripresa a sperare. Questa consultazione elettorale pone la classe dirigente del paese di fronte a gravi responsabilità e le suggerisce un impegno forte. E’ suo compito cercare di far tesoro della lezione ricevuta e di impegnarsi in una rivoluzione vera, non solo etica, che riguarda la coscienza dei singoli, ma anche politica, che riguarda gli strumenti e i sistemi della politica, anche dal punto di vista tecnico. Insegnava  Giuseppe Maranini che i risultati elettorali sono figli dei sistemi elettorali. 
E’ auspicabile perciò che a questo punto si costituisca un governo a scopo, col mandato specifico di approvare un sistema elettorale che garantisca per un verso la stabilità del governo e abbia per un altro i caratteri di costituente per aggiustare la Costituzione sul versante della governabilità.
Quanto alla protesta, essa, premesso che in un paese sano è prevenuta e assorbita dall’azione della giustizia, è un fatto politicamente positivo finché resta entro limiti di utilità democratica e ha gli occhi per vedere dove va. Se straripa ed è cieca, può diventare qualcosa di estremamente dannoso.

domenica 24 febbraio 2013

Votiam, votiamo nella confusione in cui ci troviamo!


Andiamo a votare. Chi e per che cosa? E’ difficile dirlo, perfino nelle intenzioni; figurarsi nelle motivazioni! Impossibile pensarlo negli esiti. Una legge elettorale da tutti bistrattata e da tutti voluta esprime l’ambiguità del momento. Non è tanto la mancanza del voto di preferenza ciò che rende questa legge un “monumento al porco” quanto la contraddittorietà di una pretesa soglia di sbarramento, dalle percentuali varie a seconda dei livelli, che di fatto si traduce nel consentire a cani e porci di avere una rappresentanza parlamentare.
La soglia del 2 % per le liste che fanno parte di una coalizione, che a sua volta deve raggiungere il 10 %, è una sorta di autostop per raggiungere la località voluta e poi scendere e ognuno per i fatti suoi. La soglia del 4 % doveva valere per tutti, anche come premio all’onestà e per un senso di giustizia.
Se poi non si interviene sulla Costituzione per abolire l’art. 67 o modificarlo – “Ogni membro del Parlamento  rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato” – noi avremo sempre fenomeni di nomadismo, ascarismo e trasformismo, che rendono ingovernabile il paese e danno al mondo l’idea di gente adusa più a frequentare mercati e fiere che luoghi per fare leggi e riforme. Dovremmo entrare in un’ottica diversa. E’ necessario che si privilegi il soggetto politico rispetto alla persona che lo rappresenta. Se un eletto in una lista o in un partito non condivide più quanto democraticamente quella lista o quel partito decide e se ne vuole andare, per prima cosa dovrebbe lasciare il seggio. Che non è suo. Il vincolo dovrebbe essere legato al partito e per esso agli elettori. I quali non possono e non devono essere traditi. E soprattutto non deve essere tradito il partito, che di fatto ne ha reso possibile la nomina o elezione che dir si voglia. Il parlamentare nominato-eletto deve servire il soggetto dal quale ha ricevuto la nomina-elezione. Egli ha ricevuto un mandato non per andarsene a passeggio a suo piacimento, non per provocare ribaltoni e fare tradimenti anche personali ma per servire una causa, svolgere un compito “con vincolo di mandato”. I casi come quello di Fini ieri, di Bossi l’altro ieri, di Bertinotti e via elencando defezioni e cambiamenti, non dovrebbero più far parte delle nostre dinamiche politiche.  Centro del motore politico deve essere il popolo con le sue scelte. Guida del popolo la classe dirigente. Se non si va in questa direzione si continuerà a vivere nella precarietà politica e nella confusione.
Per tornare a Bomba, il quadro che offre la scheda elettorale dà già l’impressione di una improbabile governabilità. Ben tredici formazioni nel centrodestra, sei nel centrosinistra, tre nella Scelta civica, dicono che già alla base di queste formazioni ci sono grosse difficoltà d’intesa sul dopo. Nel centrodestra addirittura non si sa se a guidare un improbabile governo sarà Berlusconi o Tremonti o Alfano. Il tanto desiderato, invocato e in qualche modo realizzato bipartitismo è saltato. Così come è saltata la possibilità di far sapere all’elettorato per quale candidato premier e per quale maggioranza vota. Torniamo indietro, come se avessimo preso il treno sbagliato.
La campagna elettorale non ha detto nulla sulla futura formazione governativa. Si metteranno insieme Bersani e Monti? Si farà una grande coalizione? Ingroia si metterà con Grillo? E i grillini che faranno, così inutili e così numerosi? E a destra, che faranno le tante liste aggregate? Si disgregheranno? La Lega si staccherà definitivamente dal centrodestra? Il Grande Sud subirà le decisioni del forte Nord? Tutto ciò che si può ipotizzare è una situazione di tipo epicureo, con parlamentari come particelle che s’incontrano, si scontrano, si aggregano, si disgregano formando soggetti diversi e impensabili alla vigilia del voto. Questo è lo stato d’animo di chi va a votare fra oggi e domani, 24 e 25 febbraio di questo anno di Cristo 2013.
Mai, come in questa circostanza elettorale, ci si è posti tanti interrogativi; mai si è stati così incerti e sfiduciati. Una situazione generalizzata, perché anche nel centrosinistra, che sembrava dover semplicemente raccogliere il frutto di una semina, anche lì non si capisce bene che cosa potrà accadere tra Bersani e Vendola nell’ipotesi di un accordo con Monti.
Come sempre accade in simili circostanze, l’elettore per non perdersi finisce per rivolgersi alla bandiera nella quale si è sempre riconosciuto. A sinistra al Pd, ex Pci, o alla Rivoluzione di Ingroia. Al centro a quanto resta di una Dc dorotea. A destra a quanto resta dell’ex Msi-Dn.
Già, ma anche qui non è facile individuare chi ha in pugno la bandiera. A sinistra ci sono formazioni fuori dal Pd, il quale peraltro ha al suo interno elementi dell’ex Dc morotea. A destra il gruppo più forte del vecchio Msi sembra quello della Meloni e di La Russa “Fratelli d’Italia”, la lista che ha possibilità concrete di superare la soglia “truffaldina” di sbarramento ed entrare in Parlamento.
Io credo che ognuno per votare dovrebbe orientarsi guardando l’album di famiglia e cercare di riconoscersi; e soprattutto sperare che Dio gliela mandi buona.

giovedì 21 febbraio 2013

Se Grillo canta, Giannino squittisce



Oscar Giannino, che dichiara di possedere lauree e master mai conseguiti e quando viene scoperto che è tutto falso, invece di nascondersi in casa, si limita a scusarsi per l’errore e si dimette dal partito – partito? – che ha fondato, dal nome niente po’ po’ di meno “Fare per fermare il declino”, non induce a farsi pazze risate? Già il personaggio, a vederlo, non è proprio da funerale. Già il nome del partito rivela una mancanza di idee e di percorsi con l’utilizzo del generico “fare” sconsigliato già ai bambini della seconda elementare per un verbo più specifico, che c’è sempre sol che lo si conosca. Già la sua voce non è bella squillante, più che parlare squittisce. E allora, ridiamo, ridiamo pure; ma poi riflettiamo.
Uno dice: è vero, siamo in un grave e rovinoso declino. Ha ragione quell’omino, che è così curioso, con quel look che sembra uscito da un dagherrotipo di Guido Gozzano. Ha proprio ragione, bisogna affidarsi a uomini come lui per salvare l’Italia. Ha avuto il coraggio di mettersi contro Berlusconi dopo che lo ha servito per tanti anni. Ed è stato così sincero da affermare che se contribuirà alla sua sconfitta sarà proprio contento. Un po’ vendicativo, pare; ma non fa niente, è importante che certi cittadini coraggiosi e onesti s’impegnino. Ci vogliono uomini come loro, democratici e liberali come lui, per Dio! Votiamolo!
Poi, improvvisamente, come a scoperchiare l’ennesimo vaso di Pandora, si scopre che è un millantatore, uno che dice di avere titoli che non ha. Lo rivela il suo amico-collaboratore prof. Zingales, che insegna proprio all’Università di Chicago, dove Giannino avrebbe conseguito il master fantasma. E, allora, di chi fidarsi? Ridiamo, ho detto, ma forse faremmo meglio ad arrabbiarci davvero.
Viene di pensare ad una poesia di Aldo Palazzeschi, I fiori. Che c’entra mo’ la poesia, direte. C’entra, c’entra. Il poeta, disgustato dalle sconcezze di una comitiva di sporcaccioni e immorali riuniti a banchetto e poi stravaccati sui divani a fare le loro porcherie, esce in giardino per respirare un po’ di aria pulita. Ma trova: la rosa che fa la prostituta, dei garofani che fanno i papponi, il giglio che è pederasta, la vainiglia lesbica, il narciso che si masturba in petto alle signore, la violacciocca che fa certi lavoretti con la bocca, la violetta che mostra le sue intimità al ciclamino e così via. “Anche voi!” esclama “Candidi, azzurri, rosei, vellutati, profumati fiori […] Dio, abbi pietà dell’ultimo tuo figlio, aprimi un nascondiglio fuori della natura!”. Fuggito dalla società cade nella natura, che è un po’ come cadere dalla padella nella brace.
Come spesso accade, sono i poeti che aiutano a capire l’uomo più degli stessi scienziati, più di psicanalisti e psichiatri.
Ma se il poeta deluso si nasconde, il cittadino non lo può fare. La lezione di Giannino è che nella nostra società non c’è da fidarsi di nessuno, che i cittadini si devono arrangiare da soli come sanno e come possono. Un mondo di ladri, di disonesti, di millantatori ed impostori è come un mondo mafioso, dove tu, povero cittadino che subisci un torto, hai paura perfino di denunciarlo perché l’autorità a cui ti rivolgi può essere collusa e allora tanto vale stare zitto o rivolgersi direttamente alla “giustizia” di quel mondo.
Ora Giannino si è dimesso da segretario del suo partito, ma è rimasto candidato premier, come se nulla fosse stato. Doveva semplicemente dimettersi da tutto, perché è inconcepibile che altrove si dimettono ministri perché quando erano giovani dottorandi hanno copiato qualcosina nella loro tesi, mentre in Italia addirittura restano imperterriti a chiedere il voto agli italiani, non per fare il parlamentare ma per guidare il governo nazionale. Si dirà: ma il partito di Giannino rischia di non prendere neppure un seggio al parlamento, sicché la sua candidatura ha un valore simbolico. E allora tanto meglio avrebbe dovuto lasciare e perdersi dalla circolazione. Il simbolo è assai più importante dell’oggetto cui si riferisce, poiché aiuta a conoscere per ciò che si vede ciò che non si vede ma è altrettanto vero (per visibilia ad invisibilia).
Giannino rappresenta coi suoi  millantati titoli la disonestà allo stato più specifico e diffuso. Poi, potrà pure avere ottime conoscenze, competenze e qualità disciplinari, come ha dimostrato nel corso di tanti anni, stavo per dire di “onorata” carriera; ma a certi livelli non è tollerabile che si tollerino o addirittura si promuovano fenomeni di così devastante maleducazione civica.

mercoledì 20 febbraio 2013

Grillo: piazze piene, urne vuote



Una vecchia volpe della politica degli anni cinquanta del secolo scorso diceva ai suoi di non preoccuparsi delle folle che seguivano nelle piazze i comizi, perché laddove ci sono le piazze piene, le urne sarebbero rimaste vuote. Voleva semplicemente dire che le piazze sono la rappresentazione di un elettorato, non dell’elettorato. Vorrei proprio che così fosse col fenomeno Grillo.
Chi ama la politica e ha una concezione seria e sacrale del potere non può che irritarsi di fronte agli spettacoli inverecondi di un guitto che si è arricchito sproloquiando su tutto, turpiloquiando in continuo, dando al mondo un’idea di Italia della quale non ci si può che vergognare davvero. Va detto subito che l’immagine di Grillo è la conseguenza di una democrazia per troppi anni mal intesa e mal praticata, come il volto di una persona deturpato da foruncoli, piaghe e brufoli, è l’effetto di una cattiva e smodata alimentazione. Nessuno si sognerebbe di prendere a calci un Grillo inaccettabile come nessuno si sognerebbe di prendere a schiaffi una faccia inguardabile. L’uno e l’altra sono effetti non cause. Ma l’uno e l’altra possono essere a loro volta cause di ancor più gravi effetti. Lo dicono a ripetizione ormai tutti: da Monti a Bersani, da Berlusconi a Casini. Non mi meraviglierei se si scomodasse perfino Napolitano. Perché ormai è chiaro a tutti che Grillo è un problema serio per la democrazia in Italia, direi per la politica in generale. Per capirci, anche Berlusconi, che parlava e raccontava barzellette come al bar dello sport, era conseguenza di una caduta di stile della politica e ha contribuito a produrre Grillo; così Grillo, a sua volta, che dal bar dello sport è passato alla taverna, potrebbe produrre qualcosa di ancor più grave in una sorta di discesa gradino dopo gradino.  
Per la gente che segue Grillo sulle piazze sarei tentato di usare un’espressione lontana nel tempo e improponibile oggi, in tempi in cui ancora vige la regola libertina “se piace è lecito” di un epicureismo cialtrone. La usò ai suoi dì un tale, oggi innominabile, nel criticare quegli italiani che non hanno il senso eroico della vita e vivono nel segmento esistenziale tra la pancia e ciò che sta loro una ventina di centimetri più sotto.   
Sarei tentato ho detto. Mi astengo per due ragioni. La prima è che se un paese è paragonabile ad un essere umano – il buon Machiavelli aveva una concezione naturalistica della politica – allora bisogna rispettare tutti i suoi organi, tutte le sue parti anatomiche. Se ad un certo punto prevalgono le meno nobili vuol dire che le più nobili sono colpevoli, gravemente colpevoli, latitanti. La gente versa in gravi condizioni economico-finanziarie, è senza lavoro perché o lo ha perso (licenziati e cassintegrati) o non lo ha mai trovato (giovani). A fronte dell’aumento del costo della vita si è vista ridurre il reddito e il potere d’acquisto di quel poco che le resta dopo aver pagato un’infinità di tasse, da quelle nazionali alle tantissime locali. Si pensi che perfino sulle caldaie del gas c’è una tassa, sull’ingresso nella propria casa o nel proprio giardino, sulle lampade votive del cimitero e via depredando giornalmente. I comuni, le province, le regioni si comportano come masnadieri che tendono agguati. Si fa la multa di 40 euro a chi si è appena dimenticato di aggiornare l’orario della sosta. 40 euro, dico, che è quanto guadagna in media un operaio in un giorno, quando e se lavora. Sulle strade, in punti nascosti, sono appostati segnalatori di velocità che ti causano multe di 200 euro, quasi una settimana di retribuzione. Insomma l’ente pubblico, ad ogni livello, considera il cittadino che vive in grosse difficoltà economiche come un ricco spendaccione. E volete che le piazze non si riempiano quando c’è Grillo all’insegna del mettere fuoco a casa bruciata?  Gran parte della gente che segue Grillo la pensa così. Non è tanto indignata per i ladri della politica, ed avrebbe pure ragione di esserlo, è perché ha fame, non ha futuro, è preoccupata per i figli.
La seconda ragione è che non tutti quelli che vanno ad ascoltare Grillo, ormai come ad un rituale, possono essere bollati come privi di cultura e di ideali. Lo si è saputo solo di recente. Per troppo tempo il fenomeno Grillo è stato considerato qualcosa di folklorico, del quale si poteva stare tranquilli che non avrebbe rappresentato pericolo alcuno. Quando si sono accorti che nella pancia del grillismo c’è l’enciclopedia della protesta che porta via voti a tutti, allora si è scoperto che con Grillo ci sono elementi della sinistra militante e impegnata dei movimenti, a cui tutto si può dire ma non certamente che non abbiano il senso, se non eroico, quanto meno proposito e attivo della vita.
Ora i sondaggi dicono che probabilmente Grillo prenderà il 20 per cento dei voti degli italiani e porterà un centinaio di deputati alla Camera. Per forza di cose questa forza, che ora si dice indisponibile a fare alleanze, finirà per disgregarsi in diversi rivoli a seconda della provenienza di ciascuno. Tornerà in parlamento in edizione nuova il fenomeno dell’ascarismo. E non sarebbe la conclusione più brutta. Più brutta sarebbe la fase successiva al fallimento di Grillo se non dovesse assumere la direzione del paese una forza maggioritaria, per restituire dignità al potere politico e speranza agli italiani. 

domenica 17 febbraio 2013

Napolitano tra disegni e scenari del dopo voto



La sortita di Giorgio Napolitano che deplora “qualche partito” che liquida Monti dopo averlo sostenuto per più di un anno non può piacere, è propaganda pura. Napolitano più di altri sa perfettamente che sia il PdL che il Pd hanno approvato i tanti decreti-legge di Monti solo per tenere in piedi un governo senza entrare nel merito dei provvedimenti. Hanno cercato di farlo qualche volta e timidamente per potersi giustificare coi propri elettori. Ma dire che abbiano sostenuto Monti con la consapevolezza della bontà della sua politica è come cambiare le carte in tavola. C’è una bella differenza tra un matrimonio riparatore e un matrimonio d’amore. Né Napolitano né Monti stanno dimostrando un minimo di eleganza in certe loro affermazioni, adeguandosi, l’uno e l’altro, al clima della rissa elettorale.
E’ forse appena il caso di ricordare che sia Monti che Napolitano hanno più volte detto che Monti sarebbe rimasto fuori dalla competizione elettorale. Non è cosa di poco conto. Su questa garanzia i due partiti hanno accettato la tregua, che peraltro offriva loro una pausa di riflessione. Un patto non scritto, ma pacta sunt servanda comunque. Al senso di responsabilità di Berlusconi e Bersani, Napolitano e Monti hanno risposto con una furbata. Se questa è la tanto conclamata correttezza dei diversi!
Non è mancanza di rispetto al Presidente della Repubblica, cosa che il mio buon maestro in giornalismo Ernesto Alvino mi metteva in guardia dal fare, ma semplicemente per ricordare quanto è stato detto e fatto tra il novembre del 2011 e il dicembre del 2012. Non vorremmo che di qui a qualche anno i nostri figli e nipoti pensassero che noi eravamo un gregge di pecore smemorate.
Ma se Napolitano ha detto quel che ha detto, mancando ad uno stile cui pure ci aveva abituati fin da quando era comunista, vuol dire che ha in mente un disegno per il dopo elezioni, che non è tanto difficile ipotizzare. I disegni – si sa – non si costruiscono sul nulla, ed è normale che nel momento di idearli si ha anche una qualche idea sul come e con che cosa realizzarli. Di qui l’attacco neppure tanto velato al PdL. Giustamente Berlusconi si è risentito. Si può essere d’accordo o meno con un concorrente in campo, ma sui suoi diritti di gara non si può che concordare appieno. E’ una questione di correttezza e di maturità.
Certo, l’attacco di Napolitano non è stato gratuito. Nessuno fa niente per niente, tanto più se l’azione compiuta è in sé discutibile. Nel qual caso la contropartita deve essere consistente. Napolitano vorrebbe tanto poter confermare Monti al governo. Al momento, però, sembra remota l’ipotesi che il Professore, a cui faceva schifo la politica ma che ora ama fino ad impidocchiarsi, possa prendere tanti voti per giustificare la scelta del suo mentore. Stando agli ultimi sondaggi il suo partito sarebbe quarto dopo Bersani, Berlusconi e Grillo. Vero che, a prescindere dai voti, Costituzione alla mano, è il Presidente della Repubblica che dà l’incarico, ma è anche vero che più di un tentativo altro non può fare. Allora le cose potrebbero avere un altro svolgimento. Napolitano potrebbe convincere Bersani, probabilissimo vincitore delle elezioni, a rinunciare all’incarico di formare il governo a favore di Monti e in cambio avrebbe il Quirinale, ossia D’Alema Presidente della Repubblica. In subordine, se proprio Bersani s’incaponisse a rivendicare quel che gli spetta, sarebbe Monti a finire al Quirinale. Per questo dovrebbe avere dal voto del 24-25 febbraio una bella conferma popolare. Se la sua Scelta Civica dovesse avere un risultato modesto, addirittura al di sotto di una certa soglia, beh sarebbe davvero problematico volere a capo del governo o proporre alla presidenza della repubblica uno che ha avuto appena un risultato poco oltre il 10 %. Che presidente di tutti gli italiani sarebbe?
Autorevoli commentatori politici e alcuni fra gli stessi rappresentanti politici sono convinti che si tornerà a votare di qui a qualche mese. Dall’imminente consultazione elettorale difficilmente uscirà una maggioranza così forte e coesa da reggere gli attacchi delle opposizioni. Michele Ainis sul “Corriere della Sera” di sabato, 16 febbraio, ipotizza scenari di forti contrapposizioni, che potrebbero immobilizzare l’attività di governo (L’incubo delle Camere bloccate. Il regno di Amleto).
Potrebbe, infatti, configurarsi una situazione come quella dell’ultimo governo Prodi, quando la maggioranza si reggeva – facendo voti al Signore per tenere in salute gli ottuagenari e nonagenari senatori a vita – su uno o due voti. Ma con simili maggioranze non si può deliberare neppure l’intitolazione di una via, figurarsi governare uno dei più difficili paesi al mondo, come l’Italia. Nel nostro paese le opposizioni hanno come obiettivo, qualche volta perfino dichiarato, di far cadere il governo, impedendogli di governare con tutta una serie di comportamenti, anche leciti sotto il profilo parlamentare, e tentativi di sconcertazione e disgregazione dei gruppi costituiti col fenomeno del nomadismo, versione moderna del trasformismo. Quando lo scarto tra maggioranza e opposizioni è minimo diventano protagonisti i responsabili alla Scilipoti, che hanno salvato per qualche tempo Berlusconi, così come gli irresponsabili alla Turigliatto  avevano affossato Prodi.
Mia personale opinione è che le prossime elezioni probabilmente non daranno un esito da garantire una lunga legislatura ma costituiranno comunque una svolta. Il centrodestra dovrà fare i conti con una macchina – se vale la metafora automobilistica – che non è più riparabile, dovrà costruirne una nuova, con nuovi ingegneri e meccanici e soprattutto piloti. Il centrosinistra si dovrà ridefinire nei “suoi riguardi”, per come li intendeva Dante. E il populismo, da Grillo ad Ingroia, dovrà cercare di darsi la dimensione e le regole di un movimento meno liquido e improvvisato. Forse dal 24-25 febbraio non uscirà un governo, ma è più che probabile che uscirà la politica

mercoledì 13 febbraio 2013

Contestare San Remo in difesa di San Remo

Per il secondo anno consecutivo il Festival di San Remo è stato contestato nello stesso spazio, quello riservato al “predicatore” di turno. L’anno scorso fischi e inviti a finirla furono rivolti a Celentano, quest’anno a Crozza. Fazio e gli organizzatori minimizzano, dicono che si è trattato dei due soliti contestatori che approfittano di San Remo per farsi protagonisti di qualcosa.
Non è così. Non erano due, erano assai di più e la platea tutta non era affatto entusiasta della performance di Maurizio Crozza, il quale, peraltro, ripeteva le stesse caricature esibite in una precedente puntata di “Ballarò”.
Il ragionamento dei contestatori è di una semplicità disarmante. Dicono: non si può accendere il televisore che sei subito aggredito o annoiato dai politici, dai temi della politica, dalle dichiarazioni incrociate, dalle promesse elettorali, dalle notizie di scandali, di arresti, di condanne. E ciò per 24 ore su 24. Perché non lasciare che almeno il Festival di San Remo faccia vivere agli italiani un momento di pausa, di aria diversa, di svago senza la contaminazione politica?
“Non è propaganda” si affannava a dire Fazio agli spettatori seccati dalle prediche di Crozza, dimostrando di non aver capito che i cittadini non rifiutavano quell’esibizione perché considerata propaganda, ma rifiutavano il mondo a cui faceva riferimento. Se consideriamo che la satira è diventata con Beppe Grillo politica, assumendo la dimensione di vero e proprio tsounami, si capisce perché i cittadini e non solo quelli che erano nel Teatro Ariston chiedevano e chiedono un po’ di respiro. Che uno come Fazio non capisca certi umori è davvero grave.
Se l’ignoranza non fosse diventata davvero sovrana fra i giovani (tra i venti e i cinquant’anni) che ormai, pur uscendo dai licei, non sanno distinguere un verso di Cecco Angiolieri da uno di Dante Alighieri o di Guido Guinizzelli, si potrebbe citare l’episodio di Erminia tra i pastori della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, per far capire e far godere l’importanza di un rifugio nell’infuriare di un fenomeno che ha raggiunto la saturazione e il disgusto. Ecco, gli italiani oggi vorrebbero avere uno spazio per così dire arcadico nell’inevitabile infuriare del morbo politico.
Queste sono forse le ragioni più immediate della contestazione sanremese, ma evidentemente ce ne sono altre. Una su tutte è il rifiuto di sentir sempre qualcuno pontificare in una società devastata dai guasti più gravi e più diffusi. E’ un continuo sentir fare denunce, in tutte le salse, da quelle più nobili altoistituzionali a quelle più basse e becere. Si denuncia il malfunzionamento delle carceri, delle scuole, dei trasporti, degli ospedali, dei tribunali, delle poste, delle banche. Ma neppure le aziende, private e a partecipazione pubblica, funzionano bene, sempre borderline, dentro e fuori la legalità, un entrare ed uscire dalle leggi. In un solo giorno, oggi, mercoledì 13 febbraio dell’anno di Cristo 2013, si sa della condanna di Raffaele Fitto in Puglia e delle accuse di corruzione a Roberto Formigoni in Lombardia, come a comprendere tutta l’Italia tra l’alfa e l’omega del suo territorio. E ieri non è stato diverso e l’altro ieri neppure. Ormai la corruzione, con i tutti i suoi fenomeni collaterali, compresi i mediatici, non ha più tempo, ha infranto le barriere di contenimento.
A che servono, allora, tanti profeti, che ci ricordano ciò che noi vorremmo anche dimenticare, almeno il tempo per farci passare il mal di testa scatenato o per digerire un piatto di legumi? Non vediamo noi forse tutti i santi giorni lo sfascio di questo paese? Non vediamo che politici e imprenditori ridono se c’è un terremoto pregustando i lauti guadagni che ne derivano? Non vediamo carceri sovraffollate e carceri vuote, costruite e mai attivate? Non vediamo ospedali e palazzi dello sport, costati miliardi, mai entrati in funzione, mentre politici e costruttori si sono arricchiti? Beh, che anche in uno spazio di svago, appunto per non pensare, si presenta il profeta di turno a prenderci per il culo e per accusarci di essere idioti, è qualcosa di assai poco sopportabile.
Si torni a San Remo con la musica, con le canzoni, con un po’ di satira diversa, con un po’ di cultura e di informazione.  Sarebbe tanto più gradito uno spettacolo che contenesse poca speculazione politica, pochi insulti, pochi turpiloqui. San Remo non deve essere la cloaca di ciò che l’esterno gli sversa dentro, ma dovrebbe tornare ad essere un suggeritore all’esterno di qualcosa di più gradevole e di più positivo.

lunedì 11 febbraio 2013

Benedetto XVI lascia come Celestino V



Se qualche volta anche lo Spirito Santo si sbaglia! Qualche segno premonitore c’era stato. La deposizione del pallio pontificio sulla reliquia di Celestino V nel 2009, per esempio! Un gesto simbolico. Ma nessuno poteva pensare ad un epilogo così improvviso. Dalle ore 20 del 28 febbraio 2013 Papa Benedetto XVI non sarà più il Vescovo di Roma, il Sommo Pontefice della Chiesa di Cristo! E’ stato comunicato così, come si comunica un provvedimento qualsiasi poco prima di mezzogiorno dell’11 febbraio nel corso di un concistoro che non annunciava nulla di straordinario. 11 febbraio, data storica per la Chiesa: 1929, conciliazione con lo Stato italiano. Pura coincidenza, e direi insignificante, a fronte dell’enorme importanza della declaratio pontificale.
Che, però, Benedetto XVI non fosse all’altezza del grave compito lo si era capito da tempo, si potrebbe dire dall’inizio. Da quando dovette rendersi conto che parlare da professore teologo è cosa ben diversa dal parlare da Papa. Ora, quel libro di Marco Politi, “Joseph Ratzinger crisi di un Papato” (Laterza 2011), che ripercorre tutti i momenti e gli aspetti dell’inadeguatezza di Benedetto XVI, è il riferimento più autorevole e documentato; per certi aspetti profetico. Politi era stato impietoso: grande rispetto per l’uomo, ammirazione per il teologo, ma perplessità sul pontefice, incapace di dominare l’ambiente nel quale per volontà dello Spirito Santo si trovava.  Si trattava di saper leggere in ciò che accadeva o di avere il coraggio di dirlo. Virtù rara nel mondo del pubblicismo italiano. Evidentemente qualcosa di assai più profondo agitava il Vaticano, la figura del Papa, il potere politico ed economico che ruota attorno a lui, fatto di uomini di ben altra tempra che quella di un mite teologo, “rotto dagli anni e dal cammino stanco”. Mi viene di usare le parole del Petrarca, il poeta e l’intellettuale che, dopo Celestino V, è da associare di più al Papa tedesco. Un Papa medievale, ma anche moderno, a questo punto, quanto altri mai.
L’epilogo dimostra soprattutto che Benedetto XVI non si è dimesso per ragioni di salute, in quanto non più in grado di garantire in pensieri, parole ed opere, il verbo cristiano, al cospetto dei fedeli sparsi in tutto il mondo, ma perché ha avvertito intorno a sé un ambiente ostile, di problematica gestibilità, soggetti gli uni contro gli altri armati, come hanno dimostrato i tanti scandali e i tanti  incidenti che hanno riguardato le alte gerarchie della Chiesa in questi otto anni di pontificato.        
Parliamo a caldo, colpiti anche emotivamente. Ma, già dai primi commenti dei politici, è possibile farsi un’idea delle conseguenze del gesto “celestiniano” di Benedetto XVI. Un gesto – hanno subito commentato da sinistra – onesto, da apprezzare, qualcosa che non potrà non avere conseguenze anche sui papi a venire, come a voler applaudire ad una sorta di indicazione laicizzante che il Papa avrebbe voluto dare, di immensa portata rivoluzionaria proprio perché fatta da colui che incarna e rappresenta il massimo dell’antilaicismo. Se così fosse davvero, Benedetto XVI avrebbe dato ragione ai critici della Chiesa, per non dire ai nemici, a coloro i quali la vorrebbero una semplice istituzione fra istituzioni; avrebbe inferto alla Chiesa uno dei colpi più duri; alla pari forse con quello del suo conterraneo Martin Lutero.
E’ presto per trarre conseguenze dal gesto papale. Ma non si può non considerare che molta parte dell’edificio della chiesa cattolica se ne cade, come per una scossa di terremoto, con le sue dimissioni. Quando mai nella storia ci sono stati due papi, come accadrà con l’elezione del nuovo pontefice, a parte il periodo della cattività avignonese e degli antipapi? Come si può pensare o dire che lo Spirito Santo si è sbagliato eleggendo un Papa inadeguato, che potrebbe perciò ancora sbagliarsi? E se lo Spirito Santo si sbaglia, si aggiorna, si ammoderna, come una qualsiasi istituzione secolare, che Spirito Santo è più? Sono semplici domande, che sembrano battute superficiali e poco intelligenti, ma vengono spontanee. Qualcosa si è certamente rotto nella Chiesa.
Celestino V fu vittima di uomini più scaltri di lui, di quel cardinal Caetani che divenne poi papa col nome di Bonifacio VIII. Ma Benedetto XVI è vittima di chi? Veramente si è dimesso per motivi di salute? Certo, quelli ci sono, sono innegabili. Ma se intorno avesse avuto uomini dei quali fidarsi, avrebbe potuto continuare come hanno fatto tanti prima di lui. Valga per tutti l’esempio di Giovanni Paolo II! No, Benedetto XVI si è dimesso perché non in grado di gestire una chiesa riottosa e sconcertata all’interno, aggredita all’esterno da una modernità imprevedibile e inarrestabile. 

domenica 10 febbraio 2013

Voto 2013: un dramma coi caratteri della farsa



Mancano due settimane al voto e la faccenda è sempre più ingarbugliata. Se questa è democrazia! verrebbe di dire, parafrasando Primo Levi. Quello che sembrava un tranquillo cambio di cavalli ad una stazione di posta, per proseguire il viaggio, è diventato un ritrovarsi in una fattoria degli animali, dove non si distinguono più i cavalli dagli asini, i muli dai buoi, le pecore dalle papere e così via nell’arca prediluviana di Noè, dove tutti sono impegnati in esercizi danzanti e acrobatici, come presi da furore dionisiaco. Tutti si fa per dire, in verità sono appena una decina, i cosiddetti leader.
Da sinistra Bersani invita i concorrenti Monti per un verso e Ingroia dall’altro a non impedire che la sua coalizione vinca le elezioni a vantaggio dell’odiata destra o che comunque non la mettano nelle condizioni di non poter governare nell’ipotesi di una vittoria striminzita. Si discetta e si minaccia sul voto utile.
E’ la riscoperta degli utili idioti, che andavano di moda in Italia negli anni della cosiddetta prima repubblica, mai diventata veramente seconda. Ingroia, stai facendo di tutto per far vincere la destra sottraendo voti alla coalizione di centrosinistra! Sei un utile idiota berlusconiano! Monti, stai facendo di tutto per far vincere Maroni in Lombardia sottraendo voti al candidato del centrosinistra Ambrosoli! Sei un utile idiota leghista! Bersani, ora coadiuvato dall’amicus-hostis Renzi, non fa che offrire forbici per autocastrazioni elettorali pubbliche a quelli che dovrebbero essere, peraltro, suoi possibili alleati dopo. Una nuova coppia si profila nel paesaggio politico italiano, quella dei castrati di fatto.
Ma si può invitare un concorrente politico, chiunque esso sia, quale che sia la sua consistenza elettorale, a non chiedere i voti o a non votare per se stesso? A dirgli che i suoi voti non servono a niente, anzi servono a far vincere l’avversario comune? Dopo aver espropriato gli elettori della possibilità di scegliere il proprio candidato, ora si vorrebbe addirittura privarli della possibilità di scegliere la propria lista. Vorrei capire. Che dovrebbero fare a questo punto Monti e Ingroia, rivolgersi con un pubblico appello ai loro elettori e dire: signori, ci siamo sbagliati, abbiamo scherzato, insomma abbiamo fatto una minchiata, non votate le nostre liste; per favore, votate quelle dello schieramento capeggiato da Bersani. Questo dovrebbero fare? Nel calcio questo sarebbe illecito sportivo.
Idem a destra. Anche Berlusconi parla di voto utile e di utili idioti. Lo fanno i suoi giornali, però, con uno stile diverso, mentre lui rilancia con le promesse. Col condono tombale il delirio è vicino. Qualcuno, che non sa che cos’è, a sentirlo si tocca, fa scongiuri, non si sa mai. Sallusti ha dispensato diverse randellate sul capo lucido di fuori e opaco di dentro di Oscar Giannino. Il quale deve essere assai megalomane se pensa davvero di poter ottenere con la sua lista successi per sé o determinare insuccessi per gli altri à cause de lui meme.
E Monti? Ormai insegue gli altri sulle promesse improbabili. Fa l’apprendista stregone. Per certi aspetti è umiliante per il Professorone risultare alla fine la quarta forza politica del Paese, addirittura dopo Beppe Grillo: un comico! Un comico che ha il consenso del 18 % dell’elettorato. Neppure il miglior partito socialista di Craxi giunse a tanto. Se pure Grillo dovesse fare come Mosè davanti al Mar Rosso, questa gente lo seguirebbe. Niente niente qualche risata la rimedierebbe tra i flutti. In fondo, non è male morire ridendo. Ebbene, Monti viene dopo questo sberleffo democratico!
Sul fronte della cosiddetta società civile – magistrati, giornalisti, imprenditori – la situazione è ancora peggio. Aveva ragione D’Alema che l’ingresso in politica della società civile aveva peggiorato tutto. Persone che, pur a volte non condividendole, godevano della fiducia e della stima della gente, si sono ridotte a cortigiani della peggiore specie. E’ incredibile come gli uomini siano così volubili, girellici, per dirla col Giusti. Giornalisti, che fino a qualche mese fa difendevano il centrodestra berlusconiano, ora sono candidati contro e lo attaccano con una disinvoltura da sospettare rovinosi traumi cerebrali. Quel Sechi ride perfino, come una jena. Aveva ragione Aristotile: la natura non fa mai niente a caso.

Bisogni a parte, la gente non sembra accorgersi della gravissima crisi in cui siamo precipitati, che non è solo economica e finanziaria, ma etica, politica, istituzionale. In genere per accorgersene è necessario avere distanza, prospettiva. Occorre avere la mentalità dello storico, riuscire ad interpretare i segni premonitori, contestualizzare i fatti, saperli confrontare con altri, per rendersene conto. Il successo di Grillo è eponimo, è la plastica dimostrazione del collasso della democrazia in Italia. No, non si capisce il grillismo fuori da una prospettiva politica. Il grillismo è l’affossamento della politica, il trionfo del becerume motivato da una disperata voglia di vendetta contro chi si ritiene responsabile dello sfascio diffuso, un’ode al panciaficismo. Una sorta di jacquerie tutta introitata e vissuta dentro. Si potrà anche dire: meglio Grillo di qualcosa di più serio e di più grave, appunto di una jacquerie vera. Non lo so se, a questo punto, è davvero meglio. So che quanto sta accadendo in Italia è un dramma che ha sempre più i caratteri della farsa. Chi segue Grillo è un terremotato politico, una vittima a cui si può promettere tutto, che è sempre meglio del nulla che le è rimasto.
E infine, ultimo ma non ultimo, lo sfortunato Napolitano che ha chiuso male un settennato, che per altri aspetti gli aveva riservato gioie e soddisfazioni. Lo “schiaffo” di Monti, da lui nominato senatore a vita in rappresentanza universale degli italiani in difficoltà, trasformatosi in uomo di parte per costruire le proprie fortune politiche con le difficoltà degli italiani, è uno sfregio incancellabile. In compenso Napolitano ha chiuso la sua carriera politica da comunista, quale è sempre stato. Solo un comunista, infatti, poteva avere cinismo e spregiudicatezza per ideare e realizzare l’operazione Monti, fermare i giudici di Palermo e sfilare la Banca d’Italia dallo scandalo del Monte dei Paschi di Siena. Una fine alla grande, degna di quei garibaldini che chiedevano ai congiunti di essere seppelliti con la loro camicia rossa indosso, per presentarsi a Caronte o a Domineddio per quello che erano sempre e solo stati.

venerdì 8 febbraio 2013

Un vescovo scomodo a Vieste ai primi del Settecento



Si definisce romanzo, ma non va letto come tale. Un vescovo scomodo di Francescantonio Lopriore Cariglia (Copertino, Besa 2011) è un saggio di storia o se vogliamo di politica, che utilizza dei personaggi e dei fatti per raccontare, come forse un autentico saggio storiografico o politologico non potrebbe in difetto, questo, di affabulazione, l’intricato mondo ecclesiastico e politico in una  diocesi dell’alta Puglia negli anni venti del Settecento, ai margini dell’antico regime. Il luogo è Vieste, la bellissima cittadina posta sulla punta estrema del Gargano nel Viceregno di Napoli, quando questo era nell’orbita imperiale austriaca.
Precisiamo alcuni dati editoriali. L’autore, che è alla sua prima esperienza narrativa, utilizza un escamotage narrativo. Vede in sogno su una bancarella di vecchi libri a Porta Portese un volume che, complici il vento che volta le prime pagine e poi una mano che lo sfoglia, legge e tiene interamente a memoria. E’ scritto in latino ed ha un lungo titolo, compreso di autore e data di pubblicazione: «Nicholaus Castropetrus Episcopus Vestanus, Otto Wolfgang Johannes Amadeus von Reipol, Roma A. D. 1768». L’autore lo traduce, lo commenta e lo cura. Ed ecco il “romanzo”, così reso in italiano: Un vescovo scomodo (Nicholaus Castropetrus parvulus episcopus ovvero Niccolò Castropietro un Vescovo piccolo piccolo). Una complicata operazione, non c’è che dire!
Altrettanto intricata è la vicenda. Il Castropietro è un avvocato al servizio di una nobile famiglia di Barletta, legata al partito austriacante in ragione dei suoi commerci nelle zone dell’alto Adriatico. La sua è una rapida e sfolgorante carriera, prima civile e poi religiosa. Nel ruolo di consulente di questa famiglia, rifugiatasi a Vienna nel quadro delle lotte tra avversi sostenitori degli austriaci e degli spagnoli, risiede per diversi anni nella capitale dell'impero. Fa un’esperienza militare presso lo Stato Maggiore dell’esercito imperiale a Milano, conosce il principe Eugenio, entra al servizio del Cardinale Michael Friedrich von Althan viceré di Napoli, il quale lo nomina Preposto alla Regia Chiesa collegiata di Canosa e poi, per consensuale scambio di nomine con un suo vecchio conterraneo che teneva a ritornare nella sua Canosa, diventa vescovo di Vieste. Insomma una carriera incredibile per uno che non era nemmeno sacerdote, tra conoscenze, colpi di fortuna e appartenenze alla società del “triangolo con l’occhio”, leggiamo massoneria, non senza qualche disinvolto atteggiamento trasformistico. L’io narrante del libro e personaggio esso stesso è Otto von Reipol, un giovane austriaco che il Castropietro aveva voluto con sé come segretario e col quale aveva stabilito un rapporto di omosessualità, che l’autore narra anche con scabrosa disinvoltura, appena attenuata da curiali espressioni latine. I due li troviamo a Roma nel 1728, chiamati a discolparsi dall’accusa di sodomia, che, stando a quanto l’autore dice, non praticano più da quando l’uno è diventato vescovo e l’altro il suo assistente. Ma sull’esito di questa chiamata a discolpa non c’è un seguito narrativo. L’autore lo lascia sospeso, come a non dargli importanza o a considerarlo un episodio nel più vasto clima di conflittualità, persistente, a Vieste. L’autore fa un passo indietro di due anni. Vescovo e assistente giungono a Vieste, prendono possesso della carica, ma entrano subito in conflitto coi maggiorenti del posto, tra cui sindaco e governatore di giustizia, che trovano nell’arcivescovo di Manfredonia, di cui il vescovo di Vieste è suffraganeo, un difensore interessato. E’ una lotta senza esclusione di colpi, fatta di inibizioni, minacce di scomuniche, multe da una parte e di complotti e violenze dall’altra. Un attentato contro il vescovo “scomodo” fallisce e si conclude con la morte per avvelenamento di due poveri disgraziati che avevano intercettato involontariamente la ricotta avvelenata destinata al vescovo, cui seguono imboscate ed assassini, inchieste giudiziarie e finalmente l’intervento del Viceré che manda un suo uomo per risolvere la vicenda in favore del Vescovo, che ha dalla sua parte anche il favore della gente, angariata dal partito degli spagnoli.
Il romanzo, sotto il profilo formale è zoppicante, come mutilo, perché dopo il lungo flashback, non c’è il ritorno per chiudere una vicenda che resta aperta, con un esplicito ma inusitato “continua…”, che però fa pensare ad un delitto consumato nella foresta umbra.
Interessante il messaggio sull’esperienza politico-amministrativa austriaca nel Viceregno di Napoli, che sembra lo scopo più significativo. Il Viceregno austriaco iniziò con la pace di Utrecht del 1713 e durò fino al 1734, poco più di vent’anni, quando fu riconquistato da Carlo di Borbone e divenne regno indipendente. Le vicende narrate nel romanzo dimostrano come l’amministrazione austriaca non fosse ben accetta agli italiani del Sud, i quali si opposero con tutti i mezzi, illeciti soprattutto, agli uomini voluti dai nuovi signori ai posti chiave del potere religioso e politico del Viceregno. E’ un periodo particolarmente conflittuale anche tra Stato e Chiesa per la difesa di certe prerogative temporali che la chiesa avocava a sé commettendo autentici abusi. L’amministrazione austriaca tendeva a difendere le prerogative dello Stato dalle ingerenze della curia romana servendosi perfino dei vescovi di nomina regia. Nel 1724 favorì la fuga di Pietro Giannone, peraltro di Ischitella vicino a Vieste, lo storico che più di altri in quegli anni prese le difese dello Stato, e gli offrì un tranquillo soggiorno a Vienna. Doveva essere l’inizio di un processo di modernizzazione che in realtà non ci fu per le forti resistenze di chi non ne voleva sapere di cambiare e si riconosceva completamente nel partito spagnolo.
“In definitiva – scrive l’autore – la Corona austriaca non riuscì a far accettare agli Italiani del Meridione gli stessi criteri d’ammodernamento della macchina statale già praticati tranquillamente ai suoi numerosi Devoti Popoli (…). E ciò, bisogna dirlo, soprattutto per la sorda opposizione del Partito Spagnolo sempre vivo in tutto il Vicereame”. “Gli Austriaci – spiega ancora Lopriore Cariglia – esibivano una strana coscienza dello Stato morale ma, colmo dei colmi, pretendevano leggi uniformi e rispettate da tutti i popoli sotto la comune dinastia. Una follia inapplicabile al popolo dell’Italia meridionale. E ciò non già per una predisposizione congenita a recitare un ruolo di razza inferiore. Bensì … per la disgrazia  d’essere dominati e sfruttati dallo straniero. Fra una servitù vecchia di secoli e perciò di consolidate sicurezze e una nuova che si avverte piena d’incognite sovvertitrici di valori ormai accettati, il dominato preferisce non cambiare, a meno che non gli si offra di cambiare qualcosa per non cambiare niente”. E’ la tesi dell’autore, che, nativo di Vieste, vive a Gorizia, in area ex austro-ungarica. Fu anche quella, il viceregno austriaco, un’occasione persa per ammodernarci? Venti anni, francamente, sono nulla per certi processi di trasformazione politica e soprattutto culturale.

domenica 3 febbraio 2013

Napolitano copre il vaso di Pandora



Gran brutto sfortunato finale quello del Presidente Napolitano. Dopo l’affare Monti, finito con la salita-discesa in campo, a sfregio della parola data; la presunta trattativa Stato-mafia, dove si impedisce di fare luce su una concreta verità a difesa di un principio astratto; l’Ilva, in cui si entra in conflitto con un potere dello Stato nell’esercizio delle sue prerogative; ora giunge lo scandalo degli scandali: il caso Monte Paschi di Siena. Il Presidente che per cinque anni e mezzo è stato davvero uno scudo delle istituzioni rischia di finire il coperchio di un bruttissimo scoperchiato vaso di Pandora. Nessuno pretenderebbe che nel gran disastro nazionale il Presidente della Repubblica si mettesse a peggiorare la situazione, mettendo fuoco alla casa che già brucia, ma non c’è cittadino che non chieda al suo Presidente una parola di chiarezza, una posizione di fermezza, la garanzia nella quale è possibile sperare in un momento così critico per il Paese. Dire che la Banca d’Italia ha correttamente ed efficacemente vigilato sulle operazioni del Monte dei Paschi di fronte ad uno scandalo colossale, possibile solo in presenza di omissioni e complicità diffuse, non è rendere un servigio alla verità, non rafforza nella gente la fiducia nelle istituzioni, ma il tentativo di coprire i responsabili, gli interni al Monte dei Paschi, gli esterni della Banca d’Italia e gli uomini anfibi del Pd, che da sempre attraverso la Fondazione controllano quella banca.
Altre volte non abbiamo risparmiato a Di Pietro critiche per le sue esternazioni contro Napolitano, ma questa volta non si può non riconoscergli la giustezza di ciò che dice e della posizione assunta, condivisa peraltro da Maroni della Lega e da Grillo del Movimento 5 stelle. Un punto fermo nella baraonda generale ci vuole, è come un appiglio se non per salvarsi per capire almeno che sta succedendo.
L’altra sera, giovedì, 31 gennaio, a “Servizio pubblico” di Michele Santoro, su “La 7”, c’erano tre ospiti: Giulio Tremonti, Antonio Di Pietro e Stefano Fassina. Troppo noti per perdere tempo a dire chi sono. Forse è il caso di spendere qualche parola per Fassina, che è il più giovane, ed è l’esperto di economia del Pd; già bocconiano. Tema d’obbligo: la questione del Monte dei Paschi di Siena. Il caso, scoppiato qualche giorno prima con le dimissioni da presidente dell’Abi di Giuseppe Mussari, ex presidente del Monte Paschi, si è aggravato sempre più come una slavina che precipita a valle e assume le dimensioni di vera e propria rovinosa valanga. I fatti sono in parte noti. Il Monte dei Paschi compra dalla banca spagnola Santander la Banca Antonveneta pagandola nove miliardi di euro appena tre mesi dopo che la banca spagnola l’aveva comprata a sua volta per sei miliardi. Non è cosa. Lo capiscono perfino i bambini ai primi approcci con l’aritmetica. Ma uno può dire: il Monte Paschi ha fatto i suoi calcoli e ha visto che era conveniente. E, invece, no. Non era per niente conveniente, perché il Monte Paschi era ed è indebitato. Una faccenda poco chiara, in cui, par di capire, per coprire un buco finanziario se ne fa un altro e con quel materiale si rimedia, come accade quando i chirurghi ti prendono la pelle da una parte del corpo e te l’appiccicano sul volto che è rimasto deturpato. Un’operazione probabilmente mirata ad aggiustare i bilanci. Lo scandalo che ne è venuto fuori è stato paragonato a quello della Banca Romana che nel 1893 costrinse alle dimissioni Giolitti, il quale dovette perfino riparare all’estero per non essere arrestato. Vedrà ora la magistratura di far chiarezza sui fatti e di individuare i responsabili.
Ma non è così semplice. Non si tratta di un corruttore, di un ladro; in entrambi i casi i responsabili scoperti sono portati davanti al giudice, provato che sono colpevoli ricevono una bella sentenza di condanna e tutto finisce lì. Siamo in presenza della terza banca italiana in ordine di importanza. Sono in gioco i risparmi della gente per miliardi di euro, migliaia di posti di lavoro, credibilità nazionale e internazionale; c’è il coinvolgimento delle massime istituzioni del settore, con proiezioni sul piano europeo. Per questo, al di là della dimensione dello scandalo, il caso Monte Paschi pone una serie di questioni. Di Pietro diceva che cose del genere semplicemente non dovrebbero mai accadere – e ha ragione! –, che non si può sempre demandare alla magistratura di porre rimedio ai disastri, che nello specifico ci sono precise responsabilità da parte di chi doveva vigilare e non ha vigilato, chiamando in causa esplicitamente la Banca d’Italia e i suoi ultimi due governatori e perfino il Presidente della Repubblica, che con la sua autorevolezza ha escluso che la Banca d’Italia nella circostanza possa essere stata omissiva o negligente. 
Di Pietro, si sa, non ama il politicamente corretto, ma in presenza di fatti così gravi, fino a che punto bisogna essere politicamente corretti, che poi vuol dire essere reticenti, bugiardi, ipocriti, per non dire apertis verbis complici? Dov’è scritto che la politica deve essere il regno della menzogna? Fassina, che sembrava non in un dibattito ma sul banco degli imputati, come volesse allontanare da sé la corda dell’impiccato, chiedeva quasi clemenza per le istituzioni per evitare che il danno fosse ancora più grave. Tremonti non era da meno ed essendo stato al governo glissava sulla questione quasi fosse uno scherzuccio da dozzina, sostenendo che il governo non può intervenire sulla Banca d’Italia o sulle banche in generale. Insomma la pupa è rotta, non alziamo la voce, che tutto resti in famiglia, perché se ci sentono fuori siamo rovinati: chi se la sposa più la malcapitata? L’Italia è come la famiglia borghese di una volta: l’importante che fuori non si sappia, aggiustiamo le cose dentro, i panni sporchi laviamoli in casa. E’ successo: uno non c’entra, l’altro non ha competenza, l’altro ancora non ha visto, l’altro non poteva far niente. E’ la solita storia italiana in cui nessuno è responsabile di niente e tutto si perde nel labirinto delle irresponsabilità incrociate.
Napolitano ancora una volta è corso a porre qualche riparo, garantisce per la Banca d’Italia perché un suo discredito avrebbe una conseguenza gravissima in campo internazionale. Ma nasce anche il sospetto – la politica è anche il regno del sospetto! – che Napolitano voglia difendere il suo partito, il Pd, che nella vicenda è immerso fino al collo.
Unica nota positiva non è neppure quella ironicamente rilevata da Alfano sulla riservatezza e correttezza della Procura di Siena, ma sul fatto che certe questioni vengono fuori senza un preciso disegno di colpire qualcuno, come più volte in Italia si sospetta, la famosa giustizia ad orologeria. Il caso Monte dei Paschi è una gran brutta faccenda, certamente per la Banca in sé, per la Banca d’Italia, per il Pd, per Napolitano, ma soprattutto per il Paese.