domenica 26 aprile 2015

Renzi consente di capire gli italiani e il fascismo


Su analogie caratteriali tra Matteo Renzi e Benito Mussolini si discute da tempo, qualche volta solo per il gusto di esagerare e mettere in cattiva luce l’ex sindaco di Firenze. Il primo a parlarne seriamente fu Piero Ostellino sul “Corriere della Sera” finché la proprietà non decise di allontanarlo a causa del suo insistito e qualche volta greve antirenzismo. Poi l’accostamento di certi modi di fare di Renzi a quelli del Duce lo hanno fatto altri, in un crescendo di modi. Oggi è di dominio pubblico, dopo che i vignettisti e i comici l’hanno volgarizzato e ridotto a barzelletta, scaduto di tono ma non di efficacia. La satira – si sa – ha la capacità di arrivare diritta al punto. Ricordiamo le vignette di Forattini su Craxi in camicia nera e stivaloni, che alla fine resero simpatico il leader socialista; e quelle su D’Alema, raffigurato sempre da Forattini in divisa in un misto di sovietismo e nazismo, che ebbero però l’effetto di renderlo popolarmente antipatico.
Personalmente non credo che si possano fare analogie del genere. Si possono capire ma non condividere. Mussolini era un uomo, un’epoca, un fatto; Matteo Renzi è un altro uomo, un’altra epoca, un altro fatto. Si può scherzare, fare qualche battuta; nulla di più.
Ciò nondimeno l’evocazione di Mussolini e del fascismo per capire Renzi e il renzismo è importante per qualche riflessione più seria. 
Quel che a tutt’oggi non è stato ancora detto – non so se neppure pensato – è che il consenso di cui gode oggi Matteo Renzi, a livello di pubblici dirigenti, elettorato, media, consente di leggere in modo diverso il consenso che ai suoi dì ebbero Benito Mussolini e il fascismo. L’idea che è passata come verità è che Mussolini conquistò il potere dopo un periodo di violenze nel Paese e lo mantenne col bastone e con la carota, con un efficiente apparato poliziesco che utilizzava leggi repressive fatte ad hoc, e con delle promozioni a tutti i livelli, in una visione organicistica dello Stato. Chi dissentiva, nel migliore dei casi, non veniva promosso, nel peggiore subiva pene che potevano essere gravi (il carcere) e meno gravi (l’emarginazione sociale o il confino di polizia). In un quadro simile si può capire il grande consenso che ebbe.
Oggi, in Italia, non c’è nulla che somigli né al bastone né alla carota mussoliniani; e tuttavia Renzi gode dello stesso consenso, anzi di un consenso ben maggiore e ben migliore. Renzi non è stato nemmeno eletto; è capo del governo in quanto segretario di un partito (il Pd) che non ha neppure vinto le elezioni; si regge in Parlamento con un numero di deputati e senatori che la Corte Costituzionale, bocciando la legge elettorale con cui sono stati eletti, li ha “condannati” come illegittimi.  Se confronto si può fare – ma, a mio avviso, non si può – forse la posizione di Mussolini appare perfino più legittima di quella di Renzi.
Dato per scontato che i due restano diversi e che diversi sono i tempi, possiamo trovare però quel che unisce i due uomini e i due tempi nell’anello comune, che è il popolo italiano; soprattutto la sua attitudine ad adeguarsi alle più assurde trasformazioni.
Fino a qualche anno fa – ma sembra un tempo lontanissimo – la classe dirigente di sinistra godeva nel paese di una sorta di reputazione privilegiata. Piaceva l’uomo di sinistra per il suo rispetto del ruolo, delle regole, degli alleati, non sempre degli avversari, in una parola piaceva la sua eticità. Campioni di questa eticità erano gli Scalfari, i Prodi, i Veltroni, i Bersani, le Bindi, i Moretti (Nanni), gli Zagrebelsky e via elencando politici, magistrati, giornalisti, scrittori, artisti, professori. A questi signori venivano associati certi esponenti della curia, alti cardinali, un nome per tutti: il Cardinal Martini. Per cui si era formato un ceto politico-religioso-intellettuale che faceva dell’etica la sua cifra identitaria. Per certi aspetti, fermo restando il nucleo centrale di sinistra, l’involucro etico appariva di destra, di quella destra tante volte evocata da Indro Montanelli.
Dove sono andati a finire i superdemocratici di una volta, quelle personalità autorevolissime che facevano la differenza etica con quelli di destra, piuttosto pragmatici, un po’ cialtroni, un po’ maneggioni, spicci e strafottenti?
Neiges d’antan, si potrebbe dire con Villon. Bersani, la Bindi ed altri otto, solo perché non d’accordo con la legge elettorale che Renzi vuole far approvare, sono stati rimossi dalle relative commissioni parlamentari, come pupazzetti di nessun conto. E chi fino a qualche tempo fa li considerava esseri quasi superiori, comunque signori di etica, non dice nulla? Non solo tace, ma addirittura parla in favore di Renzi e dice che lo ha fatto per la democrazia, che è normale rimuovere tutti gli ostacoli posti nel percorso democratico. Proprio così, i dieci sostituiti nelle commissioni sono stati ridotti a pietre di scarto da togliere dalla strada delle riforme. Questa trasformazione culturale del popolo di sinistra spaventa. Dico spaventa non perché io mi spaventi o mi sorprenda; dico spaventa per usare un lessico in uso in un mondo a me per dire la verità estraneo. Ma certamente lascia pensare. Se oggi, pur potendo dissentire, pur potendo gridare il proprio sdegno per certe metodiche chiaramente illiberali e antidemocratiche, la coscienza civica ed etica tace, come non sospettare che il fascismo fu possibile non per le pratiche fasciste, di bastone e carota, ma solo perché c’era un popolo naturalmente portato a stare con la parte che in quel momento era vincente?     

Qualche sera fa su Rai Tre, in un programma in cui si rievocavano i tempi del fascismo e del nazismo, Paolo Mieli, oggi il papa laico di ogni funzione politico-culturale, disse al conduttore con molto poca riflessione: se invece della democrazia avesse vinto il nazifascismo noi due non saremmo qui a parlare di queste cose. No, caro Mieli, ho il sospetto che tu e il conduttore, se avesse vinto il nazifascismo, sareste stati lo stesso lì in televisione a parlare, magari per dire cose diverse da quelle che dicevate. Renzi non è Mussolini, ma gli italiani di oggi sono esattamente gli italiani di allora. Ci piaccia o non ci piaccia!

domenica 19 aprile 2015

Le cose turche di Papa Francesco


Erdogan si è arrabbiato come un cane per l’affermazione di Papa Francesco sul genocidio degli Armeni. Ma come si permette? Non lo deve dire più il Papa che la Turchia è responsabile di quel genocidio. La storia la devono fare gli storici non i politici e i religiosi. E, tanto per far capire che non scherza, ha richiamato l’ambasciatore turco presso la santa sede. Non sappiamo se la diplomazia ha fatto sapere nelle segrete stanze che il Papa si è pentito e che la cosa gli è scappata come tante altre affermazioni, addirittura poco cristiane. Pare che Erdogan per ora abbia chetato la sua ira funesta.
Ma Papa Francesco ne ha fatta un’altra delle sue; una cosa che, nella classifica delle gaffe, sta quanto meno alla pari con la famigerata sortita di Papa Ratzinger all’Università di  Ratisbona nel 2006, quando, nel corso della sua lectio magistralis, disse che Maometto predicava la diffusione della fede per mezzo della spada, riportando letteralmente la frase dell’imperatore Manuele il Paleologo quale si legge in un suo scritto sulla guerra santa del 1400 circa.
Ma per Papa Francesco nessun anatema da parte dei cristiani e dei vaticanisti come accadde per Papa Benedetto. Gratta gratta viene fuori sempre il manicheismo di certi tardo comunisti nostrani, non solo laici. Papa Francesco dice di non essere comunista, ma è come se lo fosse; e tanto basta per godere di “parola franca”. Può dire quello che vuole, può perfino mettere a rischio la pace mondiale, resta sempre uno che sta tra i lupi, mentre Papa Benedetto è un lupo, ora in gabbia.
In realtà quella di Papa Francesco sul genocidio degli Armeni non è stata una gaffe, o per lo meno lo è sul piano giuridico, perché per genocidio nel linguaggio giuridico internazionale s’intende una cosa diversa dalla strage; e quella degli Armeni si conviene essere stata strage. Lo hanno precisato in molti, tra cui il Presidente Obama e il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon.
L’errore di Papa Francesco non sta nelle parole che dice ma nella condizione in cui le dice. La condizione è del politico. Ama la ribalta e sa che per rimanere all’attenzione di tutti deve usare il linguaggio dei politici, partecipare al dibattito politico, usare le loro categorie, intervenire sui fatti del giorno, sui fenomeni planetari.
I suoi interventi sulla corruzione – per carità, ben vengano, non sono mai troppi – ma se fatti in occupazione di spazi più religiosi, più spirituali, fanno legittimamente sospettare. I comandamenti di Dio sono dieci. Ma per Papa Francesco è come se fossero riconducibili ad uno: la corruzione e suoi corollari. Se si tratta infatti di peccati non collegabili a questo, che non è né più né meno grave di tanti altri – almeno sul piano spirituale – si limita a dire «chi sono io per condannarli?».
Viviamo forse la fase terminale dello sfascio morale dell’individuo e della famiglia, cristianamente intesa. Ma non pare che al Papa interessi più di tanto; sicuramente non più dei soldi dello Ior, delle lotte pretesche all’interno della curia, delle umane ambizioni dei preti, che – Papa Francesco dovrebbe saperlo – non sono monaci di clausura. Bene che vada in proposito dice delle cose generiche, senza insistenza e senza convinzione. E ci mancherebbe che non le dicesse. Ma da lui non si sente una sola condanna alle cause che determinano tante tragedie famigliari. Mai che dica alle mogli di non tradire i mariti e ai mariti di non tradire le mogli; ai figli di obbedire ai genitori e ai genitori di saper guidare i figli senza opprimerli. Mai un insegnamento ai giovani di lealtà, di onore, di purezza dello spirito. Papa Francesco va al sodo: soldi, ricchezza, corruzione, ambizione, stragi, genocidi. Tutte cose che rientrano inevitabilmente nella politica.
Dice – credo sia la più assurda delle sue affermazioni – «vorrei una chiesa povera per i poveri». E che significa? Se veramente ha a cuore i poveri dovrebbe volere una chiesa ricca per aiutarli. Chi può aiutare i poveri se non i ricchi? E una chiesa ricca è garanzia – e lo è concretamente come vediamo – per tanta povera gente che trova nelle sue organizzazioni qualche aiuto, spesso di che nutrirsi. Ma l’espressione “chiesa povera per i poveri” fa effetto, non dice nulla; ma crea nell’immaginario qualcosa di non afferrabile come concetto; e questo la rende forte e suggestiva.
Non vorrei sembrare un antifrancescano, magari anche per ragioni politiche, dico semplicemente che questo Papa sta esaurendo tutta la sua carica umana e religiosa in una battaglia che non è esattamente quella più indicata alla sua funzione storica, direi istituzionale.
Basta – ha detto – coi valori non negoziabili. E questo la dice lunga. Una chiesa che non intende far conoscere i suoi valori non negoziabili viene meno alla sua identità, la sacrifica per obiettivi più materiali, più fisici, più politici e sociali, più immediati. Come dire, si sacrifica l’essenza del proprio essere per il suo involucro esterno; il suo essere eterno per il momento contingente.
Fin dal suo primo apparire ha dato l’impressione di inadeguatezza. Un papa dovrebbe saper parlare a tutta l’ecumene, non ad una sua parte. E’ innegabile che la società occidentale, europea è una realtà assai diversa da molte altre nel mondo. Parlare solo ad essa è sbagliato, ma parlare prescindendo da essa è altrettanto sbagliato.
A prescindere dalla sua cultura, che francamente appare modesta, e dal suo carattere, che altrettanto francamente appare rozzo e alla buona, di cose turche – tali perché inconcepibili, da non credersi (De Mauro)  – Papa Francesco ne ha dette tante. Cosa turca è per un cristiano dire che ad un’offesa occorre rispondere con un pugno; che le donne non devono fare figli come conigli; che i bambini non sono falsi come i diplomatici, per citarne alcune. Non v’è dubbio che anche per questo a certa gente piace, complici i media che ne esaltano perfino gli errori di lingua e di pensiero.

Ma se il papa deve parlare come uno scaricatore di porto o un manovale edile, per piacere ad un certo popolo, non sorprendiamoci se il mondo va a scatafascio e a furia di dire e di fare cose turche va finire che prima o poi i turchi si arrabbiano.             

domenica 12 aprile 2015

Giardello, la giustizia della gente


La mattina di giovedì, 9 aprile, al Tribunale di Milano, una persona, tale Claudio Giardello, di anni 57, esasperata per come andava una sua vicenda giudiziaria, ha estratto la pistola e ha sparato uccidendo un giudice, un avvocato e un suo ex socio in affari col quale era in lite e ferendo altri occasionali presenti. Può essere che quell’uomo avesse ragione nel merito della lite che stava affrontando e può essere che avesse torto; non è questo il punto. Il punto è che ad un certo momento ha percepito che la giustizia, coi suoi uomini e i suoi meccanismi, lo stava penalizzando, lo stava conducendo alla rovina.
Quante volte abbiamo sentito dire e sentiamo persone che hanno a che fare con la giustizia, angariate da ritardi, cavilli burocratici, spostamenti di udienze, trasferimenti di giudici, combine di avvocati, leggi sfacciatamente di parte, trascinate per anni e anni, impedite di andare avanti con la vita, a volte famigliare, a volte pubblica, economica, professionale, esplodere in affermazioni estreme: bisognerebbe mettere una bomba e far saltare tutti in aria, giudici, avvocati e cancellieri! Ci vorrebbe un mitra per farli fuori tutti pari pari! Un giorno mi fingerò pazzo e… E via con altre simili minacce. Per qualcuno il giorno prima o poi arriva, è arrivato.
Non so se dal Presidente della Repubblica in giù, fino al più modesto degli uscieri, queste invettive violente, queste esplosioni di rabbia, queste grida di dolore civile, a volte anche comiche e iperbolicamente colorite, come solo la fantasia popolare sa esprimere, sono state mai sentite. Dubito. Si sentono nei corridoi dei tribunali, nei bar, nelle piazze, dovunque la gente si fermi a parlare con altri per raccontare le proprie disgrazie giudiziarie, i casi stranissimi delle proprie piccole o grandi questioni con giudici e avvocati. Non c’è persona che non ne abbia da raccontare in singolarità e incredibilità di casi.
Avere a che fare con la giustizia in Italia è una disgrazia, soprattutto quando si è nel giusto, soprattutto quando si tratta di piccole cose da niente che si trascinano per anni, fino a dover perdere ben di più di quello che si sarebbe ottenuto semplicemente rinunciando ai propri diritti o alle proprie ragioni, e che si sarebbero potute risolvere in pochi giorni, al massimo qualche settimana, un mese. Avrà pure un senso il detto popolare “meglio un tristo accordo che una causa vinta”, o no? Quante volte un creditore è costretto ad accontentarsi di avere subito la metà, un terzo, un quarto di quanto gli è dovuto anziché tutto ma dopo dieci, quindici anni! Quante volte si deve cedere al mascalzone di turno che, sfruttando le lungaggini e le tortuosità della legge, ti ricatta a volte anche apertamente e con arroganza come se la legge non fosse fatta per la giustizia dei buoni cittadini, ma per l’ingiustizia dei delinquenti! “Tu hai ragione, ma intanto non te la riconosco, fammi pure causa, come andrà a finire lo vedrà chi vivrà”. Chi vivrà! Orrendo a sentire simili infamie nel paese che si dice patria del diritto. 
La tragedia del popolo italiano è che chi lo rappresenta ad ogni livello non conosce la realtà delle cose, della gente e lascia che essa se la veda da sola, come sa e come può, fidando nella sua proverbiale capacità di arrangiarsi, di sopportare.    
La strage di Milano è il gesto isolato di uno squilibrato? Non direi. I giornali in questi giorni hanno ricordato diversi casi giudiziari finiti con violenze e uccisioni sul posto. Ma se pure fosse un caso isolato, ciò non toglie che può essere anche il gesto di tanta gente, che, dalla giustizia angariata, attraverso quel gesto, ha inteso ribellarsi. Un gesto dunque criminale, ma anche simbolico. Non ci si può sempre fregiare delle grandi imprese fatte dai singoli e interpretate come compiute da tutto un popolo e non voler poi fare proprie anche le azioni delittuose se queste trovano nella società perfino consenso. I grandi e piccoli eroi della nostra storia, i Balilla, i Micca, i Toti (Enrico), i Battisti, i Sauro, che una volta costituivano l’ossatura morale e civile dell’italiano tipo, del cittadino e patriota esemplare, e venivano indicati a esempio ai ragazzini delle scuole di prima formazione, in fondo avevano compiuto gesti isolati. E, allora, come importanti sono i gesti dei singoli quando hanno un grande rilievo esemplare in positivo, altrettanto importanti sono quando questi hanno un rilievo negativo.  Si tratta di volere e di sapere leggere i fatti che accadono.
E’ più facile e più comodo che lo Stato sia per la prima ipotesi e liquidare il gesto come di follia criminale; sarebbe più auspicabile, però, che si sforzasse anche di andare oltre questa chiave immediata per cercare le ragioni intime, profonde di quel gesto come di tanti altri gesti compiuti in rivolta contro la giustizia iniqua.
Come cittadino mi son sentito mortificato in questi giorni sentire persone di ogni età e di ogni ceto dire: “quel pazzo ha fatto bene, non se ne può più di una giustizia che non funziona, che fa politica, che litiga al suo interno, che non lavora, che non vuole le riforme per non perdere poteri e privilegi. Ci vorrebbe un pazzo per famiglia!”. Non ho sentito una solo persona condannare il gesto folle e criminale di quel signore di Milano.
Raccontano i poeti – che sono ciechi e vedono dove altri con occhi di lince non vedono – che gli uomini si accorsero che l’età dell’oro sulla terra era finita quando la divinità della giustizia se n’era andata. Un mito – come tanti – ma altamente significativo.
Non si può concludere tristemente che sulla terra non c’è più giustizia. C’è la giustizia che i popoli sanno creare e organizzare. E’ la giustizia degli uomini. Il popolo italiano ha una giustizia semplicemente incredibile per i suoi risvolti di ingiustizia conclamata. Il gesto folle di quel signore milanese che ha compiuto la strage è da condannare nella maniera più chiara e assoluta, direi esemplare; ma corre l’obbligo di capire anche perché è stato compiuto. Perché! 

domenica 5 aprile 2015

Buona Pasqua a tutti, tranne che a Berlusconi


Non è una buona Pasqua per Silvio Berlusconi, abbandonato perfino dai suoi cantori più appassionati. L’addio “non silenzioso” della coppia Bondi-Repetti lo ha ulteriormente avvilito.
Berlusconi, che per certi aspetti è una persona scaltra ed esperta (leggi affari), per altri (leggi politica) è un ingenuo. Non so se abbia mai letto e conosciuto le vicende politiche di tanti grandi uomini della storia, osannati come divinità e poi abbandonati vilmente come cani rognosi. Qualche esperienza l’ha vissuta di persona, ma forse pensava che non sarebbe mai toccato a lui, pur con qualche avvisaglia avuta. Se avesse avuto conoscenza di simili metamorfosi umane avrebbe fatto altri ragionamenti invece di considerarsi ancora grande e forte al centro della scena, mentre tutto gli crollava accanto.  Oppure – ipotesi non meno attendibile di altre – ha deliberatamente deciso di fare del suo partito le sue Termopili.
A sentirlo, in questi giorni, viene di pensare che sia completamente fuori dalla realtà. Minaccia che dopo le elezioni, a cui deve cedere necessariamente qualche punto della sua leadership, rinnoverà Forza Italia e allora o dentro o fuori, chi ci sta ci sta. Non prevede che forse a quel punto ci sarà assai poco da tenere dentro o da mandare fuori.
I sondaggi danno Forza Italia al quarto posto, dopo Pd, M5S e Lega. Nello scenario il re Silvio è un cacicco, il capo di una piccola banda di specie latino-americana. I suoi fedelissimi – si fa per dire – gli stanno sul collo solo per la loro vocazione avvoltoiesca, aspettano di impadronirsi della carcassa. A che cosa potrà loro servire non si capisce. Boh, forse per cimelio, come una testa di cervo da appendere  trionfalmente alla parete di qualche loro baita di montagna.
Quando da qualche parte si dice che il comportamento migliore, più onesto e più produttivo sarebbe di rimanere dentro il partito, sia pure in posizione critica, si dice una grande e buona cosa. Prevedere, infatti, rosei successi fuori da Forza Italia per i tanti capi e capetti che sgomitano, è francamente arduo. Eppur si va verso il peggio come su un piano inclinato.
Non mancano le ragioni. Per troppo tempo si è rimasti a fare la parte della maschera fissa nella speranza che all’interno del partito le cose sarebbero cambiate. Di cose ne sono successe tante, ma nulla è cambiato. Forza Italia ha perso il carico poco alla volta come una cisterna bucata.
Si capisce allora che ad un certo punto era necessario assumere atteggiamenti forti. Incominciò Casini, continuò poi Fini, poi Alfano, ora Fitto. Di Casini si poteva capire, aveva una storia politica completamente diversa, Forza Italia o la Casa delle Libertà non erano la sua casa; si sentiva un ospite non sempre desiderato. Con Fini le cose sono andate in maniera sbagliata da entrambe le parti. Berlusconi non poteva pretendere che un altro, che veniva da una storia diversa anche lui – e che storia! – dovesse accodarsi ai suoi umori; Fini, da parte sua, non poteva accelerare i tempi di una successione non avendo capito di avere a che fare con uno che di lasciare l’osso non ne voleva proprio sapere. Alfano, che gli è stato fedele fino quasi all’ultimo, ad un certo punto perfino offeso e umiliato, quando il capo gli disse formalmente che non sarebbe mai diventato suo successore non avendo il “quid” per esserlo, decise di emanciparsi e di restare nel governo, dove aveva fatto esperienza di quel “bel vivere”. Fitto aveva sperato anche lui di succedere a Berlusconi con qualche probabilità in più, essendo spariti nel frattempo tanti concorrenti. Sennonché Berlusconi tornò a fare anche con lui quel che aveva fatto con gli altri, gli buttò fra le gambe, mentre Fitto correva, il Toti di turno, un altro programmato a riprendere un ruolo già collaudato come un pezzo di ricambio. Il pezzo da ricambiare era appunto Fitto, offeso pure lui – e ben più gravemente – dal dominus.  “Figlio di un vecchio democristiano” fu bollato da uno che nei confronti dei vecchi politici non aveva mai avuto parole di stima e di apprezzamento, salvo che per De Gasperi, considerato la sola icona spendibile per il suo successo personale. Ma sapeva chi era stato De Gasperi?
A ben vedere Berlusconi non si è mai smentito, ha fatto per ben quattro volte lo stesso gioco: Fini per far fuori Casini, Alfano per far fuori Fini, Fitto per far fuori Alfano, Toti per far fuori Fitto. E qui finisce la corsa.
Fitto, infatti, sta facendo passare a Berlusconi la più brutta Pasqua della sua vita. Non è una bella situazione quella pugliese, con un candidato, Schittulli, che viene tirato da due parti contrapposte. Alla fine icuramente la diatriba si risolverà; quanto per il bene di tutti è da vedere. Il vincitore alla presidenza della Regione probabilmente sarà il dem Emiliano. Ma la partita per la Regione per Forza Italia è secondaria. I cosiddetti azzurri, ormai sbiaditi, sanno di perdere le elezioni e allora il confronto, serrato cattivo esclusivo, riguarda il controllo del partito o l’inizio di nuove esperienze politiche. Almeno allora e per allora si spera in qualcosa di meglio. Per la Destra, ovviamente e per l’Italia.  Buona Resurrezione!

giovedì 2 aprile 2015

Coraggio D'Alema, omnia immunda immundis


L’ennesimo coinvolgimento illustre in intercettazioni telefoniche fa un po’ ridere, pensando – mi si consenta la battuta scontata – che tutto in Italia finisce a tarallucci e vino, pardon, a D’Alema e vino o al vino di D’Alema. Questa vicenda, infatti, ha risvolti comici, li ha perfino in un paese in cui si sguazza nella corruzione e si ride di tutto e di tutti.
Nell’inchiesta giudiziaria sull’ex sindaco di Ischia, Giuseppe Ferrandino del Pd, e sulla Coop. Cpl Concordia – questa parola porta davvero male! – è venuto fuori che a beneficiare degli abituali traffici del “do ut des”, base di ogni scambio e corruzione, è stato anche l’ex presidente del consiglio Massimo D’Alema, nella duplice veste di presidente della fondazione “Italianieuropei”, che pubblica una rivista e libri, e di produttore di vini di qualità. La Coop in oggetto avrebbe acquistato, infatti, da D’Alema una certa quantità di libri, a scopo finanziamento, e duemila bottiglie di vino per ottantasettemila euro.
Ora, siamo seri. D’Alema, da anni fuori dalla politica politicante, anche se continua meritoriamente a militare nel Pd, peraltro in posizione scomoda, continua in parallelo a fare cultura politica in maniera egregia. Lo si può dire senza essere necessariamente della sua parte politica. Nello stesso tempo aiuta la moglie a produrre e a vendere vini di qualità dell’azienda di famiglia La Madeleine. Che c’è di male in tutto questo? Aggiungo: che c’è di male se libri e vino vengono anche venduti ad una cooperativa con la quale in passato D’Alema ha avuto rapporti inerenti la sua attività politica? Il fatto in se stesso è assolutamente privo di elementi “patologici”, come ormai si dice in gergo. Verrebbe di esclamare manzonianamente omnia munda mundis; ma in Italia ormai è più facile dire il contrario omnia immunda immundis.
A tirar dentro la faccenda c’è un intercettato, tale Verrini, che dice al dirigente della Coop. Cpl Concordia Francesco Simone, riferendosi alle fondazioni da finanziare, tra cui “Italianieuropei”, «queste persone poi, quando è ora, le mani nella merda ce le mettono o no?», dando ad intendere che il favore del finanziamento fosse condizione per un favore di ritorno. Il linguaggio coprolalico rivela chiaramente che di favori sporchi si trattava.
E’ giusto a questo punto che la magistratura faccia le sue indagini e verifichi la natura di questi rapporti; non è giusto che dalle parole intercettate si giunga senz’altro ad esporre a ludibrio mediatico le persone coinvolte. Su questo tutti dovrebbero essere d’accordo. E noi esprimiamo solidarietà a tutti i malcapitati.
D’Alema, nella sua intervista al “Corriere della Sera” di mercoledì, 1 aprile, ha ammesso di aver venduto alla suddetta cooperativa libri e vino; e allora? Come fa una fondazione culturale a mantenersi se non attraverso i prodotti del suo esercizio, tra cui la scrittura, la stampa e la vendita della rivista e dei libri? Come fa un’azienda produttrice di vini a mantenersi e a crescere senza poter vendere il prodotto? Domande per alunni ritardati.
Fermo restando che gli sviluppi dell’inchiesta potranno far emergere altre cose, che oggi non conosciamo, allo stato dei fatti risulta che l’attività politica ed economica di una persona viene criminalizzata solo perché questa persona ha un nome importante, spendibile nella rappresentazione teatrale diretta, che tanto indigna e sotto sotto appassiona gli italiani.  
All’osservazione del giornalista Bianconi che la sua vicenda richiama quella dell’ex ministro Lupi, l’ex presidente del consiglio D’Alema ha risposto che ci sono delle differenze in quanto Lupi era un ministro in carica a contatto rischioso con aziende che facevano affari col suo ministero e lui invece un privato cittadino. Premesso che sul privato cittadino ci sarebbe da obiettare, perché uno come lui, dopo tanto reo tempo, non può mai invocare simile condizione, le due vicende si sovrappongono limitatamente alla pubblicazione delle intercettazioni, che è poi ciò che D’Alema contesta alla magistratura: «Non c’era alcuna necessità di utilizzare intercettazioni fra terze persone, senza valore probatorio, dove si parla di me de relato».
Allora emerge un altro aspetto della questione “intercettazioni” ed è che ognuno si para il proprio culo, per dirla volgare volgare, ma efficace efficace, e mentre tace quando a rischio è il culo degli altri, si butta le mani per coprirsi il suo quando tocca a lui. Invece sarebbe più giusto e credibile che tutti i politici decidessero una buona volta di approvare una legge che regoli finalmente la pubblicazione delle intercettazioni.  
Dopo tutto le intercettazioni sono incostituzionali (art. 15) e si giustificano nell’emergenza di combattere il crimine. Ora, si può anche capire che, come dicono i francesi, à la guerre comme à la guerre, e che stanti le guerre contro la criminalità organizzata, la corruzione e il terrorismo, si debba fare necessario ricorso alle intercettazioni; non si può tollerare che se ne faccia un uso improprio.
Che i politici come i cornuti se la godano quando tocca ad altri e si dolgano quando tocca a sé lo dimostra il fatto che ricorrono a tanti distinguo, come a dire per gli altri è ammissibile, per sé no. Lungi dal considerare l’hodie mihi cras tibi (oggi a me domani a te) essi sperano sempre che a loro non tocchi mai e si guardano bene dal fare una legge che regoli per tutti una materia così delicata ma anche impopolare.    

Si decideranno ora? C’è da dubitarne. D’Alema, peraltro, è inviso ai potenti del momento e se pure essi riconoscono che potrebbe aver ragione nel caso in specie, preferiscono godere della disgrazia che gli è capitata piuttosto che pensare di premunirsi ove dovesse toccare a loro. I tedeschi hanno un termine per indicare questo perverso sentimento, dicono Schadenfreude, che letteralmente significa piacere maligno per le disgrazie altrui. Noi italiani preferiamo non averne di questi termini rivelatori; e perciò la giriamo a farsa.