domenica 29 novembre 2009

Italia barbara: mafia e parolacce

A stretto giro di… moda due delle massime cariche istituzionali italiane hanno lanciato sul mercato della comunicazione politica due parolacce, entrambe di origine germanica: “stronzo” e “strozzo”.
La prima l’ha pronunciata, alcuni giorni fa, Gianfranco Fini, Presidente della Camera, contro il razzismo. A dei ragazzini di colore ha detto: chiamate pure stronzo chi vi ritiene inferiori perché avete la pelle scura. La seconda l’ha pronunciata il 28 novembre scorso Silvio Berlusconi, Presidente del Consiglio, contro chi propaganda l’Italia come terra di mafia. “Se trovo chi ha scritto libri e fatto film sulla mafia lo strozzo – ha detto – perché infanga l’Italia nel mondo”.
La prima, stronzo, deriva dal longobardo “strunz” che significa sterco e data 1400. La seconda, strozzo, denominale da strozza (gola), viene dall’alto tedesco medio “strozze” e data, secondo il De Mauro, 1313.
Non c’è dubbio alcuno che le due parole sono il segno tangibile dell’imbarbarimento del dibattito politico in Italia. Non solo perché sono parole che storicamente sono attribuite a quelle popolazioni barbare che tra IV e V secolo accelerarono la caduta dell’Impero romano con la loro discesa in Italia, portando con sé usi, costumi e linguaggi, ma soprattutto perché consideriamo genericamente barbaro, ossia incivile e incolto, tutto ciò che è estraneo al galateo politico e sociale. Ed è soprattutto in questa accezione che va inteso l’imbarbarimento del dibattito e della comunicazione politica italiana.
Incominciamo dallo “stronzo” di Fini. Una persona misurata come lui difficilmente si abbandona al turpiloquio, anche se di tanto in tanto se ne esce con qualche rivelazione, come quando disse che lui lo spinello una volta se l’era pure fumato. Perciò, se improvvisamente tira fuori una parola come “stronzo”, è segno che, data l’ira contro i suoi alleati di governo, non riesce più a vigilare sulle parole e le espressioni che usa in pubblico. Ricorrendo alla parolaccia, ha quasi voluto dare un valore aggiunto alla sua tesi secondo cui gli immigrati devono trovare in Italia piena integrazione politica e sociale. C’è qualcuno che la ostacola? Beh, questo è uno stronzo! E’ turpiloquio, ma la caduta di stile è funzionale all’efficacia della polemica. Se si arrabbia, vuol dire che ci crede.
Più grave è lo “strozzo” di Berlusconi, anche se, a differenza di Fini, il Presidente del Consiglio ci ha abituati ad ogni sorta di stravaganza, di tipo linguistico, gestuale, comportamentale. Ciò, tuttavia, non deve far cadere in noi la soglia del convenzionale. Dire: se trovo chi scrive libri e fa film sulla mafia lo strozzo, è come condannare fior di scrittori e di registi che da anni combattono la mafia con le loro denunce attraverso libri, saggi, articoli di giornale, film e sceneggiati televisivi. Pur trascurando il non…trascurabile fatto che gli ultimi film sulla mafia li ha prodotti proprio l’azienda della famiglia Berlusconi – quindi dovrebbe suicidarsi o uccidere i suoi figli, per essere coerente – non si può far passare come una semplice battuta una frase dalle molteplici implicazioni.
Per esempio, se in Italia c’è la mafia – ed è innegabile che ci sia – bisogna tacere per non screditare il Paese o combatterla per estirparla e restituire all’Italia l’immagine di un Paese moderno e ordinato? Che è come dire: se in Italia esiste Berlusconi, con tutti i problemi che ha portato con sé scendendo in politica, bisogna tacere per non screditare il Paese o combatterlo fino ad allontanarlo dalla politica?
La sortita berlusconiana sulla mafia farebbe pensare che, essendo prioritaria l’immagine del Paese, occorre tacere. Ma il silenzio, se pure servisse a qualcosa – e non serve, anzi aggrava – non può essere suggerito da chi dovrebbe dare il buon esempio in termini di lotta al malaffare, agli intrecci politico-mafiosi, alla criminalità organizzata.Il governo di Berlusconi ha sicuramente prodotto effetti positivi nella lotta alla mafia, con arresti, sequestri di beni e quant’altro; ma la lotta alla mafia non è soltanto un fatto chirurgico, è soprattutto un fatto di medicina, ossia di educazione, di comportamenti e di intolleranza verso tutto ciò che è illegale o sa di illegalità. Se il Presidente del Consiglio parla come un boss della mafia finisce per far passare anche gli innegabili successi contro di essa per vendette fra cosche, ossia per episodi di lotta interna.
[ ]

domenica 22 novembre 2009

Fare politica in terra di mafia

Le esemplificazioni non piacciono e non esauriscono le questioni; ma servono a coglierne la ragione centrale. In terra di mafia – e il Mezzogiorno lo è in tutta la sua estensione – o colludi o collidi. Ci sono cittadini, che possono pure chiudersi nel privato ed evitare di entrare in contatto con la mafia; sono i dormienti della società civile. Fra di essi potrebbero esserci anche persone valide e validissime, che, in condizioni normali, potrebbero dare un contributo notevole e notevolissimo alla propria comunità, cittadina o nazionale. Dormendo, tuttavia, sono funzionali alla mafia.
Ci sono altri, che, per la loro esposizione pubblica, non possono rifugiarsi nel privato e finiscono faccia a faccia con la mafia; a questo punto o colludono e fanno affari fino a quando non vengono scoperti; o collidono, cioè si scontrano con essa e quasi sempre ne hanno la peggio. Un peggio che non è soltanto fisico e limitato alla persona singola, ma investe altri aspetti e soprattutto colpisce le famiglie. Nell’uno come nell’altro caso si finisce male.
I soggetti a rischio di contatto mafioso non sono soltanto i politici, i giornalisti, i pubblici funzionari, ma anche gli operatori economici, che, col potere politico, vivono in simbiosi e perciò sono elementi sensibili.
Tutto ciò è favorito dalla democrazia, che, fondando la sua ragion d’essere sul consenso elettorale, offre alla mafia un campo d’azione formidabile. Furono lungimiranti i mafiosi che si erano rifugiati in America per sfuggire alle persecuzioni fasciste quando decisero di collaborare alla causa democratica, preparando e favorendo lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Capirono che era anche la propria causa: “Picciotti, cosa nostra è!”.
Chi aspira al potere politico, in terra di mafia, a maggior ragione deve fare i conti con essa. Le “argomentazioni” mafiose convincono più di quelle politiche; ergo il politico ha bisogno dei voti, che la mafia è in grado di procurargli in gran quantità. La mafia ha bisogno di profitti. Il do ut des è a fondamento dell’entente mafiosa.
Le classi dirigenti meridionali hanno sempre scelto di colludere, un po’ per loro natura, appartenendo alla stessa territorialità antropologica, un po’ per alibi di atavici ritardi e fallimenti. Da noi non si perde mai per propria incapacità, ma sempre per mancanza di mezzi o per inganni e raggiri da parte dei più capaci.
Nel segmento mafia-politica opera tutta un’umanità produttiva, fatta di lavoro, di commercio, di imprenditoria. La borghesia meridionale, a causa della mafia, opera in condizioni di sopravvivenza; è inevitabilmente “mafiosa”. Chi vuole lavorare e produrre, infatti, prima o poi, entra in contatto con essa, la quale non ti chiede se vuoi far parte come ad un’associazione onlus, ma ti costringe senza pietà e misericordia. Ti fa trovare la testa del cavallo prediletto sotto le lenzuola come nel “Padrino” di Puzo-Coppola.
La collusione ha vari gradi: il primo è di protezione, ed è sopportato; il secondo è di forza, ed è gradito; il terzo è di collaborazione e di prestigio, ed è organico. A volte si passa dall’uno all’altro come in massoneria si passa da un grado all’altro, fino alla maestranza venerabile.
Il caso gallipolino ne dà un’ulteriore conferma. Flavio Fasano, già sindaco di Gallipoli e poi assessore provinciale, uomo convintamente di sinistra, già comunista e poi democratico, era in sintonia politica con Rosario Fasano; mentre il fratello di costui, Salvatore, ucciso – stando a quanto riferiscono i giornali – era in sintonia politica col centrodestra. Non conosco l’ambiente gallipolino e non penso nulla sia su Flavio Fasano sia sui suoi omologhi dell’altra parte, ma sicuramente si tratta di persone come tante, che, ad un certo punto, hanno pensato di poter fare politica nella loro città a prescindere dalla mafia. Se non l’avessero fatto loro, l’avrebbero fatto altri, con altri nomi e cognomi. Il risultato non sarebbe stato diverso.
A Gallipoli si era verificata una situazione come quella pre-romana di Romolo e Remo: uno dei due fratelli era di troppo. Una situazione drammatica perché lo scontro era in famiglia; altrove è fra clan diversi, in lotta per il controllo del territorio.
Questo prova che nel Mezzogiorno non è una questione di destra o di sinistra, è una questione di mafia, che omologa tutto. E prova ancor più – e questo è disperatamente grave – che se pure una delle parti si gioca la carta eroica di rifiutare i favori della mafia per non colludere con essa, c’è sempre pronta l’altra parte a non farsi scrupoli e li accetta, secondo un proverbio che qui è regola aurea “quiddu ca lassi è persu”.
Vie d’uscita? Francamente non se ne vedono. Sia per la mafia che per la questione meridionale in generale si ripetono da anni le stesse cose. E non c’è peggior situazione dello stallo. Si dice: non tutti nel Mezzogiorno sono mafiosi; l’Italia non cresce se non cresce il Mezzogiorno. Banalità! Poi vediamo che la mafia continua a dominare su tutto e su tutti, mentre una parte dell’Italia, la settentrionale, è cresciuta a dismisura e l’altra, la meridionale, è rimasta coi problemi di sempre: sottosviluppo e criminalità organizzata.
E allora? Qui occorrerebbe un’autentica rivoluzione, che nessuno, però, si sogna di fare. Una rivoluzione tutta dentro al cervello dei meridionali, i quali dovrebbero rinunciare al potere e al prestigio personali, frutto di scorciatoie criminali, per creare condizioni, in cui potere e prestigio personali fossero sì da conseguire ma con altri percorsi e con altri mezzi. Che sarebbe come rinunciare all’uovo oggi per la gallina domani. Ma solo una classe dirigente, lungimirante e coraggiosa, potrebbe riuscirci. C’è?
[ ]

martedì 17 novembre 2009

La mamma del terrorismo è la politica

Il Ministro degli Interni Maroni ha lanciato l’allarme terrorismo. E’ una cosa seria – ha detto – dai segnali che abbiamo non possiamo prendere sottogamba il rischio reale, che c’è; ora stiamo valutando possibili collegamenti col terrorismo islamico.
Pur senza conoscere i segnali di cui parla il Ministro, riteniamo che il rischio terrorismo sia in rebus. La situazione politica è di caos diffuso. L’opposizione alla maggioranza di centrodestra, che ormai dura da quindici anni, con periodiche recrudescenze, ha certamente prodotto un effetto devastante: la delegittimazione della politica. La sinistra, forse neppure senza pensarci tanto, ha messo in essere un piano pernicioso: visto che Berlusconi più cerchi di delegittimarlo e più invece cresce, perché la politica nel suo insieme in Italia lo favorisce, tanto vale delegittimare la politica, dalla quale egli trae la sua forza. E’ una lezione che viene da lontano, che gli italiani conoscono molto bene. Per sconfiggere il fascismo fu necessario sconfiggere l’Italia. Oggi la sconfitta di Berlusconi passa attraverso la rovina del Paese.
In un certo senso si è ricreata in Italia una vera e propria guerra civile, per ora circoscritta ai soggetti istituzionali della politica. I cittadini, esclusi per la personalizzazione eccessiva dello scontro, quando non assistono impotenti e disgustati, partecipano come scommettitori alla lotta tra cani.
La maggioranza dice che la democrazia è assediata dall’invadenza del potere giudiziario, che ordisce contro gli altri due poteri dello Stato, legislativo ed esecutivo, di concerto con l’opposizione. L’opposizione dice che parlamento e governo sono nelle mani di un despota, circondato da cortigiani, che gli fanno contorno e quadrato. La percezione diffusa è che il Paese è assediato dagli uni e dagli altri e che la politica è ormai un sentinaio.
I due partiti, sui quali si pensava di poter costruire un sano bipartitismo, Partito democratico e Popolo della Libertà, non si sa più che cosa siano. Il Pd ha perso una porzione di componente cattolica, quella di Rutelli, che non è andata nell’Udc di Casini, come ci si spettava, ma ha creato un partito nuovo: Alleanza per l’Italia. Si ha l’impressione che ogni capobanda cerchi di farsi una banda tutta per sé e che ognuno di essi si senta assoluto sia dal fine del suo operare, che è l’Italia, sia da chi dovrebbe fornirgli la forza per operare, ossia gli italiani.
La stessa impressione si ha del PdL, i cui segnali di scollamento tra le sue due componenti costitutive: Forza Italia e Alleanza nazionale, sono sempre più forti. Ma se Forza Italia continua a riconoscersi senza riserve in Berlusconi, non così Alleanza Nazionale, che vive un grave problema di identità e di prospettiva: riconoscersi ormai in Berlusconi o restare fedele a Fini, il quale di destra non dice più nulla e si atteggia a padre di una patria tutta da costruire.
L’Udc di Casini un giorno cerca alleanza a destra e un altro a sinistra; non esclude appoggi a candidati di destra nel Veneto e di sinistra in Puglia. L’Italia dei Valori di Di Pietro è la catapulta che si abbatte sulle mura della fortificazione: non vede, non sente, non ragiona. I suoi nemici sono Berlusconi e chi direttamente o indirettamente, consapevolmente o inconsapevolmente, lo sostiene. Il vero bipartitismo in Italia è costituito per un verso da Berlusconi e per l’altro da Di Pietro; entrambi procedono come bulldolzer preimpostati.
I cittadini non contano più nulla, dimezzati perfino come elettori dal momento che votano persone già elette in partenza dall’alto. Cosa c’entrano, quale parte essi hanno nel caos imperante? Nel migliore dei casi possono nutrire ancora qualche briciolo di fiducia in questo o in quel politico e affidarsi a lui come dei sudditi al loro principe secondo la formula cuius regio eius religio e cambiare orientamento, andare avanti e indietro, a destra o a sinistra, come fa lui.
In un quadro del genere, che non rende l’idea per difetto, stante una crisi economico-finanziaria ancora di là dall’essere superata, in pieno caos istituzionale, il germe terrorismo rischia di diventare pianta e di maturare dei frutti. Ma non c’è alcun dubbio che ancora una volta il terrorismo viene dal popolo deluso e maltrattato. Gli apprendisti stregoni, che lo hanno evocato, piuttosto che considerarne la causa insistono a paventarne l’effetto. Il Ministro Maroni ha trovato nel terrorismo islamico il sacco per nascondere le cause del terrorismo italiano.
[ ]

domenica 8 novembre 2009

Altro che radici, qui ci negano Cristo!

Qualche anno fa i pontefici romani, prima Giovanni Paolo II e poi Benedetto XVI, lamentarono il fatto che nel famoso preambolo della costituzione europea non c’era cenno alcuno alle radici cristiane dell’Europa. Sembrava una cosa da niente. Che bisogno c’è di metterle per iscritto? Dissero, imbarazzati, alcuni autorevoli intellettuali e politici cristiani, che non volevano dispiacere ai loro omologhi europei. E poi, se l’Europa è diventata cristiana vuol dire che prima non lo era, perciò viva la sua vocazione ad accogliere altri in costanza di arricchimento di idee e di fedi! Replicarono i più ostinati difensori della laicità.
Era la spia di un modo di pensare l’Europa, non sintesi dei vari popoli europei, nel rispetto delle loro diversità e tradizioni, come sarebbe stato giusto che fosse, ma idea univoca, una sorta di tassa comunitaria, alla stregua di una quota-latte. Era ed è questa l’idea di Europa che hanno quei signori che s’aggirano tra Belgio, Olanda e Lussemburgo, i cittadini della “città della nebbia”, nuova utopia in contrapposizione alla “città del sole”. Tant’è che, in ragione di quell’idea, essi discriminarono Rocco Buttiglione, non facendolo diventare commissario europeo. Alla loro domanda: “che pensi dell’omosessualità?”, quello rispose con assoluta onestà: sono un cattolico e perciò la ritengo un peccato. Raus! Gli dissero, non sei degno della carica.
Sapemmo, allora, che in Europa i cattolici professi, in quanto tali, non hanno gli stessi diritti che hanno gli altri. Forse Buttiglione avrebbe dovuto fare come tanti di quei parrucconi di Bruxelles o di Strasburgo e dintorni, che in privato sono omosessuali e pedofili, alcolisti e cocainomani, e in pubblico sono icone del più puro pensiero democratico.
Oggi la Corte di Strasburgo, accogliendo il ricorso di una (dico una) finlandese stanziatasi in Italia, ha sentenziato che il Crocefisso non deve stare nelle aule scolastiche perché lede la libertà di formarsi nelle proprie credenze di chi cristiano non è. Siamo passati – come si vede – dal non considerare le radici cristiane alla campagna di scristianizzazione dell’Europa. Siamo passati dalla dittatura della maggioranza a quella della minoranza, anzi della minimanza. Non è più la cosiddetta normalità a non tollerare la diversità, ma il contrario: un’intolleranza alla rovescia.
Ora, a parte la questione personale, che ogni cittadino italiano può e deve porsi, sol che lo voglia, rispondendo a se stesso sul suo rapporto col cristianesimo o con la fede in generale, c’è una questione di etica nazionale. Ognuno di noi è individuo e cittadino. Come individuo può anche non credere in nessun Dio né tanto meno nella sacralità del Crocefisso; ma come cittadino non può assolutamente ignorare di aver già metabolizzato nella sua storia, nella sua identità, nella sua cultura, nel suo essere, tanto di quel cristianesimo che l’ipotizzare un diverso rapporto col sacro che lo riguarda, dalle icone domestiche al cimitero, dai monumenti alle chiese, dal nome delle strade al nome dei paesi, dalle nicchie votive urbane a quelle rurali o montane, comporterebbe una seria difficoltà perfino a riconoscersi; diventerebbe come il pirandelliano Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila.
Neppure Roma, ai suoi magnifici tempi imperiali, proibiva ai popoli sottomessi di avere le loro pratiche religiose, di esibire i loro simboli. Si accontentava che rispettassero le leggi civili e che pagassero i tributi. Che diritto ha oggi una corte europea, che non ha prerogative imperiali, che non ha sottomesso nessuno, di imporre leggi spirituali e culturali, di dire: voi italiani, basta quanto siete stati italiani, da oggi in poi dovete essere diversi?
Si limitino i signori della corte ai traffici e ai commerci, alle misure economiche e finanziarie, alle dimensioni delle banane, e lascino stare la tradizione nella quale ciascun popolo si riconosce da millenni! Purtroppo non è un caso che questo fiume carsico del fanatismo e dell’intolleranza scompaia e ricompaia nel cuore dell’Europa. Carlo Magno ai suoi dì macellò, in ripetute spedizioni, centinaia di migliaia di Sassoni che non si piegavano alla sua religione; Hitler, non potendo trasformare gli ebrei in non ebrei, decise di toglierli tutti dalla faccia della terra. Ora il nuovo totalitarismo imperante, sotto mentite spoglie, vuole che gli europei siano tutti grigi come il colore del cielo continentale, da dove sono sempre fuggiti gli spiriti più liberi e vivaci. Da dove preferiva allontanarsi lo stupor mundi, quel Federico II di Svevia, che non era un bacchettone al servizio del Papa, e dimostrò che si può rispettare l’altro senza tradire se stesso.
Non ricordo personalmente di aver abitato da bambino una casa diversa da quella in cui ho trascorso gran parte della mia infanzia. I miei ricordi arrivano a quella dirimpetto alla chiesa romanico-bizantina della Madonna della Strada, a Taurisano. Vedevo la gente che passava di lì segnarsi, farsi il segno della croce, fare un lieve cenno di saluto, baciarsi la punta della mano destra e poi alzarla verso di lei; e ancora oggi lo fa, passando davanti ad un’icona, ad una nicchia votiva, ad un’immagine sacra. Così imparai a fare anch’io e tutti gli altri bambini. E ogni volta che passo di lì o da dove c’è un luogo sacro, ancora oggi mi porto pollice e indice uniti della mano destra alle labbra, per mandare un bacio di saluto e di rispetto. Eppure – maledizione! – ho perso la fede da non ricordo più quanti anni.
Ma se la fede l’avevo, l’ho persa e potrei ritrovarla, mi chiedo: che può comportare la presenza dei simboli religiosi al formarsi liberamente di una persona? Nulla, non influisce minimamente. Sono semmai gli uomini che ti fanno acquistare o perdere la fede, coi loro esempi.
Per favore, perciò, signori della Corte di Strasburgo, lasciate a ciascuno il Crocefisso suo; non foss’altro che per ricordarsi chi è e soprattutto di chi è figlio!

[ ]

domenica 1 novembre 2009

L'Italia al netto di Berlusconi

Va detto chiaro e forte: Berlusconi rappresenta oggi in Italia il degrado della politica, come non era stato mai conosciuto da cinquant’anni in qua. Che quotidianamente ce lo vengano a raccontare gli offesi e disgustati sacerdoti del galateo democratico, quelli, per intenderci, che si aggirano intorno al sacro fuoco de “la Repubblica” e de “L’Espresso” e di altari e tempietti votivi vari eretti nei dintorni, è inutile come bussare alle porte del Colosseo. Ci sarebbe solo da obiettare che Berlusconi è anche a capo di un governo, che nessuno ancora ha dimostrato che non stia governando bene, a parte le trovate propagandistiche, stancamente ripetute e puntualmente smentite dai fatti, delle opposizioni. Le quali, peraltro, insistono sulla questione morale, non solo per furore antiberlusconiano, ma anche per mancanza d’altro. L’antiberlusconismo, come unico male di questo paese, proposto in tutte le salse e tirato fino all’inverosimile, rischia più del male stesso, ossia il berlusconismo, a creare assuefazione.
Ma l’altro c’è. Non riguarda Berlusconi – abbiamo detto al netto di Berlusconi – riguarda l’Italia. Ed è qualcosa che è assai più grave. Nel Nord c’è una questione padana, la cui pericolosità viene nascosta o sottovalutata, mentre nel Sud si torna a glorificare il brigantaggio come fenomeno di resistenza all’invasore. Alla vigilia dei 150 anni dell’unificazione nazionale, il Paese è più lacerato che mai; e non solo per le ataviche disparità socio-economiche, ma questa volta per più consapevoli risentimenti politici e culturali. E’ forse una simile condizione più lieve delle sortite di Berlusconi contro i giudici? Dei suoi festini nelle sue lussuose dimore? Delle escort, che fanno da cornice alla sua solitudine di uomo sempre più fallito nella sua dimensione affettivo-spirituale? Mi piacerebbe che qualche disgustato antiberlusconiano rispondesse su questo.
Una recente puntata di “Blu notte – Misteri italiani” su Rai Tre (30 ottobre), condotta dallo scrittore Carlo Lucarelli, ha ricordato che nella sola provincia di Caserta in questi ultimi anni di imprese casalesi, così dette da Casal di Principe, il comune epicentro del sisma camorristico-mafioso, le vittime – intendo morti ammazzati – assommano a 1.500: una guerra! A Castelvolturno, sempre nel Casertano, dove nel 2008 ci fu la strage degli immigrati di colore da parte della camorra, ci sono 25.000 clandestini, ignorati dalle autorità. Regioni come Campania, Calabria e Sicilia sono territori dove lo Stato non esiste, nel senso che non può esercitare la sua sovranità con la forza della legge e dei suoi uomini. Se non è frontalmente attaccato, è perché prudentemente fa di tutto per non apparire. Recentemente nel rione Sanità di Napoli un uomo è stato ammazzato in pieno giorno sotto gli occhi di tutti, ripreso dalle videocamere di servizio, senza che nessuno facesse neppure spallucce, mentre i passanti lo scavalcavano come fosse una pozzanghera. In quelle regioni la gente permale intimidisce e ammazza; quella perbene reclama il diritto alla paura e al silenzio. Mi piacerebbe che qualche disgustato di Berlusconi rispondesse alla domanda: butteresti giù dalla torre le schifezze di Berlusconi o le nefandezze della camorra e della mafia? Non c’è alcun dubbio che gli italiani perbene, che vivono nel terrore casalese o corleonese, direbbero: che venga pure uno mille volte peggio di Berlusconi purché riesca a pulire il paese dalla barbarie di tanti criminali.
Viviamo una condizione diffusa di sporcizia morale, per anni e anni propagandata dai disgustati democratici antiberlusconiani come normali libertà da tutelare. E’ lecito in questo paese drogarsi, andare a puttane e a transessuali, si tratti pure di alte personalità del mondo delle istituzioni, come Sircana, portavoce di Prodi qualche anno fa, come Marrazzo, presidente della Regione Lazio, di recente. Ma chissà quanti altri sguazzano nel disordine morale a dispregio delle istituzioni che occupano indebitamente! Ma Marrazzo si è dimesso – obiettano i disgustati antiberlusconiani – Berlusconi dice di non dimettersi neppure se i giudici lo condannano; e liquidano la faccenda con tutto il luridume annesso e connesso.
E’ vero: Berlusconi prevarica gli altri poteri dello Stato, sminuisce il legislativo e tende a fare a meno del Parlamento, si oppone al giudiziario, che minaccia di voler riformare; vero…verissimo! Ma quando i giudici, che dovrebbero limitarsi ad applicare le leggi che il Parlamento approva, minacciano scioperi e creano condizioni conflittuali in opposizione ad un sacrosanto dovere del Parlamento e del Governo, si comportano meglio?
Il resto d’Italia, al netto di Berlusconi, è peggio. Se non altro perché Berlusconi è uno, e prima o poi dovrà finire; ma tutto il resto è una pandemia, che colpisce in ampiezza e profondità ed ha radici che arrivano a nutrirsi di quella democrazia tanto difesa dai disgustati antiberlusconiani.
[]