domenica 22 novembre 2009

Fare politica in terra di mafia

Le esemplificazioni non piacciono e non esauriscono le questioni; ma servono a coglierne la ragione centrale. In terra di mafia – e il Mezzogiorno lo è in tutta la sua estensione – o colludi o collidi. Ci sono cittadini, che possono pure chiudersi nel privato ed evitare di entrare in contatto con la mafia; sono i dormienti della società civile. Fra di essi potrebbero esserci anche persone valide e validissime, che, in condizioni normali, potrebbero dare un contributo notevole e notevolissimo alla propria comunità, cittadina o nazionale. Dormendo, tuttavia, sono funzionali alla mafia.
Ci sono altri, che, per la loro esposizione pubblica, non possono rifugiarsi nel privato e finiscono faccia a faccia con la mafia; a questo punto o colludono e fanno affari fino a quando non vengono scoperti; o collidono, cioè si scontrano con essa e quasi sempre ne hanno la peggio. Un peggio che non è soltanto fisico e limitato alla persona singola, ma investe altri aspetti e soprattutto colpisce le famiglie. Nell’uno come nell’altro caso si finisce male.
I soggetti a rischio di contatto mafioso non sono soltanto i politici, i giornalisti, i pubblici funzionari, ma anche gli operatori economici, che, col potere politico, vivono in simbiosi e perciò sono elementi sensibili.
Tutto ciò è favorito dalla democrazia, che, fondando la sua ragion d’essere sul consenso elettorale, offre alla mafia un campo d’azione formidabile. Furono lungimiranti i mafiosi che si erano rifugiati in America per sfuggire alle persecuzioni fasciste quando decisero di collaborare alla causa democratica, preparando e favorendo lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Capirono che era anche la propria causa: “Picciotti, cosa nostra è!”.
Chi aspira al potere politico, in terra di mafia, a maggior ragione deve fare i conti con essa. Le “argomentazioni” mafiose convincono più di quelle politiche; ergo il politico ha bisogno dei voti, che la mafia è in grado di procurargli in gran quantità. La mafia ha bisogno di profitti. Il do ut des è a fondamento dell’entente mafiosa.
Le classi dirigenti meridionali hanno sempre scelto di colludere, un po’ per loro natura, appartenendo alla stessa territorialità antropologica, un po’ per alibi di atavici ritardi e fallimenti. Da noi non si perde mai per propria incapacità, ma sempre per mancanza di mezzi o per inganni e raggiri da parte dei più capaci.
Nel segmento mafia-politica opera tutta un’umanità produttiva, fatta di lavoro, di commercio, di imprenditoria. La borghesia meridionale, a causa della mafia, opera in condizioni di sopravvivenza; è inevitabilmente “mafiosa”. Chi vuole lavorare e produrre, infatti, prima o poi, entra in contatto con essa, la quale non ti chiede se vuoi far parte come ad un’associazione onlus, ma ti costringe senza pietà e misericordia. Ti fa trovare la testa del cavallo prediletto sotto le lenzuola come nel “Padrino” di Puzo-Coppola.
La collusione ha vari gradi: il primo è di protezione, ed è sopportato; il secondo è di forza, ed è gradito; il terzo è di collaborazione e di prestigio, ed è organico. A volte si passa dall’uno all’altro come in massoneria si passa da un grado all’altro, fino alla maestranza venerabile.
Il caso gallipolino ne dà un’ulteriore conferma. Flavio Fasano, già sindaco di Gallipoli e poi assessore provinciale, uomo convintamente di sinistra, già comunista e poi democratico, era in sintonia politica con Rosario Fasano; mentre il fratello di costui, Salvatore, ucciso – stando a quanto riferiscono i giornali – era in sintonia politica col centrodestra. Non conosco l’ambiente gallipolino e non penso nulla sia su Flavio Fasano sia sui suoi omologhi dell’altra parte, ma sicuramente si tratta di persone come tante, che, ad un certo punto, hanno pensato di poter fare politica nella loro città a prescindere dalla mafia. Se non l’avessero fatto loro, l’avrebbero fatto altri, con altri nomi e cognomi. Il risultato non sarebbe stato diverso.
A Gallipoli si era verificata una situazione come quella pre-romana di Romolo e Remo: uno dei due fratelli era di troppo. Una situazione drammatica perché lo scontro era in famiglia; altrove è fra clan diversi, in lotta per il controllo del territorio.
Questo prova che nel Mezzogiorno non è una questione di destra o di sinistra, è una questione di mafia, che omologa tutto. E prova ancor più – e questo è disperatamente grave – che se pure una delle parti si gioca la carta eroica di rifiutare i favori della mafia per non colludere con essa, c’è sempre pronta l’altra parte a non farsi scrupoli e li accetta, secondo un proverbio che qui è regola aurea “quiddu ca lassi è persu”.
Vie d’uscita? Francamente non se ne vedono. Sia per la mafia che per la questione meridionale in generale si ripetono da anni le stesse cose. E non c’è peggior situazione dello stallo. Si dice: non tutti nel Mezzogiorno sono mafiosi; l’Italia non cresce se non cresce il Mezzogiorno. Banalità! Poi vediamo che la mafia continua a dominare su tutto e su tutti, mentre una parte dell’Italia, la settentrionale, è cresciuta a dismisura e l’altra, la meridionale, è rimasta coi problemi di sempre: sottosviluppo e criminalità organizzata.
E allora? Qui occorrerebbe un’autentica rivoluzione, che nessuno, però, si sogna di fare. Una rivoluzione tutta dentro al cervello dei meridionali, i quali dovrebbero rinunciare al potere e al prestigio personali, frutto di scorciatoie criminali, per creare condizioni, in cui potere e prestigio personali fossero sì da conseguire ma con altri percorsi e con altri mezzi. Che sarebbe come rinunciare all’uovo oggi per la gallina domani. Ma solo una classe dirigente, lungimirante e coraggiosa, potrebbe riuscirci. C’è?
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