sabato 27 maggio 2023

Giorgia Meloni e il rodeo di governo

Giorgia Meloni è ancora saldamente in sella; e il rodeo dopo sette mesi continua. Gli avversari avevano dato cinque mesi di vita al suo governo, non di più. I primi mesi sono stati piuttosto tormentati per gli attacchi delle opposizioni ora a questo ora a quel rappresentante del suo governo. Al povero Delmastro, sottosegretario alla giustizia, hanno fatto venire un ictus, per una cosa da niente. Attacchi molto spesso pretestuosi, gonfiati e quasi sempre per comportamenti poco istituzionali, di galateo insomma. Inevitabili per chi era stato sempre all’opposizione, dove le cose si vedono e si fanno in maniera del tutto diversa. I soliti media hanno volta per volta ingigantito piccoli episodi. Massimo Giannini, Andrea Scanzi, Alessandro De Angelis, i campioni dell’antimelonismo, si sono stancati di scandalizzarsi, tanto insistente è stato il loro tambureggiare. “Domani” e “la Repubblica” sono andati a ravanare nella sua vita precedente di famiglia, pensando di fare chissà che, non trovando niente di illegale e niente di così tanto disdicevole. Si sono giustificati dicendo che di un politico è importante conoscere vita morte e miracoli di lui e dei suoi, fino alla settima generazione, insinuando che se uno non somiglia del tutto ai suoi qualcosa finisce sempre per averlo. Come i magistrati hanno l’obbligo dell’azione penale così i giornalisti hanno l’ “obbligo” dell’azione conoscitiva, salvo che gli uni compiono un reato se non agiscono, gli altri agiscono per scelte del tutto spontanee. Viene il sospetto di pensare che il padrone di “Domani”, l’ineffabile ingegnere De Benedetti abbia sostituito alla direzione del giornale Stefano Feltri con Emiliano Fittipaldi perché forse il primo si sarebbe dimostrato poco incline a certe operazioni. Certe cose magari non sono vere, ma piace pensarle. Oggi nessuno o quasi nega alla Meloni doti eccezionali e anche simpatia umana, insieme con gli immancabili attributi di donna forte e capace, scaltra e volitiva. Le ha sicuramente giovato il suo mercurialismo internazionale. In pochi mesi si è fatto il giro del mondo, ha conosciuto capi di Stato e di governo, anche tra i più potenti della Terra. E con tutti ha famigliarizzato, con abbracci e baci. Il Presidente degli Usa al recente G7 in Giappone l’ha presa persino per mano. Solo i francesi e gli spagnoli hanno avuto da ridire, ma questo lo si capisce. Francia e Spagna hanno problemi interni, i governanti soffrono le opposizioni che in qualche modo hanno in Giorgia Meloni un punto di riferimento, un esempio importante e vincente. Con la Francia poi! Non hanno digerito i gallici cugini gli incontri e le intese fatti dalla Meloni in Tunisia e in Algeria, che pensano ancora di avere a loro esclusiva disposizione. Con la sventurata tragedia dell’alluvione in Emilia Romagna la Meloni ha dimostrato ancora una volta una rassicurante e convincente capacità di intervento. Non solo si è recata subito, anticipando il rientro in Italia dal G7, per rendersi conto di persona di quel che era successo in patria, ma coinvolgendo nelle iniziative di governo il Presidente della Regione Stefano Bonaccini che è il Presidente del Pd, il più forte partito dell’opposizione. E forse, se non fosse per le rigide leggi della politica, non scritte ma perciò ancora più stringenti, non sarebbe contraria a nominarlo commissario per la ricostruzione. È riuscita a trovare in pochissimo tempo due miliardi di Euro e a far venire a vedere di persona il disastro la Presidente della Commissione Europea, la Ursula von der Leyen, la quale ha dichiarato che la Regione alluvionata è stata vittima del cambiamento climatico mondiale ed ha promesso di trovare altri fondi per la ricostruzione. Continua la Meloni a dire che tra i suoi propositi più qualificanti c’è la riforma costituzionale in senso presidenzialista. Le opposizioni, compresi i giornalisti al seguito e in avanscoperta, sostengono che la Meloni insiste sul presidenzialismo per nascondere il vuoto del suo governo, una bandiera insomma. Il presidenzialismo è nelle carte della destra fin dai tempi di Almirante e la Meloni lo ha ribadito più volte in campagna elettorale. C’è poco o niente da nascondere. Semmai c’è da valutare bene la situazione perché quando si vuole cambiare qualcosa di importante gli effetti non sempre sono tutti prevedibili. La Meloni saprà valutare l’opportunità di spingersi in un’avventura che potrebbe conferire al suo governo il carattere epocale di un cambio di sistema. È appena il caso di ricordare che contro questa Repubblica il suo partito, fin dal Msi, si è sempre pronunciato. Ma non si può disconoscere che essa ha consentito a quel partito di vincere le elezioni.

sabato 20 maggio 2023

A giorni, per qualche voto in più

Le Amministrative del 14-15 maggio, sono state nei loro esiti molto misurate, hanno detto e non detto, come una puntata di telenovela che rimanda il meglio alla successiva. In alcune città hanno vinto le liste civiche ed è questo un dato che conferma nelle elezioni amministrative la prevalenza dei caratteri localistici. Fermo restando perciò che esse, per la loro specificità, non possono essere paragonate alle politiche nazionali, dove le scelte degli elettori sono più nette e identitarie, meno soggette a condizionamenti locali, un minimo di lettura politica si deve e si può fare. Lasciamo stare i politici, che sono tornati tutti a “vincere”, tranne Giuseppe Conte che ha visto il suo M5S ridursi ai minimi termini. Il Pd – ha commentato amaro e risentito l’ex Presidente del Consiglio – ci ha “rubato” tutti i nostri dossier, ci è rimasta l’opposizione delle armi all’Ucraina. Ma si sa che il suo partito, da quando esiste, mostra il meglio di sé alle elezioni politiche nazionali. A destra i commenti sono stati cautamente positivi. La coalizione ha tenuto. Il che non era scontato. Da anni i partiti al governo vengono penalizzati alle elezioni successive alla loro ascesa; è quasi fisiologico che accada. La gente è facile alle speranze e alle delusioni. A sinistra non c’è stato l’effetto Schlein, come si sperava dopo l’insediamento del nuovo segretario, atteso come i tifosi attendono l’ingresso in campo del fuoriclasse che risolve coi suoi goal tutti i problemi della squadra. Tutti, a destra e a sinistra, si sono limitati a rimandare ai ballottaggi. Non senza stare con le mani in mano. Si è mossa subito la Schlein, cercando intese ciellenistiche e antifasciste in modo da poter battere le destre ai ballottaggi; e ha chiesto incontri al M5S, ai centristi di Renzi-Calenda e ai minimi del convento, per ricreare nel Paese un clima di Resistenza contro il governo della Meloni, considerato un governo fascista. Ormai un leutmotiv che raccorda la Murgia a Canfora. L’ultimo in ordine di tempo il prof. Tomaso Montanari, critico e storico dell’arte, che vede nel logo MIM del Ministero dell’Istruzione e del Merito due fasci littori con una i in mezzo e in alto un punto tricolore quasi a riprendere la fiamma del Msi. Non è uno scherzo. L’illustre cattedratico ha dato proprio questa lettura. Quel logo, invece, è semplicemente più adatto ad un negozio di giocattoli che a indicare un’istituzione dello Stato. Ma ognuno vede quel che “vede”. Ma che cosa s’aspettano dai ballottaggi destra e sinistra? Secondo esperienze pregresse, in Italia e non solo, si pensi alla Francia dove votano tutti insieme appassionatamente pur di non far vincere la destra lepeniana, i ballottaggi potrebbero essere vinti in maggioranza dalla sinistra. La destra, infatti, ha pochi margini di aumentare i consensi avendo già chiamato tutti i suoi al voto domenica scorsa. La sinistra, invece, ha margini ancora di crescita, potendo far suoi anche i voti di chi domenica scorsa ha votato per altri candidati e liste. Per chi voteranno quei pochi dei Cinque Stelle rimasti se non per il comune avversario di destra? È una questione aritmetica. Inutile sperare in un aumento dei votanti, anzi potrebbe accadere l’opposto e cioè una loro ulteriore diminuzione. Non è per capriccio politico che il ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, il leghista Roberto Calderoli, ha proposto di modificare la legge per evitare i ballottaggi. Che, a suo dire, altererebbero nel giro di quindici giorni le indicazioni degli elettori, addirittura ribaltandole. Se dovesse accadere che a vincere i ballottaggi sia la sinistra, soddisfazione a parte del momento, con squilli di tramba, non si capisce dove vada essa a parare con tante contaminazioni elettorali. Si tornerebbe, con tutto il rispetto, a situazioni arcobaleno lettiane, di difficile gestione politica, escluso che da un momento all’altro si possano licenziare i sodali antidestre dopo il voto, salvo a riprendere i contatti qualche tempo dopo per le successive tornate elettorali. Nel 2024 ci saranno le Europee, il rinnovo delle amministrazioni di alcune regioni e di alcune importanti città. E il voto, in quella circostanza, sarà proporzionale, che accentuerà le distinzioni partitiche, altro che ammucchiate strumentali e di breve durata. Con molta probabilità i ballottaggi serviranno alla sinistra, sempre che li vinca, per dire di aver iniziato un processo di recupero e che l’onda della destra si è infranta sugli scogli di Punta Schlein. Il che confermerebbe quanto ormai è emerso. Che se la destra al governo mostra qualche imbarazzante defaillance, la sinistra all’opposizione dimostra di non saper fare bene quel mestiere. E non solo la sinistra. Il duo Renzi-Calenda, alle prese di comareschi litigi, ne è un esempio.

sabato 13 maggio 2023

Meloni tra Machiavelli e Manzoni

Se mai la Meloni incontrasse in sogno Niccolò Machiavelli farebbe bene a chiedergli se un politico che è al potere deve o meno mantenere le promesse fatte in campagna elettorale. Il segretario fiorentino non esiterebbe a dirle che se il mantenere le promesse fatte giova a conservare e a rafforzare il potere sì, ma se il mantenerle fosse causa di ruìna, ovvero di un rovescio politico, assolutamente no. La Meloni da parte sua avrebbe meno esitazione a dargli ragione, avendo già sperimentato che quando si è all’opposizione o in campagna elettorale è cosa ben diversa dal trovarsi a difendere il potere conquistato. Il presidenzialismo! Verissimo che da sempre uno dei cavalli di battaglia della destra, missina prima, aennina e di Fratelli d’Italia dopo, è stata la riforma della Costituzione in senso presidenziale, ma ora conviene farla davvero? I segnali inducono alla prudenza. Sulla riforma costituzionale hanno fallito già altri, Berlusconi nel 2006 e Matteo Renzi nel 2016, entrambi sconfitti dal referendum. A mettere in guardia la Meloni sono accorsi anche i due autori dell’ultimo libro su di lei, “Fratelli di Giorgia”, Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati, i quali così concludono: “Di tutti gli errori che Giorgia Meloni e il suo partito possono fare e di cui sono indiziati questo sarebbe il peggiore: coltivare l’idea di cambiare la Costituzione a colpi di maggioranza, per di più sulla base di ipotesi che al momento appaiono abbastanza bizzarre, confidando di avere dalla propria parte un largo sostegno popolare. Questo calcolo sarebbe molto arrischiato”. In caso di referendum, che sic stantibus rebus sarebbe inevitabile, la Meloni avrebbe contro tutti, che, alleati in un nuovo patto di Resistenza, avrebbero la vittoria in tasca. Nel primo giro di consultazioni effettuato, martedì, 9 maggio, a Palazzo Chigi, la Meloni si è trovata di fronte ad una varietà di posizioni, quasi tutte, ad eccezione di quella del centrista Calenda, contrarie. No al presidenzialismo da parte del Pd con proposta di un cancellierato alla tedesca, no da parte del M5S con la proposta di una bicamerale, no dei cespugli di sinistra a cui sta benissimo l’attuale situazione, con una quasi costante linea comune: il Presidente della Repubblica, quale garante della Costituzione, non si tocca. Che è come dire che di riforma non se ne parla proprio, dato che non c’è riforma costituzionale in senso presidenziale che non parta dal presidente della repubblica. Se questo non si deve toccare, non si capisce che riforma si può fare. Si consideri inoltre che in Italia, pur di non far vincere l’avversario si è disposti a vendersi l’anima e a ricorrere a qualsiasi mezzo. Ed è appena il caso di dire che in cantiere c’è l’autonomia delle regioni, che è considerata dagli avversari di questo governo come un tentativo di dividere il Paese. Le due proposte rivoluzionarie del governo di Giorgia Meloni, presidenzialismo e autonomismo regionale, finirebbero per creare un clima da guerra civile. Che le parti in campo non abbiano nessuna intenzione di trovare dei punti in comune per ipotizzare una via d’uscita lo dice il fatto che la Meloni continua a proclamare che se non trova disponibilità a collaborare la riforma la farà lo stesso; dall’altra parte, altrettanto chiaramente dicono che se si tratta di prendere o lasciare loro sono nettamente per lasciare. Il rischio è che le opposizioni cerchino di impantanare il processo riformistico con tutta una serie di ostacoli, freni e dilazioni, fino alla resa o al giudizio di Dio, ovvero allo scontro finale referendario. Poste queste condizioni, conviene avventurarsi in una riforma che porterebbe il Paese ad uno scontro sociale e politico che finirebbe non per essere un confronto sulla bontà o meno della riforma ma sul mantenimento o caduta del governo che l’ha proposta? Giorgia Meloni, nella sua autobiografia, insiste che lei “costi quel che costi” le cose in cui crede le fa, che è tipico dell’essere giovani. Il Manzoni, di cui quest’anno ricorre il 150° anno dalla morte, immaginò nel suo celebre carme In morte di Carlo Imbonati, un testo pedagogico, che un giovane non deve mai staccare gli occhi dal traguardo da raggiungere o che di lui si dica, nel caso di insuccesso, sull’orma propria ei giace. Non credo che la Meloni possa accontentarsi di questo. La sua condizione la obbliga a dare più ascolto a Machiavelli che a Manzoni. Nel “costi quel che costi”, da lei tante volte usato, sono compresi la sua vicenda personale ma anche e soprattutto quel mondo di valori e di progetti che lei rappresenta.

domenica 7 maggio 2023

Fratelli d'Italia ai raggi X

In un saggio del 2013, “La fine del potere” (Mondadori), il politologo venezuelano Moisés Naím notava che il potere in tutti i settori della vita, è in decadenza. “Il potere – diceva – è più facile da ottenere e più difficile da esercitare o conservare”. E questo non solo negli stati ma anche nei consigli di amministrazione, nei campi di battaglia, nelle chiese. Ed offriva una serie di esempi nel mondo. Il caso italiano ne costituisce uno. In Italia è accaduto che un sistema politico consolidato si è sbriciolato dopo cinquant’anni. Tanti ne sono trascorsi dalla sua nascita ciellenistica (1943) fino alla sua caduta sotto i colpi di Tangentopoli (1993). Da allora si è passati da un tentativo all’altro alla ricerca di un nuovo sistema di potere per rimpiazzare quello dei partiti, che Giuseppe Maranini definiva partitocrazia. I due soggetti politici che da allora si sono fronteggiati, nella classica dialettica maggioranza-opposizione, sono stati rubricati molto genericamente come centrosinistra e centrodestra. Dal 2011 ad oggi, poco più di dieci anni, c’è stata addirittura un’accelerazione di cambi e di trasformazioni in sintonia con un elettorato piuttosto liquido. Abbiamo avuto otto capi di governo per nove governi: Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte uno, Conte due, Draghi, Meloni. Non si può che prendere atto di una sorta di schizofrenia della politica, con due formazioni, il M5S di Beppe Grillo e FdI di Giorgia Meloni, che era del tutto impensabile potessero conquistare la maggioranza del paese e guidare coalizioni politiche di governo. L’inizio di questo tumultuoso succedersi di forze politiche e di governi in Italia risale alla fine della cosiddetta prima repubblica, quando andò in frantumi il potere strutturato coi partiti di alto profilo ideologico e programmatico, dalla Dc al Pci e al Msi, con i partiti socialista, socialdemocratico, liberale e repubblicano. Dalle macerie di quel sistema, siamo nel 1993, nasce Forza Italia, che nel 1994, l’anno dopo, conquista il potere. Nel 1995 nasce l’Ulivo di Romano Prodi e l’anno dopo, nel 1996, va al potere. Il Movimento 5 Stelle nasce nel 2009, già nel 2013 poteva assumere il potere, lo fece nel 2018, nel 2022 è fuori, dopo tre governi, uno diverso dall’altro (Conte uno con la Lega, Conte due col Pd, con Draghi in un governo di unità nazionale). Fratelli d’Italia nasce nel 2012, nel 2022 va al potere, dopo un decennio. È di tutta evidenza che siamo di fronte ad un fenomeno che trova nell’analisi di Naím la sua cornice. Ora, di fronte all’ultima scheggia di questo fenomeno, che è Meloni con FdI al governo, si sono posti due studiosi, Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati, entrambi dell’Istituto Cattaneo, uno insegna all’Università di Bologna Politica comparata e Analisi dell’opinione pubblica, e l’altro si occupa di politica e di storia del cinema. Il loro saggio, “Fratelli di Giorgia. Il partito della destra nazional-conservatrice” (il Mulino, 2023), è di assoluto rigore scientifico e risponde a tutti i quesiti che i cittadini e gli studiosi possono porsi. Quando, come e perché è nato questo partito. Quali persone, ceti e interessi rappresenta. Chi sono e da dove vengono i loro leader. Come è riuscito a diventare in così breve tempo il primo partito d’Italia, le sue tecniche di comunicazione, le sue strategie politiche, le sue evoluzioni. Come ha potuto passare il guado da partito maledetto ed escluso (date le sue origini postfasciste mai nascoste e rivendicate) a partito preferito da una maggioranza di italiani patriottici, moderati e nazionalconservatori, che hanno preso atto dell’approdo e l’hanno accettato, passando da camerati a fratelli. I due studiosi hanno dovuto partire inevitabilmente da lontano, avendo come costante punto di riferimento il simbolo, la fiamma tricolore: il Msi di Giorgio Almirante (1946), An di Gianfranco Fini (1994) e FdI di Giorgia Meloni (2012). Il volume è strutturato in maniera tale da poter seguire l’evoluzione di FdI, con continui rimandi interni come guida nei vari passaggi. Al centro non poteva esserci che la protagonista in assoluto, Giorgia Meloni, vista come a lei piaceva proporsi, donna madre italiana cristiana, impegnata sui vari fronti della politica, ad incominciare da quelli interni del suo partito a quelli della coalizione. Al suo interno Meloni non ha avuto nessun problema ad essere il capo indiscusso, essendo stata la creatrice fin dall’esperienza di Atreju, un’esperienza umana e politica costituita da giovani che in lei si sono riconosciuti e con lei sono partiti e giunti al traguardo. Il suo successo all’interno della coalizione di destra è per i due studiosi un felice incontro di fortuna e di virtù. Per la fortuna, sicuramente gli errori di Salvini, il progressivo appannamento della leadership berlusconiana e l’irruzione nell’elettorato del M5S che ha indebolito le identità politiche. Per la virtù, innanzitutto le qualità della Meloni, capace di essere coerente e duttile, poi le caratteristiche organizzative del partito “personalizzato e centralizzato”. Ora, di fronte alla Meloni ci sono diverse sfide da affrontare, interne ed esterne al partito, verso i suoi competitors e verso il Paese. Una, però, è da evitare. Secondo i due studiosi “Di tutti gli errori che Giorgia Meloni e il suo partito possono fare e di cui sono indiziati questo sarebbe il peggiore: coltivare l’idea di cambiare la Costituzione a colpi di maggioranza”, ove gli altri partiti non fossero disponibili ad andare verso una repubblica presidenziale condivisa. Ma la sfida delle sfide è durare al potere, per dimostrare di essere qualcosa di più di una delle tante convulsioni di un sistema politico che cerca di stabilirsi.