sabato 26 dicembre 2015

L'Italia: un paese sospeso


L’incarico di Renzi a formare il governo, frutto di una serie di circostanze di derivazione elettorale e politica, ma voluto dall’allora Presidente della Repubblica Napolitano, fece pensare di primo acchito ad una sospensione della democrazia. Per quanto tutto fosse stato fatto in ossequio alla Costituzione – non è scritto in nessuna parte che il Presidente del Consiglio incaricato deve essere un eletto dal popolo – si avvertì un deficit di dibattito e di confronto, in considerazione che la nostra è una repubblica parlamentare e una democrazia rappresentativa. Parlamentare perché il ruolo del Parlamento è centrale; esso elabora soluzioni politiche al suo interno e non si limita a ratificare scelte fatte fuori. Rappresentativa di che? Di quelle forze politiche elette dal popolo in regolari elezioni. Esse poi pensano e decidono coi loro uomini più rappresentativi, coi loro leader, in maniera collegiale. Ora, quella di Napolitano fu una scelta singola, di cui egli si è assunto la responsabilità di fronte al paese e alla storia, nel bene e nel male. Duo non faciunt collegium dicevano i latini, figurarsi uno!
L’interventismo di Napolitano parte dall’estate del 2011, come ormai è acclarato da testimonianze mai smentite, con le dimissioni “indotte” di Berlusconi, già politicamente esautorato e moralmente screditato, con l’incarico a Mario Monti, col tentativo Bersani, con l’incarico a Letta e infine con l’investitura di Renzi. Dopo le elezioni politiche ci fu l’intermezzo della rielezione di Napolitano al Quirinale. Apparve subito pertanto che si trattava di un’operazione di vertice, gestita in più fasi, una volta si sarebbe detto “congiura di palazzo”, garantita dalla continuità istituzionale e politica di Napolitano. E di golpe strisciante si parlò all’epoca dei fatti. Se non fu un golpe sotto il profilo tecnico, lo fu sotto il profilo politico.
Dopo circa due anni di governo Renzi, appare di tutta evidenza che non solo la democrazia è sospesa, ma anche la politica in senso più ampio; e quando la politica è sospesa è come un motore che si spegne e la macchina non va né avanti né indietro. Ecco, l’Italia è un paese sospeso. Lo è politicamente, economicamente, culturalmente, eticamente. Il dibattito politico è congelato, lo zero virgola della crescita è insignificante, la classe dirigente non ha idee precise sulla sua identità culturale, la caduta di tensione nell’etica del ruolo, specialmente per certe professioni, è segno di spaesamento diffuso e crescente.
Non sono tanto le esibizioni di Renzi, parodisticamente mussoliniane e berlusconiane, che confermano questa percezione. Ora Renzi si mette anche a parlare di potenza dell’Italia, di prestigio nel mondo, di puntualità nel portare a compimento le opere pubbliche, come faceva Mussolini quando dal balcone di una nuova città appena inaugurata prometteva la data dell’inaugurazione della successiva; e attacca la Merkel in maniera solo meno pacchiana e volgare di Berlusconi.
Lo stato di incertezza e confusione lo si evince soprattutto dai commentatori politici che non sanno che pesci pigliare e dalla stampa tutta che li segue in una condizione di sostanziale autocensura, ormai conclamata. I più onesti non fanno proclami, ma lo dicono; e se non lo dicono, lo ammettono.
E’ una cosa molto grave la condizione in cui operano i giornalisti. Molti di essi, fior di firme, sono stati prepensionati e vivono in uno stato di “disoccupazione mentale”, nel senso che la loro intelligenza critica non trova gli spazi adeguati per esprimersi e incidere nella formazione dell’opinione pubblica. Ché quello è il ruolo di un intellettuale, di un commentatore critico. Vediamo l’affollamento di firme celebri nel “Fatto Quotidiano”, autentica area di parcheggio di menti rottamate. Altri, se non vogliono fare la stessa fine, si guardano bene dal criticare il potere e vivacchiano dicendo e non dicendo. Autocensurandosi, evitano al potere politico di mostrare la sua vera faccia, che è quella della repressione sia pure morbida; e salvano il posto di lavoro. I due maggiori quotidiani italiani la dicono lunga con la sostituzione di Ferruccio de Bortoli al “Corriere della Sera” e con quella, annunciata, di Ezio Mauro alla “Repubblica”. I due direttori sostituiti non erano renziani, sia pure per motivi diversi; Fontana e Calabresi lo sono. Ogni cosa ha il suo posto, ogni posto ha la sua cosa, si diceva saggiamente una volta nella bottega di un artigiano. De Bortoli e Mauro erano ormai al posto sbagliato.
L’aspetto più grave è il messaggio che passa da simili operazioni: si va verso un renzismo più sistematico e organico, si va verso il partito della nazione, che – facciamoci caso – ricorda tanto il partito nazionale fascista. Non contano i dettagli e i modi con cui l’uno si fece strada nel dopoguerra e l’altro si sta facendo strada nel dopocrisi – ma è davvero dopocrisi? – conta che oggi come allora si avverte la necessità di un partito che impedisca la dialettica politica e abbracci in un solo organismo tutta la nazione. Basta con le chiacchiere e chi non ha fiducia nel governo è un gufo. Non è un caso che il gufismo di Renzi si sta affermando come metodica, che travalica la battuta polemica e s’impone come cifra di comunicazione e di lotta politica. I gufi, nella visio di Renzi, sono gli avversari, malvagi perché sperano che le iniziative del governo falliscano a danno dell’intera nazione pur di dimostrare di essere loro i più adeguati a governare. Come fatto non è nuovo, un po’ è fisiologico in una democrazia; ma solo con lui o da lui in poi è diventato un’arma propagandistico-mediatica.
Nessun grido di allarme, nessun “al lupo, al lupo!”. Il partito della nazione non potrà mai calcare le orme del partito nazionale fascista; ma risponde come quello ad una volontà di creare in Italia un sistema politico a democrazia ridotta, in modo che chi lo rappresenta al massimo livello possa prendere i provvedimenti che occorrono in tempi brevi e rispondere all’Unione Europea senza tante incertezze e lacerazioni interne.

La domanda che è lecito porsi è: ma il renzismo è una fase del processo d’uscita dalla crisi politica, cui ne seguiranno altre fino al ritrovamento di un nuovo assetto politico-istituzionale, o è la risposta finale alla crisi? A ragionar politico, verrebbe di dire che è la risposta finale. A ragionare storico si ha qualche legittimo dubbio.

domenica 20 dicembre 2015

Cristiani e musulmani nel paese "fai da te"


In questo nostro Paese, lasciato allo spontaneismo più diffuso e alle iniziative più strampalate ed estemporanee, accade di tutto; c’è da aspettarsi di tutto.
A Pontoglio, comune in provincia di Brescia, il Sindaco di centrodestra Alessandro Seghezzi, ha aggiunto sotto le due targhe d’ingresso al paese una terza targa, in cui si avvisa che trattasi di «Paese a cultura Occidentale e di profonda tradizione Cristiana» e che «Chi non intende rispettare la cultura e le tradizioni locali è invitato ad andarsene». Già la seconda targa traduceva Pontoglio in “Pontoi”, a dire che in quel paese si è bilingui, italiano e dialetto bresciano, da intendersi, questo, di pari dignità comunicativa. E’ come se all’ingresso del mio paese, Taurisano, si aggiungesse una seconda targa per tradurlo nel dialetto “Tarusanu”. E perché, poi? L’italiano ci va stretto? Sarebbe forse assai più opportuno che questi neonazionalisti di Pontoglio e dintorni curassero di più l’italianità del loro essere geografico, politico e culturale, invece di chiudersi nelle gabbie dell’incomprensione.
Ma, dopo le prese di posizione di sconsiderati dirigenti scolastici di impedire a scuola lo svolgimento delle tradizioni natalizie cristiane per non offendere chi cristiano non è, ma, senza ipocrisie, in riferimento esclusivo ai musulmani, c’era da aspettarsi che alle cretinate di una parte si contrapponessero cretinate dall’altra. Anzi, doppie cretinate.
Errore rinunciare alle proprie tradizioni, millenarie, nella presunzione o nella paura di offendere degli stranieri, i quali non hanno mai chiesto finora di non essere offesi, né si sono mai lamentati di esserlo stati da un presepe o da un concerto di canti natalizi. Perché creare un problema quando non ne esistono i presupposti?  Già, perché? Perché si è fessi! Verrebbe di dire.
Ancor più grave – e qui mi riferisco al Sindaco di Pontoglio – quando dai ad intendere di avere tu un problema dalla presenza di migranti, i quali hanno tutto il diritto di essere musulmani o d’altro credo. Non solo il problema non esiste, ma inventarselo per angustiarsi e minacciare è ancora più da fessi.
Ricordo che tra gli anni Cinquanta e i Sessanta del Novecento l’Europa era piena di migranti italiani. Ce n’erano in Svizzera, in Francia, in Germania, in Olanda, in Belgio. E nella maggior parte erano lombardi, emiliani, friulani, veneti. C’erano pure i meridionali, i quali finirono per essere chiamati “cìncali” omologati ai settentrionali che, giocando a morra nei ristoranti, si facevano notare per come pronunciavano il cinque: <cinq>. Per cui tutti gli italiani erano <cìncali>, un diminutivo per indicare piccoli italiani; come noi abbiamo chiamato anni addietro i <vu’ cumprà>, dall’approccio con cui i venditori ambulanti di origine africana si proponevano.
A scuola nei primi anni Sessanta – frequentavo la scuola pubblica a Berna – nella mia classe c’erano un campano della provincia di Avellino, due salentini (io e un ragazzo di Aradeo) e un piemontese della provincia di Alessandria. Nell’ora di religione, che cadeva nella prima di ogni lunedì, noi cattolici entravamo un’ora dopo, perché la religione che si osservava in quella scuola era protestante. Nessuno si sentiva offensore e nessuno si sentiva offeso.
E’ ben vero che noi italiani rispettavamo tutto quello che c’era da rispettare, pubblico e privato; e gli svizzeri nei nostri confronti erano tolleranti nella rigorosa tutela delle loro cose, morali e materiali. La cultura, quando non è solo somma di saperi e di nozioni, aiuta e anzi promuove la convivenza.
Ora gli italiani del Nord si sono arricchiti, stanno bene, molto meglio di quelli del Sud – a parte qualche problema economico passeggero – si sono insuperbiti, hanno la puzza sotto il naso, dicono allo straniero: se non rispetti il mio Dio te ne vai. Fino a ieri o all’altro ieri certe cose le dicevano perfino a noi meridionali: non si affittano camere ai meridionali.
C’è in questa gente, per molti altri aspetti ammirevole, una sorta di tendenza ad una giustizia fai da te, ad un rifiuto di accettare le regole della nazione, che non può ragionare in alcun modo come il sindaco di Pontoglio. Lo Stato interloquisce con altri Stati, deve porre domande e deve dare risposte assai più importanti e responsabili.
Si dirà: oggi esiste un problema, che è sbagliato far finta che non esiste; ed è quello di una società che va sempre più multiculturalizzandosi senza una guida sicura da parte delle istituzioni. Voglio dire che l’immigrazione è un fenomeno molto serio, sia per i risvolti economici sia per quelli politici e culturali. Sarebbe una tragedia se diventasse serio anche per l’ordine pubblico.

Quale indicazione dà lo Stato per gestire il processo senza che questo se ne vada per sue direzioni? Nessuna. Nella più bella tradizione italica si lascia che tutto scorra spontaneamente. Non so se si tratti di una scelta calcolata o di una condizione immodificabile o inevitabile. Sta di fatto che lo Stato, mentre lascia che l’immigrazione faccia il suo corso senza alcun limite e senza alcun freno, non aiuta né le nostre istituzioni né i cittadini ad accogliere i migranti; né riconosce ai migranti diritti e doveri ben definiti. Così da un lato le città si riempiono di moschee abusive e adattate in locali di fortuna, incontrollate e incontrollabili, da un altro si permette a dirigenti scolastici e a sindaci di prendere iniziative, in un senso o nell’altro, ma sempre discutibili quando non vietabili e sanzionabili.     

mercoledì 16 dicembre 2015

Il fallimento delle banche: un altro paradosso italiano


Il cosiddetto decreto salva-banche adottato dal governo il 22 novembre scorso è un capolavoro di italianità. Di fatto ha dichiarato fallite quattro banche (Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Banca Marche, Carichieti e Cassa di Risparmio di Ferrara) per poter salvare – hanno detto quelli del governo – i correntisti e migliaia di posti di lavoro. Salvare cioè la parte sana di quelle banche tagliando e buttando quella malata. Peccato che nella parte malata c’erano 140.000 risparmiatori, i quali hanno perso 430 milioni di Euro. Pare che 12.500 di essi non hanno speranza alcuna di recuperare i soldi avendo investito in obbligazioni subordinate.
Addentrarsi nel complicato mondo della finanza, delle azioni, dei titoli, delle quote, delle obbligazioni subordinate e di altre finanziarità, è arduo – a quanto è dato capire – perfino per gli esperti. Tra i risparmiatori vittima del fallimento delle suddette banche ci sarebbero, infatti, perfino dei loro dipendenti, dei funzionari, che avrebbero dovuto sentire la puzza di bruciato prima dell’incendio.
L’assurdità della manovra del governo sta nel fatto che le istituzioni preposte ad impedire il fallimento, ovvero a che la situazione giungesse al fallimento, Banca d’Italia e Consob (Commissione Nazionale per le Società e la Borsa) dipendono dal governo e avrebbero dovuto tenere sotto controllo la situazione per impedire che accadesse quello che poi è accaduto. Insomma il governo ha fatto fallire col suo decreto salva-banche le banche che avrebbe dovuto impedire che fallissero.
E’ la democrazia, bellezza! Pur non essendo un fanatico della democrazia, direi: è l’Italia, bellezza! Ma come possono accadere cose simili senza che alla fine ci siano dei responsabili ai quali far pagare le colpe del disastro? A dare colore, tipicamente italico, c’è che la Banca dell’Etruria aveva come vice-presidente il padre del Ministro per le Riforme Maria Elena Boschi e tra i funzionari di vertice della banca il fratello della Boschi e tra i dipendenti la cognata (della Boschi sempre).
Oggi quelli del governo se ne escono con la Commissione parlamentare d’inchiesta, istituto che non ha mai combinato nulla di buono in Italia; come se l’istituzione di questa commissione fosse la panacea di ogni male.
I cittadini devono sapere che una banca fallisce come una qualsiasi azienda: spende soldi che non riesce a far rientrare. Queste banche hanno prestato danaro ad imprenditori amici, senza accertarsi delle loro condizioni di solvibilità e di restituzione. A questo s’aggiunga pure qualche altra spesa eccessiva, come assunzioni di personale o investimenti fallimentari. La Banca d’Italia e la Consob avrebbero dovuto controllare e intervenire. Cosa che hanno fatto quando ormai le gatte erano gravide e non c’era più nulla da fare, se non commissariarle e accelerare il fallimento, prima che entrasse in vigore la nuova norma di adeguamento comunitario col 2016, il cosiddetto bail-in, in base al quale sono le stesse banche a tirar soldi per salvare le banche in difficoltà o fallite, non più lo Stato. Se non ci fosse stato il decreto governativo del 22 novembre scorso che ha stabilito in 2,3 miliardi di Euro il fondo per salvare le quattro banche, di soldi nel 2016 ne sarebbero occorsi molti di più, circa 13 miliardi.
Un pasticcio che è già complicato raccontare. Tagliamo il nodo gordiano riportando la questione nella sua normalità, che uno Stato serio dovrebbe garantire.
Le banche non sono dei casinò dove si va a giocare, col rosso e col nero: si punta e si rischia, si perde e si vince. Le banche sono degli istituti garantiti in cui un cittadino va a mettere al sicuro i risparmi di una vita. Si dà il caso, invece, che quando un risparmiatore va in banca a depositare i suoi soldi,  incontra un funzionario, un impiegato che gli dice: ma perché questi soldi non li metti a frutto acquistando titoli, azioni o obbligazioni? Così alla fine dell’anno invece di una miseria di interessi potrai avere molto di più. Immagino che l’altro obietti: ma siamo sicuri che sarà così? Sicuri? Replica il bancario, certissimi!
Più o meno è questo il dialogo che si ripete come una liturgia tra cittadino risparmiatore e bancario. Il quale, per poter avere il premio di produzione dalla sua banca, convince il cittadino ad investire i suoi soldi in titoli e obbligazioni.
Intendiamoci, nessuno vuole criminalizzare questi signori. Non sono essi che concedono prestiti ad amici che non restituiscono poi i soldi e fanno fallire la banca. Sono i loro superiori. Essi, però, finiscono per essere complici involontari – almeno così ci piace pensare – perché, se no, saremmo davvero nell’ambito di vere e proprie organizzazioni a delinquere.
Complicità involontarie, prestiti avventati, intrecci politici, autorità disattente o interessate costituiscono un intreccio diabolico, dalle cui spire i cittadini vengono soffocati. Che oggi qualcuno cerchi di buttare la colpa agli stessi cittadini, tacciandoli di consapevole azzardo e perciò vittime di se stessi, è davvero enorme. 
Il rischio oggi è grosso. I cittadini, infatti, stanno perdendo fiducia nel sistema bancario e pensano davvero di cucire i soldi risparmiati nel materasso, trasformando danaro attivo in “pecunia otiosa”. Se tanto dovesse verificarsi sarebbe la fine del progresso e la morte della società della produzione e dei consumi. La “pecunia otiosa” infatti è tipica delle società povere e chiuse, quali erano quelle del medioevo, quando, in mancanza di danaro, i commerci avvenivano nella corte e col baratto. 

domenica 13 dicembre 2015

Renzi e la Leopolda


Alla VI edizione della sua invenzione politica, a Firenze, Renzi ha detto che senza la Leopolda non sarebbe diventato capo del governo, che non ci sarebbe stato quel cambio politico generazionale che è sotto gli occhi di tutti. L’orgoglio delle proprie imprese in politica è comprensibile. Quanto però un successo politico dipenda da esse o da un insieme di circostanze diverse è assai più complesso dimostrarlo; ma diamo a Renzi quel che è di Renzi. Oggi è l’uomo politico italiano più importante, con una prospettiva assai più importante del suo trascorso. La Leopolda - ha detto - è il futuro. La Leopolda, insomma, come il socialismo, il fascismo, il comunismo: un sistema di idee e di fatti epocale. Bum!
Renzi, però, esagerazioni a parte, sembra l’uomo giusto nel momento giusto. Se così non la pensassi non sarei quell’hegeliano che mi son sempre professato. Nell’era dei social, del chiacchiericcio mediatico, dei ciarlatani e degli uomini di plastica, Renzi è un simbolo prima ancora di essere un rappresentante; un prodotto più che un artefice.
Questo non significa che è positivo tutto quello che fa; piuttosto che non ha competitori, che è come un concorrente in pista senza avversari, che arriva primo e ultimo al traguardo. Fa quello che fa perché nessuno lo contrasta, lo condiziona, lo sminuisce, lo costringe al compromesso. D’Alema, Bersani, Cuperlo, Fassina, Civati, Vendola sono neige d’antan, per dirla col Villon, quello della ballata degli impiccati.
La Leopolda non è un partito e non è una corrente del partito cui Renzi appartiene. Lo ha detto chiaro e tondo. Ipse dixit. E, allora, che cos’è? Pare una bolla d’aria, una “trovata” propagandistica, tra il pubblicitario e il politico. Un altro segno dei tempi, prima o poi qualcuno le darà l’importanza che non ha. 
Passiamo al concreto. E’ la politica estera renziana – in verità evanescente fino alla mortificazione – che spiega ogni altra politica di questo governo, da quella economica a quella scolastica, da quella della sicurezza a quella delle stesse riforme. Quando Renzi si incontra coi suoi omologhi europei e mondiali lo vediamo in disinvolta conversazione con essi e in amichevoli pacche sulle spalle, sorrisi e scambi di battute. Sembra quasi che tutti lo cerchino; tutti gli sorridono, lo coccolano, come in genere si fa con l’ultimo arrivato, il figlio piccolo di famiglia. Si compiace a fare il cacanido. Ovvio, la televisione seleziona le immagini e mostra quello che conviene, che fa propaganda.
Quando torna in Italia fa la voce grossa: noi non bombardiamo e quelli che lo fanno sbagliano, non sanno neppure che cosa bombardano e perché; l’Europa non ha una strategia. L’Europa non ci deve dire quello che dobbiamo o non dobbiamo fare.
Beh, concediamogli pure il contentino. Non ci costa niente. Ma ammettiamo anche che uno come Renzi, il boy-scout nazionale, oggi come oggi fa al caso nostro: chi vuole la guerra in Italia? Ma stiamo scherzando? La posizione del governo esprime alla perfezione il punto di vista più diffuso nel Paese. Ma da qui a dire che l’Italia è in prima linea, come fanno Renzi e compagni, che dopo gli Stati Uniti è il Paese che ha più militari in missioni all’estero, ne corre. Il nostro disimpegno andrebbe spiegato, senza vergognarsi, senza pezze propagandistiche che fanno male, senza ruffianismi con i paesi da dove vengono i migranti, ai quali non si prendono le impronte come vogliono le norme europee. L’Italia è come papa Francesco la vuole: una chiesa da campo, prima accogliamo e curiamo e poi, se è il caso o se c’è tempo, certifichiamo l’identità.
La nostra politica estera è sostanzialmente ruffiana e mira ad un trattamento di favore perfino dai terroristi. Ai quali si dice o si fa capire che noi non siamo come i Francesi, come i Russi, come gli Inglesi, come gli Americani; noi siamo brava gente: basta che c’è la salute.
Renzi perciò fa davvero al caso. Non c’è che dire. La stampa lo asseconda. Perfino quella più ostile ormai tace e se pure accenna a qualcosa di spiacevole, lo fa col preservativo anti-Salvini, sparando in premessa contro la destra impresentabile.
Il decreto salva-banche, fatto per salvare le quattro banche fallite, è la prova più lampante di un Paese, che, senza o con Renzi, non cambia. Le banche semplicemente non dovrebbero fallire. C’è una legge del 1926 che le mette tutte sotto il controllo della Banca d’Italia. Se falliscono è perché qualcuno o più di uno ha delle responsabilità; e pertanto dovrebbe pagare. I risparmiatori, furbi o fessacchiotti, non dovrebbero essere truffati. In banca non si va come al Casino a puntare, se esce rosso vinco se esce nero perdo. In banca si va a mettere al sicuro i propri risparmi nell’eventualità di un bisogno, di un’esigenza, nella prospettiva di realizzare qualcosa per i figli. Che governo è quello che lascia alla mercé di ladri e truffatori i cittadini, provveduti o meno che siano? Il decreto salva-banche del governo doveva anzitutto tutelare gli interessi dei risparmiatori. Non devono essere sempre i cittadini ignari a pagare per le manchevolezze delle istituzioni. Invece, ancora una volta, propaganda: col decreto abbiamo salvato migliaia di posti di lavoro. Tra i posti di lavoro salvati ci sono quelli di quegli impiegati che hanno truffato i risparmiatori con le obbligazioni inadatte facendo perdere loro i risparmi di una vita.
Col decreto salva-banche è stata salvata, con le altre tre, anche la banca di cui è vicepresidente il padre della ministra per le riforme, Elena Boschi. Dove starebbe la panacea renziana se in Italia accadono esattamente le stesse cose che sono sempre accadute? Dove il nuovo uomo della provvidenza?
La “buona scuola” è l’altra solenne minchiata, per come noi salentini e siciliani intendiamo il termine; ossia una volgare presa in giro. Propaganda bella e buona: un provvedimento di tipo economico fatto passare per provvedimento educativo e formativo. E’ la più grande infornata di massa di insegnanti mai avuta in Italia. Gli effetti si vedranno a breve.
La politica economica del governo, nonostante il fiume di soldi che Renzi ha messo in circolo, non raggiunge neppure un punto in percentuale. Ha detto il sociologo Giuseppe De Rita, presidente del Censis, che l’Italia è sospesa, che è una cosa un po’ penosa dover valutare una ripresa economica fiacca basata sugli zero virgola.

Probabilmente questo governo durerà quanto vuole, paradossalmente anche oltre la normale scadenza, se lo vuole, perché la politica è morta e quei pochi politici che ancora sono in giro sono impresentabili, spaventapasseri in una landa deserta. Deserta perfino di passeri, dato che l’astensionismo degli elettori non sembra fermarsi.

domenica 6 dicembre 2015

Cambiare parere su Renzi si può, anche in peggio


Eugenio Scalfari ha compiuto atto di ravvedimento su Matteo Renzi e si è con lui sposato. Lo ha fatto da Lilly Gruber, compare di nozze Paolo Mieli, mercoledì sera, 2 dicembre, nella chiesa de “La Sette”. Ha detto: ritengo che governare da solo sia un errore e Renzi governa da solo; il fatto che abbia intorno uno staff di venti persone non dice niente perché queste sono tutte persone sue senza volontà politica propria. Poi ha aggiunto: ora però mi correggo, siccome in Europa i capi dell’esecutivo dei paesi più importanti governano da soli, allora è inevitabile che lo faccia pure lui. Al limite – ha concluso – bisognerebbe creargli dei contrappesi istituzionali. Più o meno questa la base del matrimonio Scalfari-Renzi.
Ora, è sempre bene che qualcuno, accortosi di aver sbagliato, si ravveda e lo dica pubblicamente. Gli fa onore. Ma, nel caso in specie, è lecito chiedersi: c’era bisogno di una simile arrampicata sugli specchi? Prima Scalfari non lo sapeva che in Europa altri governano da “soli”, dalla Merkel ad Hollande, a Cameron? E non sa che mentre per quei paesi è normale, avendo altri sistemi politici, altra tradizione; per noi resta un’anomalia, che non trova giustificazione se non nella crisi politica che stiamo attraversando? Una crisi che non è determinata soltanto dalla mancanza di uomini politici di un certo valore, ma soprattutto dall’involuzione democratica che stiamo subendo per aver ceduto all’Unione pezzi di sovranità e vanificato pezzi della Costituzione.
L’Europa, per certi aspetti, va sempre più feudalizzandosi. Carlo Magno, imperatore del Sacro Romano Impero, se la vedeva coi singoli signori a cui aveva assegnato il feudo; a loro chiedeva uomini e soldi per l’occorrenza. Così l’Unione Europea ha bisogno di avere un solo interlocutore per paese, tratta solo con lui; gli altri, neppure sa che esistono. E’ una questione di funzionalità del sistema. Questo ha necessariamente sminuito il ruolo dei partiti all’interno dei vari sistemi politici e l’incidenza dei loro uomini. Di fronte a questo processo, le politiche nazionali sono in crisi e crescente è l’impoverimento politico. E’ la fase – chissà quanto lunga! – della de-ideologizzazione. Matteo Renzi, in quanto uomo politico post-ideologizzato, fa al caso. Bisogna riconoscerlo. 
Torniamo a Scalfari. Il perché di questo suo poco convincente “ravvedimento” è che “la Repubblica”, di cui Scalfari è stato fondatore e di cui tuttora è editorialista, da gennaio sarà diretta da Mario Calabresi. Il cambio di direttore in un giornale così importante, nel quarantennale della fondazione, non può essere senza cause e senza conseguenze. La causa è che il giornale deve cambiare rotta, le conseguenze è che deve attestarsi sulle posizioni di Renzi, deve diventare cioè uno strumento di potere di Renzi. Scalfari, dopo un momento di disapprovazione per non essere stato neppure interpellato sul successore di Ezio Mauro, si è adeguato. Quel che dice in proposito Paolo Mieli non conta niente. Ormai lo sanno perfino le moquettes dei suoi salotti che è il monsignore della cultura politica italiana.
Resta tuttavia il problema Renzi, liquidato dai suoi detrattori in maniera troppo sommaria, per via di quel suo proporsi che fa scarto tra il suo essere e il suo rappresentare. Non appare proprio come un ciuco in cattedra, ma come un imberbe che si comporta come il più anziano dei saggi; irrita come vedere la Gioconda coi baffi. Un fatto, prima ancora che di ragione, di pelle.
Ci sono motivi oggi per cambiare parere su Renzi, a parte le “ragioni” di Scalfari e i baffi della Gioconda? Cambiare parere forse no, ma approfondire il dissenso o aprire al consenso forse sì.
In verità, e per la mancanza di uomini forti in campo e per le circostanze di cui si diceva, Renzi va dimostrando sempre più di saperci fare; concilia l’utile del consenso con la bontà dei provvedimenti. E’ un furbo fortunato; e anche questo irrita.
Da quando promise i famosi ottanta euro a chi percepiva un reddito inferiore ad una certa soglia – promessa mantenuta, che gli procurò uno straordinario successo elettorale alle Europee del 2014 – ha continuato con la politica dell’elargizione, che sul piano pubblico ha avuto un impatto straordinariamente efficace. Renzi è l’uomo che ha fatto entrare l’esercito degli insegnanti precari, ammantando un’operazione di puro opportunismo socio-elettorale come la riforma della “buona scuola”. Ha promesso e dato 500 euro ad ogni insegnante per l’aggiornamento. Ora promette di dare 500 euro ad ogni ragazzo che compie diciott’anni. Sembra l’uomo della beneficienza, una sorta di Paperon de’ Paperoni improvvisamente convertito allo scialo.
Ma quali le ragioni vere di tanta prodigalità? Anzitutto i soldi non ce l’ha e per averli sta spogliando il paese di tutto: chiude province, ospedali, reparti ospedalieri, tratte ferroviarie, tribunali, corti d’appello, declassa porti, mette in crisi strutture pubbliche importanti come musei e biblioteche. Sta riducendo il paese ad uno scheletro, mentre costringe le Regioni a tagliare servizi o ad imporre tasse. In secondo luogo, appare di tutta evidenza che le sue iniziative non hanno nulla di samaritano, rispondono invece a logiche economiche. Dei sei milioni di pensionati sotto i mille euro mensili non si preoccupa; eppure si tratta di persone indigenti, di anziani malati e bisognosi di assistenza e di cure. Egli punta decisamente sui giovani e ad essi lega la ripresa economica. Ha individuato dei punti strategici, ad effetto domino, uno ricadente sull’altro. Immette denaro in certi settori della società col chiaro intento di aumentare i consumi e i…voti. L’aumento dei consumi incrementa la produzione; essa produce posti di lavoro ed assunzioni e quindi nuova moneta sul mercato. L’aumento dei voti gli consente di governare per chissà quanti anni ancora. L’esercito dei precari a scuola, ancor più delle “mance” – così le chiamano i suoi avversari dell’opposizione –, è il segno di questa politica. La scuola renziana può essere solo peggiore di quella precedente. L’anno scolastico è da poco iniziato e già sono emerse le prime falle organizzative.

Quel che conta per Renzi è che ci sono centinaia di migliaia di consumatori e di elettori in più. La sua è una politica che abbaglia ma non illumina; speriamo che non accechi. 

domenica 29 novembre 2015

Musulmani e "musulmani" li abbiamo in casa


Cerco, servendomi di un precedente storico, di far capire quanto sia pericolosa la faccenda musulmana per gli europei e per la pace mondiale.
Una delle più gravi aberrazioni di tutti i tempi è stata la soluzione finale dei nazisti contro gli ebrei. I nazisti avevano torto a considerare nemici gli ebrei; si trattava di una fisima ideologica che peraltro avevano ereditato da altre culture europee. Il nazismo con la violenza e la propaganda fece credere ai tedeschi che gli ebrei erano nemici della Germania, che l’avevano invasa e che ne opprimevano il popolo. Non era vero, perché gli ebrei tedeschi erano tedeschi a tutti gli effetti, avevano lavorato e prodotto, studiato e combattuto per la Germania; ma la sensazione per i tedeschi fu quella di avere in casa il nemico. Il resto lo conosciamo.
Senza entrare nel merito della vicenda, in sé esecrabilissima, è proprio la sensazione di sentirsi oppressi da una popolazione straniera che spinge a reazioni estreme e terribili.
Che farà l’Europa quando si sentirà davvero invasa e oppressa dai musulmani? E qui stiamo parlando di un’oppressione assai più concreta e più motivata, perché mentre gli ebrei in Germania avevano radici profonde, erano pacifici e laboriosi e nella crema del popolo tedesco una componente importante era costituita da ebrei, i musulmani in Europa portano morte e spavento.
A mio modestissimo avviso ci stiamo avviando verso un’altra soluzione finale. Ciò accadrà quando gli stati europei saranno costretti, per la sicurezza delle loro popolazioni, a stroncare i mali estremi dell’islamismo ricorrendo ad estremi rimedi.
Invasione e oppressione musulmane sono già in essere. Esse sono di due tipi, per un verso il terrorismo dei combattenti musulmani, che fa stragi e modifica il modo di vivere degli europei, per un altro la conquista di spazi fisici e morali sempre più ampi da parte dei cosiddetti musulmani moderati. Nell’uno e nell’altro caso si avverte sempre più la presenza e la minaccia di una forza straniera e ostile. Non c’è da meravigliarsi se prima o poi ci sarà la reazione. Essa sarà partorita dalla stessa Europa. Nella storia il necessario arriva sempre puntuale.
E veniamo a noi. In Italia non ci sono stati finora attentati. Merito dei nostri servizi di intelligence? Mettiamola così. Ma si potrebbe anche dire che noi ad ogni livello stiamo bene attenti a non irritare i musulmani. Se così fosse, non sarebbe una cosa ignominiosa, ma sulla quale bisogna riflettere.
Si dice che Renzi è un “disertore” perché non si è schierato con gli alleati europei nella lotta all’Isis. Se Renzi è un disertore, voglio farmi male e dico che lo siamo tutti noi. Non diciamo fesserie, a noi la guerra non piace nemmeno a pronunciarla, figurarsi a farla. E le esperienze belliche, da un secolo a questa parte, ci hanno scottate le carni. Quindi, lasciamo stare.
Ma, in questo nostro “prudente” tirarci indietro, stiamo esagerando; stiamo andando oltre le aspettative degli stessi musulmani. Oggi, non solo abbiamo paura di frequentare certi luoghi dove si ritiene più probabile che avvengano attentati, non solo ogni mucchiu, come dice un proverbio salentino, ci pare turchiu (ogni cespuglio ci sembra un turco), retaggio delle invasioni e delle stragi subite dai turchi, ma stiamo rinunciando ad essere noi stessi da noi stessi, senza cioè che nessuno ce lo dica, ce lo ordini, ce lo imponga.
Io non credo che si possa tollerare, fin d’ora, senza aspettare altro tempo, che dei dirigenti scolastici, con la pretesa ragione di non offendere la sensibilità religiosa di chi cristiano non è – è palese il riferimento esclusivo ai musulmani – impediscano di praticare la religione cristiana a scuola, togliendo i crocefissi dalle aule, e impedendo la tradizione del presepe. Questi signori – si fa per dire – sono assolutamente inadeguati, non voglio dire altro, a svolgere il compito per il quale sono oggi strapagati; e nella maggior parte dei casi sono dei professori falliti e infingardi, diventati dirigenti con concorsi farsa. Chi lo dice ha quarant’anni di insegnamento negli istituti superiori e nei licei; e ne ha conosciuti che ne ha conosciuti! Non conosco il dirigente scolastico Marco Parma, dell’Istituto comprensivo Garofani di Rozzano in provincia di Milano, l’eroe laico che ha vietato di festeggiare il Natale nella sua scuola per non offendere i musulmani, e dunque non so chi sia. Ma le ragioni addotte ai suoi provvedimenti anticristiani puzzano di cacca, in ogni senso. Pare che abbia rimesso il mandato. Non ci sarebbe da meravigliarsi se invece fosse stato costretto a farlo. In ogni caso, plaudiamo.
L’assurdo è che mentre il Presidente della Repubblica Mattarella, il Presidente del Consiglio Renzi, Hollande, la Merkel, Obama, Cameron e tutti insistono nel mantra che dobbiamo fare quello che abbiamo sempre fatto, e cioè cantare, ballare, gioire, riempire gli stadi, i ristoranti, i teatri, mangiare e bere e fare i gaudenti secondo il nostro costume di divertirci ed essere felici, per non darla vinta a chi ci vuole spav entare e far cambiare vita, degli oscuri dirigenti scolastici, ma dal potere enorme, ci dicono che non possiamo più essere cristiani se non di nascosto, nelle catacombe di casa.
Questa rinuncia alla propria cultura, ai propri costumi, alla propria identità per non offendere la sensibilità di stranieri, che dovrebbero inserirsi proprio attraverso la condivisione delle nostre leggi e della nostra cultura, è aberrante; è qualcosa che va combattuta subito e stroncata immediatamente, senza pietà e misericordia. Lo Stato non deve preoccuparsi di sembrare autoritario se dirama, attraverso i suoi ministeri, disposizioni ad estendere il nostro essere italiani ed europei anche osservando le nostre abitudini religiose. E se ci sono dei dirigenti scolastici e dei professori che non condividono, essi se ne devono andare, devono fare un altro lavoro; ma non possono in alcun modo sottrarsi a dei doveri civici, morali, e non voglio dire patriottici per non apparire inutilmente vintage.
Nella mia esperienza di vita ho vissuto e studiato a Berna per due anni, dai quindici ai diciassette anni; frequentavo la scuola pubblica e il giorno che c’era religione, sempre la prima ora, siccome lì erano protestanti, noi cattolici entravamo in classe l’ora successiva. E comunque eravamo tutti cristiani.

Oggi il vero pericolo che corriamo noi in Italia non è tanto quello degli attentati fragorosi e sanguinosi, che pure c’è, ma quello portato in maniera subdola, silenziosa, strisciante, di questi pseudoilluministi, che ammantano di nobili propositi la loro rivoltante pusillanimità.          

domenica 22 novembre 2015

La Chiesa tra Jerusalem celeste e Babilonia infernale


Con papa Francesco non doveva accadere; invece è accaduto. Lo scandalo dei documenti trafugati e pubblicati in due libri è come un treno che viaggia su un binario predisposto per l’alta velocità. Sono documenti riservati che riguardano le attività amministrative del Vaticano. Ma il profano dei soldi si intreccia col sacro dei sacramenti ed è difficile separare le due cose.
Le anomalie incominciarono durante il Sinodo sulla famiglia. Da noi – disse papa Francesco in apertura – non è come nel parlamento, qui non si fanno compromessi.
Chiara l’antifona: metteva le mani avanti il Papa perché tutto si svolgesse nell’ordine da lui desiderato e sortisse il risultato da lui sperato; un risultato che tutti sapevano qual era, che in tanti però erano intenzionati a non fargli raggiungere.
Il Sinodo per la famiglia ha di fatto spaccato la Chiesa. Si è visto quel che è successo, mentre il Sinodo era in svolgimento, un prete omosessuale ha esibito il suo compagno, tredici cardinali hanno scritto una lettera al Papa facendola conoscere alla stampa perché non si transigesse sui sacramenti, poi la rivelazione di una presunta – presunta? – malattia del Papa. Insomma, non è accaduto nel Sinodo quel che accade in parlamento; è accaduto di peggio.
Alla fine Francesco l’ha spuntata con un solo voto in più della maggioranza richiesta, facendo ricordare agli italiani certi voti in Senato durante i governi Prodi e Berlusconi, quando il governo aveva l’anima tra i denti e aveva bisogno di un voto in più e alcuni senatori a vita, ancorché moribondi, con tutto il rispetto, si presentavano in aula per darglielo.
Diciamola tutta. Che dei cattolici divorziati possano accedere ai sacramenti pare anche a noi, miscredenti, cosa buona. Che colpa può avere un coniuge se l’altro è un fetentone, al punto da rendere impossibile la convivenza? Perché, allora, non consentirgli di avvicinarsi al Signore, nel quale crede e nel quale ripone la speranza di una vita più serena? Ma sappiamo tutti che i sacramenti per la religione cristiana non sono disponibili a revisioni, come lo sono i regolamenti condominiali. Concedere la comunione ad un divorziato o ad una divorziata sarebbe come se il vescovo di quella diocesi pronunciasse per l’uno una sentenza di assoluzione  e per l’altra di condanna; o viceversa.
Lo scandalo cosiddetto Vatileaks 2 è una cosa diversa, ben più seria e ben più grave, come lo ha ammesso perfino il Presidente della Cei cardinal Bagnasco. I due libri usciti in contemporanea, Avarizia di Emiliano Fittipaldi, e Via Crucis di Gian Luigi Nuzzi, che pubblicano e spiegano i documenti trafugati, veicolano mali così gravi che è improbabile si possa dire di loro che non tutti vengono per nuocere. Questi mali nuocciono, altro che.
Il Papa, pur visibilmente amareggiato, ha ostentato sicurezza. Ma se è vero che rappresenta la tanto attesa rivoluzione della chiesa cattolica, una sorta di Fidel Castro o di Che Guevara della situazione, dove sono i barbudos? Se avanza – se è vero che avanza – perché i suoi vescovi, i suoi cardinali non lo seguono? Si ha l’impressione che tutti abbiano paura di seguirlo forse perché incominciano a credere che la sua esperienza pontificia possa volgere al termine a breve o che la sua più volte conclamata riforma non porti a nulla.
Lui, da quel politico che è – lo è per istinto, come ogni buon politico – l’ha messa sul… politico. Vogliono impedirmi di portare a termine la riforma della Chiesa, ma non mi fermeranno. Sembra Renzi quando se la piglia coi gufi.
Non so se questo Papa sia colto o meno, raffinato o meno. A vederlo e a sentirlo non si direbbe. Lo si sente poco citare i padri della Chiesa. Mai che citi Paolo, mai che citi Agostino o Tommaso. Agostino soprattutto gli sarebbe utile, in particolare il De Civitate Dei. Dove Agostino spiega che l’impero romano non cade per colpa dei cristiani, come pure si diceva, ma perché qualsiasi struttura che non si conformi alla Civitas Dei è destinata a finire, prima o poi. Se la Chiesa di Pietro o di Francesco, di Benedetto o di Giovanni, di Paolo o di Pio o di chiunque altro non finisce, è perché rispetta le due dimensioni, si conforma alla Jerusalem celeste per gli affari spirituali ma fa i conti con la Babilonia infernale per quelli materiali. Nel momento in cui Francesco riduce la Chiesa  ad una sola dimensione, nell’illusione di trasferire sulla Terra la Città celeste, avvia un processo di disfacimento della Città terrena, che è condizione dell’altra. E’ mondano il lusso dell’attico del cardinal Bertone esattamente quanto Santa Marta di Francesco, quanto la Porziuncola di Francesco, quello d’Assisi, l’uno, l’altra e l’altra indulgono alla materialità: o per il fasto e il lusso, o per la povertà e l’indigenza.
Non è peccato sedere su un trono d’oro, è peccato distruggere quel trono, se questo è utile alla salvezza materiale e spirituale degli uomini tutti.
Quel che si percepisce, propaganda a parte, è che il papato di Francesco non è la correzione di un cammino sbagliato concluso da Benedetto XVI con le sue dimissioni – fatto estremamente grave! –  ma un’altra fase di travaglio per la Chiesa. Ad un papa dimissionario è seguito un papa missionario; ma il Papa non deve essere né l’uno né l’altro. Una missione peraltro tutta politica. Francesco non parla di peccati, ma di reati. Il suo orizzonte è sindacale, se si mettesse in tuta sarebbe da preferire alla Camusso. L'ultima è di questi giorni: gli insegnanti sono operai malpagati, lo Stato non ha interesse per l'educazione. 
Ci ritroviamo con un papa che ha trasferito nel cuore dell’Occidente europeo e cristiano le arretratezze sudamericane, da intendersi non solo nella loro dimensione materiale, ma anche e soprattutto spirituale.

Lo slogan “una chiesa povera per i poveri” è un colossale nonsense. Per essere utili ai poveri bisogna essere ricchi. Io in Chiesa non vado, ma vado con la Chiesa quando aiuta concretamente i poveri, ammonisce i potenti, tuona contro i violenti, condanna i malvagi e dice chiaramente all’individuo ciò che è peccato da ciò che non lo è. La Chiesa deve fare la Chiesa. Per questo le destino il mio otto per mille; nonostante i tanti abati di Montecassino!   

domenica 15 novembre 2015

Le stragi di Parigi e il suicidio dell'Europa


Prepariamoci i fazzoletti per le nostre lacrime, le garze per fasciare le nostre ferite, le casse per chiudere i nostri corpi martoriati. Prima o poi i terroristi dell’Isis colpiranno anche l’Italia. E’ tutto nell’ordine delle cose. Siamo su un piano inclinato, senza guide e senza freni. Siamo un paese simbolo. E se pure stiamo bene attenti a non abbandonarci ad imprudenze di tipo militare, alla Hollande o alla Cameron, non possiamo tirarci fuori da un sistema politico di cui facciamo parte integrante.  
A Parigi il terrorismo islamico, che alcuni negano o minimizzano, su cui c’è gente che fa della satira e dell’ironia – per sdrammatizzare, si dice – la sera di venerdì, 13 novembre 2015, ha mostrato il volto più protervo e micidiale: ha provocato in attacchi simultanei in punti diversi, circa centotrenta morti, più di trecentocinquanta feriti, alcuni molto gravi. Questa è guerra!
Non una bomba, collocata silenziosamente e di nascosto in un angolo buio di una sala d’attesa di una stazione o di un aeroporto, no: bombe, spari e grida che Allah è grande. Scene che ricordano l’arrivo di pistoleri a cavallo in certi film western di quando eravamo bambini tra grida e spari per terrorizzare gli abitanti.
Hanno colpito i luoghi dello svago occidentale: i ristoranti, lo stadio, il teatro-dancing, i simboli del nostro costume di uomini liberi e spensierati. Hanno voluto far sapere, questi nuovi guerrieri della notte, che la colpa era di Hollande per aver autorizzato i bombardamenti in Siria. Hanno detto che ora tocca all’America, all’Inghilterra, all’Italia. E c’è bisogno che ce lo dicano?
E noi? Noi abbiamo risposto con le solite geremiadi, mentre le nostre navi continuano a stare nel Mediterraneo a raccogliere altri migranti. E questo che c’entra? penserà qualcuno. C’entra, c’entra, perché tra quei migranti potrebbero esserci dei terroristi; e se pure non ce ne fossero al presente potrebbero esserci in futuro. La storia di questi ultimi anni ha dimostrato che ci saranno. I terroristi di oggi sono figli o nipoti dei migranti di ieri. I terroristi di domani sono i migranti di oggi.
Guai a dire che è in atto una guerra di civiltà! Faremmo loro un favore! E poi, che guerre di civiltà? Che pericolo possono portare tante donne, tanti bambini, tante persone affamate, infreddolite, mezzomorte? Sono tutte brave persone, innocue, che di qui a qualche anno saranno la salvezza della nostra economia. Che tra quella gente si possa nascondere il germe futuro del terrorismo neppure a pensarlo. Una volta bastava la favolistica o la saggezza antica a metterci in guardia da certi pericoli. Un contadino raccoglie una vipera mezzomorta per il freddo, la riscalda e la rianima e quella per prima cosa lo morde e lo uccide: vipera agricolae beneficium maleficio rependit. Il solito latinorum, penserà qualcuno. Ebbene sì! Serve per capire che quanto sta accadendo da una ventina di anni a questa parte in Occidente e nell’Europa è la prova del fallimento di un modello politico e sociale basato sull’ottimismo illuminista, cristiano e democratico: lo stato multietnico.
Ce ne siamo resi conto ormai; ma possiamo fare ben poco. Il nostro sistema economico, fondato sulla produzione e sul consumo, non può finire. Il tasso di crescita demografico in Europa è zero; abbiamo bisogno di lavoratori/consumatori per alimentare la produzione. Se non è possibile averne di nascita indigena, prendiamoli dall’Africa, dall’Asia. Non è importante che siano cristiani, che siano bianchi, purché abbiano braccia per lavorare e stomaco per consumare. Un po’ come il gatto di Deng Xiaoping: non importa il colore, l’importante che acchiappi il topo. Se poi tra mille immigrati consumatori ce ne saranno dieci, venti, trenta che saranno sollecitati dal loro richiamo identitario, pazienza! Ogni cosa ha un costo! Non si può fermare la storia.
Siamo giunti ormai – i segnali ci sono tutti – alla fine di una stagione, di una grande stagione: quella della democrazia. Abbiamo conosciuto l’assolutismo e le sue degenerazioni, la chiesa e le sue degenerazioni, il liberismo e le sue degenerazioni, il comunismo e le sue degenerazioni, il fascismo e le sue degenerazioni; siamo alle degenerazioni della democrazia. Sono in essere tutte le sue debolezze, le sue incertezze, le sue impotenze, le sue contraddizioni. Essa produce in ossequio alla sua ideologia i pericoli dai quali non sa poi difendersi se non negando se stessa. L’insistere a dire che non è una guerra di civiltà la dice lunga sulla sua condizione di saper valutare la realtà delle cose. Non vuole ammettere per non essere costretta ad accettare o la resa o la negazione di se stessa.
A Parigi, l’altra sera, è apparso chiaramente che ormai è in corso il suicidio dell’Europa civile e democratica. La stessa che per settant’anni ha vissuto all’insegna della lotta ad ogni forma di chiusura e di oppressione, all’insegna dei diritti umani senza distinzione alcuna, certa che la strada del benessere deve essere assicurata a tutti senza minimamente pensare a contropartite, a rischi, a regressioni. L’Europa, oggi nel mirino del terrorismo islamico, è una povera malata che crede di star bene e che per difendere il suo stato di benessere non ha alcun bisogno di scomodarsi minimamente. Chi la colpisce è qualche ingrato, qualche malvagio isolato che si può fermare con i normali strumenti di polizia; qualche pazzo che non può essere confuso con fedi religiose, con iddii, tutti peraltro ritenuti legittimi.
Non per nulla c’è stato chi alla televisione ha suggerito a tutti di uscire di casa, di andare nei bar, nei ristoranti, negli stadi, a ballare, a mangiare, a divertirsi, come se nulla fosse, perché dimostrare di aver paura, standosene chiusi in casa, vorrebbe dire ai terroristi dell’Isis che hanno vinto loro.

Già, proprio così: agli atti di guerra rispondiamo con atti di svago. Che la gente muore, è solo un piccolo insignificante dettaglio.

domenica 8 novembre 2015

Centenario Grande Guerra: l'imbarazzante vittoria


Ci sono due modi per raccontare il passato. Uno è il trasferimento del narratore nel passato, alla ricerca di quel che la realtà del momento fu, coi suoi personaggi, i suoi fatti, le sue cose. L’altro è l’espianto del passato per ripiantarlo al tempo del narratore allo scopo di renderlo “utile” al presente, ovvero “strumento” del presente. Direi che il primo può considerarsi scientifico, il secondo politico.
Né l’uno né l’altro raggiungono esiti compiuti e definitivi; ma mentre il primo segue un percorso rigoroso di verità servendosi di fonti criticamente attendibili ed è sempre verde, il secondo è un consapevole processo di mistificazione, di arrangiamento, di costruzione di qualcosa che possa rispondere ad una domanda di accomodamento politico ed è destinato a durare una stagione.
E’ quest’ultimo modo la tipica operazione della cultura al servizio della politica, che si giustifica con un proposito educativo. Ma nulla, che si fondi sulla mistificazione e sulla menzogna, può essere veramente pedagogico ed educativo, anche quando si ponga il più nobile degli obiettivi. Ciò che è politico non può mai essere pedagogico poiché la politica opera in un campo, la pedagogia in un altro. Solo nei paesi a regime dittatoriale i due campi si sovrappongono.
Se è vero che Benedetto Croce riteneva che ogni storia è storia contemporanea; è ancor più vero che l’affermazione riguardava la motivazione dello storico verso un periodo, un personaggio o un fatto e non già la sua alterazione per farlo entrare nell’ottica del presente come in un letto di procuste.
Da qualche mese siamo entrati in Italia nell’orbita celebrativa del Centenario della Grande Guerra, per noi 1915-18, ma 1914-18. A parte alcune rievocazioni televisive con esperti che illustrano e commentano i filmati, non si sa peraltro quanto veri, per il resto sembra ripetersi la stessa scialba atmosfera della celebrazione dei 150 anni dell’unificazione nazionale. Grandi fatti costitutivi della nazione, che dovrebbero rappresentare momenti di grande identificazione collettiva, qui da noi passano come fatti che sarebbe meglio non mostrare perché poco presentabili. E poiché non si può fare a meno di mostrarli, si è tentati di renderli presentabili, rispondenti cioè allo spirito del tempo.
Due sono le questioni più imbarazzanti. La prima è costituita da quei soldati che in vario modo non intesero spendersi fino al sacrificio, dandosi facilmente prigionieri (seicentomila) o addirittura fucilati come disertori (più di mille), in parte processati e in parte no. 
La seconda riguarda quegli italiani che, per essere altoatesini e dunque all’epoca sudditi dell’imperatore austroungarico, erano nostri nemici ed oggi non sanno se celebrare una vittoria, quella dell’Italia, o una sconfitta, quella dell’Austria.
Non sono più i tempi di una volta, ça va sans dire, quando si scatenavano polemiche roventi tra opposti interpreti dei fatti storici. Oggi c’è un mortorio culturale, un appiattimento che sa di palude, reso appena appena più accettabile a forza di deodoranti. Quasi tutti gli storici tendono a condannare la Grande Guerra, prendendo a prestito pari pari la frase di un altro Benedetto, il papa Benedetto XV, l’ “inutile strage”. Non c’è da meravigliarsi di questo. Tre quarti dell’intellighentia italiana pende da più di cinquant’anni dalle labbra del papa. C’è una gara rivoltante a mettersi accanto a lui per dire più o meno le stesse cose; per apparire sulle sue posizioni. Eugenio Scalfari, il papa laico, fondatore de “la Repubblica”, amoreggia col papa cattolico come un trovatore medievale. E il “Corriere della Sera” spesso apre la sua prima pagina con testi di Francesco. Come se quello non avesse oltre all’”Osservatore Romano”, all’Avvenire”, alla “Famiglia Cristiana” e ad una infinità di altri spazi cartacei, televisivi ed elettronici, per dire la sua! C’è inoltre un totem, assolutamente innegoziabile, di fronte al quale cessa qualsiasi geometrico ragionamento, è il perseguimento della pace.
Allora, alla luce di queste considerazioni, celebriamo la Grande Guerra, anzi facciamole la festa. Siccome fu un’inutile strage, ribaltiamone i valori. Non i caduti, gli arditi, i combattenti strenui che conquistarono territori, postazioni, città; ma i veri eroi furono i disertori, i traditori, quelli che si consegnarono al nemico, i fucilati per tradimento. E furono i veri eroi perché capirono quello che gli altri non seppero o non vollero capire, che quel macello non serviva a niente, tutt’al più ai produttori di armi, ai padroni del vapore, che con la guerra avrebbero fatto affari d’oro.
Questa è la lettura che si vuole fare della Grande Guerra. La Camera dei Deputati nel maggio scorso ha approvato quasi all’unanimità (331 sì, nessun contrario, un solo astenuto) una legge di riabilitazione degli anzidetti signori e li ha congiunti agli altri nel pantheon nazionale, con tutti gli onori militari. Cazzo, che provvedimento educativo!
Ora, che un atto di clemenza a distanza di tempo verso quei soggetti fosse giusto farlo, se non altro per una questione di pietas,  è un conto, ma restituire loro dignità militare e civile è un altro.
Più comprensibile appare invece la double face celebrativa della Grande Guerra nel Trentino e nei territori oggi italiani che all’epoca facevano parte dell’Impero austro-ungarico. Duplice perché è di tutta evidenza che quelle popolazioni non possono riconoscersi nell’unità nazionale e nella guerra allo stesso modo. Molti italiani, trentini, allo scoppio della guerra, essendo sudditi austroungarici, furono inviati al fronte russo per combattere per l’imperatore Francesco Giuseppe. I loro famigliari rimasti a casa, finirono per subire con la redenzione territoriale anche l’occupazione militare, con episodi di guerra nient’affatto edificanti per la nostra nomea di “brava gente”. Violenze e fucilazioni furono perpetrate secondo consolidate pratiche di guerra.
Per il concetto che abbiamo noi di storia, è giusto – non può essere diversamente – che quegli episodi vengano raccontati con scrupolo documentale, a prescindere se faccia bene o male farli sapere agli italiani di oggi, trentini compresi.
Quel che non è ammissibile è che si voglia far passare per proposito educativo l’atavico vizio degli italiani di adeguarsi acriticamente allo spirito del tempo: ieri zim-pum zim-pum “siam pronti alla morte”, oggi zim-pum zim-pum “siam pronti alla pace” e domani, zim-pum zim-pum, comunque sempre pronti. 

mercoledì 4 novembre 2015

Nel mondo di Joan Baez. Un libro di Paolo Caroli


Le battaglie di Joan Baez. La voce della nonviolenza (Il Margine, Trento 2015, pp. 142, € 12,00) di Paolo Caroli è un libro che non lascia indifferenti, a prescindere da gusti musicali o appartenenze politiche. L’autore, giovane avvocato e pubblicista, è figlio d’arte; viene da famiglia di antica cultura musicale, i Caroli di Taurisano.
Joan Baez è troppo nota perché si sprechino parole per presentarla. Cantante grandissima e grandissima persona impegnata per i diritti umani e la non violenza. Il suo nome si lega alle grandi battaglie della seconda metà del Novecento, in gran parte legate agli Stati Uniti d’America, alle sue vicende interne (razzismo, leva obbligatoria, pena di morte) e soprattutto estere (guerra in Vietnam, fino alle più recenti guerre del Golfo). La sua vicenda artistica e sentimentale con Bob Dylan ne ha amplificato l’immaginario popolare e ne ha fatto un’icona mondiale.
Ciò non significa che abbia avuto il consenso universale. Quando si parla di politica scattano meccanismi complessi, tutto diventa di parte, anche le cose più belle e più buone.
Per capirci, il suo mondo non è il mio, benché io abbia più o meno la sua stessa età; e non lo è non solo perché di musica non capisco un’acca, ma anche e soprattutto perché non condivido il fondamentalismo e l’esclusivismo di alcune sue posizioni politiche che, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, hanno avuto radici e ragioni, consensi e incomprensioni, delusioni ed entusiasmi negli eventi che si sono susseguiti, spesso tragicamente, sulla Terra.
La non violenza non è ovviamente un fine, è un modo per perseguire dei fini. L’ambiente artistico e politico della Baez era tale che il suo impegno si prestasse a strumentalizzazioni di altri soggetti che i fini li perseguivano con la violenza. Il carattere di molti movimenti per i diritti umani della seconda metà del Novecento si collocavano decisamente a sinistra, più spesso nei comunismi locali. Per questo non di rado si creavano incomprensioni tra i non violenti come Martin Luther King e i violenti come Malcom X prima maniera.
Anche la Baez è stata più volte contestata per il suo essere per la non violenza senza se e senza ma, come diciamo noi in Italia, con un’espressione un po’ abusata. Rispettosa del proprio talento di artista e coerente con le proprie idee politiche e perciò libera da qualsiasi “vincolo di mandato”,  la Baez è entrata spesso in rotta di collisione con marxisti e comunisti, che da lei s’aspettavano un impegno illimitato e incondizionato. Organico, per dirla con Gramsci. Alcuni suoi gesti, fra cui quello di cantare in Polonia per Lech Walesa, sono stati perciò clamorosi e hanno creato incomprensioni e proteste nel variegato mondo della contestazione. L’ultima cosa che voleva fare la Baez era l’essere strumentalizzata.     
I giovani di oggi fanno fatica a capire quel che succedeva cinquant’anni fa, perché figli di un’altra cultura. Negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta o si stava sulle posizioni dei diritti umani, comunque intesi e declinati, e si era di sinistra, o si stava su altre posizioni e si era di destra. Chi stava a destra dava priorità alle tre grandi sintesi: lo Stato, la Nazione, la Società; e quindi la tradizione, l’ordine, la difesa della patria, il servizio militare e, ove occorresse, l’andare in guerra. Ai diritti dell’individuo si contrapponevano i diritti dell’insieme. Al sogno, all’evasione, all’utopia si contrapponeva la veglia, lo star dentro alle cose anche in maniera scomoda, il realismo. Una contrapposizione ideologica netta, tra il particolare e il tutto, che così si fenomenizzava: da una parte la droga, la musica, la non violenza, la pace; dall’altra il sacrificio, la lucidità e la concretezza nel perseguire risultati di produttività e di forza, la difesa del benessere sociale raggiunto. Da una parte i giovani dall’altra i matusa, come venivano chiamati gli anziani e i benpensanti; da una parte la spensieratezza dei “figli dei fiori”, Woodstock, le marce della pace, dall’altra le catene di montaggio, le banche, gli eserciti. Non era solo una questione politica, ma anche di sensibilità, di carattere, di cultura.
Capisco che questo è un parlar brutale e per schemi; ma così stavano le cose o così erano percepite negli anni in cui Joan Baez combatteva le sue battaglie in una posizione comoda e scomoda allo stesso tempo, comoda per il benessere e il glamour che l’accompagnava e scomoda per essere accusata da entrambe le parti in lotta. Va da sé che in quegli anni si cercavano icone che rappresentassero la lotta per la libertà, ovvero per il comunismo, contro l’imperialismo e il fascismo; e furono individuate nel Che, in Mao, in Ho Chi Min.
In quegli anni di scontri, a volte anche selvaggi, non potevi avere né il tempo né l’opportunità per capire le ragioni degli avversari, per cui rifiutarsi di prestare il servizio militare per uno di destra era inconcepibile. Mentre obbligare uno a partire in guerra o solo a prestare il servizio di leva era inconcepibile per uno di sinistra. Si potrebbe continuare con tante altre contrapposizioni, che in quegli anni, formidabili come li ha definiti Mario Capanna in un suo libro, riferendosi agli anni Settanta, mettevano giovani contro.
Ecco, il libro di Caroli sulla Baez ci riporta a quel mondo, a quei tempi. Chi li visse dal di dentro li ritrova nel libro e li rivive con nostalgia; chi da quel mondo era fuori ed ostile ha l’opportunità di conoscerlo e finalmente di capirlo assai più di quanto non l’avesse capito prima, pur continuando a rimanerne fuori. Caroli racconta quel mondo direi di risulta, è il contesto necessario per capire, essendo Baez il centro della narrazione. Non lo fa con una guida politica, con un pensatore, con un Marcuse per esempio, tra assemblee e scontri, ma con una guida formidabile e gradevole, un personaggio forte, determinato, incredibilmente virtuoso, a suon di musica e di canto, in cui i tanti titoli di canzoni, che segnarono quegli anni, hanno la forza di far rivivere e di scandire momenti epici di lotte politiche o gioiose circostanze di intimità. Lo fa con un monumento all’udito e agli occhi, essendo la Baez una stupenda cantante ed una bella donna, la “madonna scalza”, l’ “usignolo” contro l’ingiustizia. Caroli, peraltro, per ragioni anagrafiche, quel mondo non lo ha conosciuto direttamente; e forse per questo la sua narrazione è lieve e fresca quasi come una fiaba. Ne vien fuori un profilo che, senza nascondere nulla del personaggio – il che depone in favore dell’autore, di cui traspare un profilo ideologico ben definito ma non settario –, è esaustivo e accattivante.

La mia probabilmente è una lettura parziale e inadeguata del libro, per le ragioni anzidette, ma mi consola il fatto che uno, come Furio Colombo, che è grande amico della Baez fin dai suoi esordi, che conosce la musica e appartiene a quel mondo, a proposito del libro di Caroli apprezza “il fatto che l’autore abbia portato al centro della narrazione, non la musica sempre splendida della Baez, ma la nonviolenza” (“Il Fatto quotidiano” del 13 aprile 2015). Mi consola, perché io il libro di Caroli lo apprezzo per entrambe le cose, col rammarico, tutto personale, di non aver potuto godere di tutti i piaceri musicali che Caroli ha evocato parlando delle sue canzoni, anche di quelle cantate in circostanze drammatiche e di forte denuncia. Perché – sia chiaro – la non violenza, insisto a separare il nome dall’articolo, è un sentimento nobilissimo, è la poesia della vita; che spesso però deve fare i conti con la realtà della vita, che ne costituisce la prosa – ahimè – amara.                Musica

domenica 1 novembre 2015

Due-tre cosette su Pasolini


Carlo Lucarelli ha scritto un libro su Pasolini in ricorrenza del quarantesimo anniversario della tragica morte dello scrittore, PPP Pasolini, un segreto italiano (Rizzoli, 2015). Tra le tante rievocazioni apparse quest’anno sull’argomento da me intercettate è quella che ritengo la più significativa. 220 pagine in cui l’autore riflette su Pasolini e su tante altre gravi e misteriose vicende italiane del secondo dopoguerra. Per capire, però, il suo punto di vista nei tornelli dei suoi tanti ragionamenti, espressi nel suo stile di venditore di sensazioni, bastano otto righe a pag. 180.
“Ci sta che in quegli anni, che dai pugni e gli schiaffi ai comizi e alle manifestazioni sono passati rapidamente, attraverso le bombe, alle spranghe e ai coltelli e stanno andando ancora più velocemente verso le pistole, uno così, uno come Pasolini, frocio, comunista e pure intellettuale (nessuna cosa esclude l’altra), si ammazzi  con la furia e la ferocia di un agguato premeditato”.  
Ecco: ci sta. Due gocce di parole che spiegano il mare di una narrazione infinita. La penso anch’io così, ma senza entrare ed uscire da supposizioni varie, che fanno pensare al delitto politico perché Pasolini dava fastidio, come dava fastidio Enrico Mattei, come dava fastidio Mauro De Mauro, come dava fastidio Aldo Moro e via di seguito nella lunga scia di misteri o piuttosto, come suggerisce Lucarelli, segreti italiani.
Sono del parere che, fatta salva la verità processuale, secondo la quale, terzo grado di giudizio, fu il solo Pino Pelosi ad uccidere Pasolini nel corso di un rapporto omosessuale degenerato, altre verità, cosiddette storiche, non ne esistano in difetto di prove o di argomentazioni serie, organiche e consequenziali; sono altresì convinto che la verità processuale non esaurisce né chiude la vicenda, che si presta sia alla soluzione semplicistica del delitto d’impeto in seguito ad un alterco sia all’agguato di più persone per odio politico o razziale. Chi può dire come siano andate veramente le cose?
A quei tempi – siamo alla fine del 1975 – essere omosessuale non è lontanamente paragonabile all’essere omosessuale oggi. Ricordo, se serve a dare l’idea che si aveva degli omosessuali all’epoca, che quando della morte di Pasolini parlai con un anziano signore di Taurisano intento a spazzare davanti al suo negozio – hai sentito? Hanno ammazzato Pasolini, quel grande intellettuale – quello, senza minimamente sorprendersi, continuando a spazzare, commentò testualmente: “sì, ma dice che faceva le porcherie con la parte di dietro”, come se ciò potesse giustificare il suo assassinio. La cosa faceva ridere gli amici quando gliela raccontavo, quella castigatissima “parte di dietro” soprattutto.
Io Pasolini lo conobbi così. Leggevo abitualmente “Il Borghese”, settimanale di destra diretto da Mario Tedeschi, un ex repubblichino, e da una terribile Gianna Preda, una giornalista tosta, esperta ed intrigante. Era proprio costei a tenere le polemiche più violente nei confronti di Pasolini, che peraltro era stato espulso qualche anno prima dal Pci proprio per motivi di omosessualità con ragazzini. Insomma Pasolini, già scrittore e regista affermato, era particolarmente nel mirino della stampa all’epoca definita tout court fascista.
Di lui mi feci un’idea diversa. Avevo letto “Le ceneri di Gramsci” e “Poesia in forma di rosa”; lo seguivo sul “Corriere della Sera” all’epoca diretto da Piero Ottone. I suoi film no, non mi piacevano. Troppo sesso, troppa degenerazione, troppa pornografia ed etica del porcile. Nei confronti del mondo dei poveri, dei brutti, degli ignoranti, degli sconfitti sociali Pasolini aveva una sorta di mistica.
Negli anni Settanta i giudizi su Pasolini incominciarono a cambiare, anche negli ambienti di una certa destra, per quella sua difesa della tradizione, delle persone e delle cose di una volta, trasformate con l’omologazione borghese e progressista, piatta e consumistica. Certo, non era la stampa di destra più immediatamente politica e propagandistica, ma una destra più attenta e attrezzata culturalmente. Ne nacque una questione: Pasolini di sinistra o di destra?, che ancora oggi appassiona. E se uno rilegge i suoi “Scritti corsari” o le sue “Lettere luterane” di dubbi che Pasolini fosse lentamente scivolato su posizioni culturalmente, non politicamente, reazionarie ne ha più di uno.
La vicenda Pasolini ha un qualche legame con Taurisano, che è il mio paese, nel più profondo Salento, perché l’avvocato Rocco Mangia che difese il suo assassino era originario di Taurisano, uno dei tanti giovani professionisti meridionali che avevano scelto la strada dell’emigrazione verso il centro e il nord dell’Italia. E noi, come accade in tutti i paesi, seguivamo i suoi successi forensi nei processi di risonanza nazionale, il più delle volte facendo il tifo per lui.
Rocco Mangia difese il Pelosi con la solita passione che metteva, come del resto fanno tutti gli avvocati – è il loro mestiere, a volte odioso; ma è il loro mestiere! – nei confronti dei loro assistiti. La sua difesa fece uscir bene il pur reo confesso assassino, ma fece trionfare una verità mai accettata da tanti intellettuali, giornalisti e perfino avvocati di sinistra. Per questo hanno decretato nei suoi confronti una specie di damnatio nominis, assolutamente incomprensibile specialmente da parte dei suoi colleghi. Che doveva fare l’avv. Mangia, pilotare la difesa del Pelosi verso la difesa contemporanea di Pasolini, posto che l’una fosse compatibile con l’altra? Sarebbe assurdo semplicemente pensarlo. Un avvocato deve fare gli interessi del suo assistito, non di altri, chiunque essi siano e quali che siano le motivazioni, anche le più nobili. Nel film di Marco Tullio Giordana “Pasolini, un delitto italiano”, dell’avv. Mangia viene fatta una caricatura, come a voler vendicare un torto subito: tu hai tanto infierito contro Pasolini e noi, suoi grandi e irriducibili estimatori, infieriamo su di te; così impàri!
Pasolini è stato un grande della nostra cultura. Poliedrico e radicale in tutte le sue manifestazioni: letteratura, giornalismo, cinema, impegno civile. Il che non significa che non sia anche criticabile per certe sue posizioni, e non mi riferisco alla sua omosessualità, che, peraltro, stando alle testimonianze di chi lo conosceva bene, viveva con grande sofferenza. Mi riferisco a quel suo aristotelismo dell’ipse dixit, che in termini moderni si sintetizza in quel “io so, perché sono un intellettuale”. Un intellettuale sa soltanto una cosa, che la verità, quale prodotto finito e confezionato, non esiste; esiste come ricerca della verità. Tanto vale per gli stessi giudici e storici. Dire “io so perché sono un intellettuale” significa negare in radice la verità nel suo essere ricerca. Fuori dal suo essere ricerca la verità non esiste.

Si continua e si continuerà sempre a sostenere la tesi di Pasolini ucciso da nemici politici, con sempre nuove presunte prove; ma sono fiori, che si portano ad un morto per affetto e perenne ricordo. Queste mie riflessioni non sono fiori, ma all’eretico Pasolini forse sarebbero piaciute. 

domenica 25 ottobre 2015

Unioni civili, disgregazione sociale


I partiti – si fa per dire, dato che non hanno niente che li degni di questo nome – sono orientati a lasciare libertà di coscienza ai loro senatori e ai loro deputati per quanto riguarda l’ipotesi di adottare bambini da parte delle coppie gay nella legge che si sta discutendo in Parlamento sulle Unioni civili.
Ora, dico io, non c’è da pestarsi la coglia coi piedi per le risate? Ma di che coscienza parlano queste limacce, che tutt’al più sono capaci di qualche scia di bava? Vorrebbero dare ad intendere che hanno una coscienza! Queste anime vendute, che, per non staccare il loro schifosissimo culo dalla poltrona di parlamentari, stanno svilendo i connotati culturali e civili di tutto un popolo, peraltro ridotto al silenzio, parlano di coscienza! Un vecchio adagio delle mie parti diceva: cuscienzia e turnisi no sse sape ci l’ha (coscienza e quattrini non si sa chi ce l’abbia). Vada per i quattrini che oggi si sa benissimo chi li ha e chi non li ha, ma la coscienza! Da dove si vede se uno ce l’ha o non ce l’ha,  se ce l’ha pulita o se ce l’ha sporca, se non dai suoi comportamenti, dalle sue azioni, dalle sue opere? Via, Diogene non andrebbe da quelle parti neppure a cercare funghi!
Mettiamo pure che la coscienza ce l’abbiano, anzi che ne abbiano più di una, non viene loro il sospetto che proprio perché si deve decidere su certe delicatissime questioni dovrebbero essere tutti gli individui ad esprimersi? O pensano che solo loro hanno una coscienza o che la loro valga più di quella di tutti gli altri cittadini messi assieme?
L’ennesima beffa agli italiani da parte di questi loro malrappresentanti pone un problema non più differibile, quello del referendum propositivo. Di fronte a questioni che investono la coscienza e che in prospettiva potrebbero stravolgere la società e trasformarla in qualcosa di profondamente diverso, è necessario che tutti i cittadini esprimano il loro pensiero. Ecco, in questo caso gli italiani, pronunciandosi, darebbero ai loro legislatori indicazioni precise sul da farsi. Se si invoca il voto di coscienza, perché deve valere solo per i 630 fottuti deputati e  per i 315 fottutissimi senatori? Se veramente avessero una coscienza degna di questo nome quei signori direbbero: è giusto e necessario che della questione si occupi il popolo italiano direttamente.
Pretendere di introdurre cambiamenti che stravolgono la civiltà millenaria di un popolo con la presunta coscienza di meno di mille persone, è mostruoso non solo per un democratico, ma per qualsiasi persona con un minimo di passione civile.
Nel merito. Introdurre in Italia istituzioni sociali diverse dalla tradizionale famiglia vuol dire che di qui ad un paio di generazioni ci sarà lo stravolgimento completo della società. A quel punto la società stravolta potrebbe presentare dei guasti ancora più gravi di quelli che si era voluto evitare o riparare col nuovo modello. E’ certo, infatti, che ogni modello sociale prima o poi va incontro alla degenerazione, che il più delle volte non si conosce al momento della sua introduzione. Conosciamo i guasti delle cose reali; non conosciamo i guasti che potrebbero derivare dalle ipotetiche; per quelli bisogna aspettare che diventino realtà.
Siamo in un’epoca in cui l’individuo conta più dell’insieme, anzi conta soltanto lui se per riconoscergli qualche diritto si è disposti a bruciare l’insieme. Seguendo il trend dell’individualismo assoluto di massa, ovvero di sinistra, rovesciato rispetto a quello elitario di destra, si costruisce una società marmellata, in cui bianchi e neri, cristiani e musulmani, eterosessuali e omosessuali stanno insieme senza ordine alcuno, né naturale né legale. Sarebbe la foresta, dalla quale ripartire per ricostruire l’ordine perduto.
L’individualismo assoluto comporta la pretesa del soddisfacimento di ogni desiderio individuale rivendicato come diritto. Ma la natura a questa gente non ha insegnato nulla? Non ha insegnato che ogni individuo ha dei limiti e che perciò si deve porre delle rinunce, così come accade a chi fisicamente è impedito dal fare o dall’essere ciò che vorrebbe fare o vorrebbe essere? Non vorrebbe forse un piedistorti fare i cento metri piani in dieci secondi pure lui? E non vorrebbe forse un brutto deforme conquistare pure lui una bella donna? E’ forse possibile soddisfare ope legis siffatti desideri solo facendoli passare per diritti?
Gli omosessuali non sanno accettarsi in quanto tali e, sapendo di non potere o non voler procreare, sapendo che un bambino ha bisogno di avere un padre e una madre, non accettano la loro condizione e vogliono imporre violenze innaturali, a dispetto della stragrande maggioranza degli altri esseri umani. E tutto questo lo rivendicano come un loro diritto.

Non è questione di entità singole, slegate, di monadi; gli uomini o stanno insieme nell’ordine e nella legge o sono bestie. Non si può dire: ma a te, che importa se gli omosessuali creano delle famiglie diverse dalle tradizionali e adottano dei bambini? L’importante che tu possa fare quello che piace a te; lascia che anche gli altri facciano quello che piace a loro. Obiezione stupida, perché da che mondo è mondo, non c’è nulla nella società che riguardi un individuo che non coinvolga nello stesso tempo o in un tempo differito anche gli altri. Battersi per costruire un modello sociale o per conservarlo è un diritto – questo sì che è un diritto – che non si può negare a nessuno. Ri-obiezione: e allora perché neghi agli omosessuali di battersi per costruire il loro modello sociale? Obiezione accolta. Risposta: non si nega agli omosessuali di battersi per un loro modello sociale, si vuole impedire ad una classe politica di sbandati, di incapaci e di asserviti alla dittatura del monopensiero europeista, di far loro il regalo di omologarli nel nome del dio consumo e del suo profeta denaro, con ciò condannando al disordine e alla rovina l’intero impianto di civiltà.  

domenica 18 ottobre 2015

Renzi, l'Italicum e la riforma del Senato


Lunedì, 5 ottobre, Rai Storia trasmise nella rubrica “Il tempo e la storia”, condotta da Massimo Bernardini, una puntata sulla legge Acerbo del 1923, ospite in studio il prof. Giovanni Sabbatucci, uno degli storici italiani meno “ossessionati” dall’antifascismo, forse perché è uno dei maggiori conoscitori del fascismo.
La legge Acerbo fu voluta da Mussolini per avere un Parlamento a sua completa disposizione. Essa, infatti, assegnava alla lista più votata i due terzi dei seggi. Avvenne così che alle elezioni dell’anno successivo, 6 aprile 1924, la Lista Nazionale (Listone), col simbolo del fascio littorio, vinse le elezioni e per Mussolini fu l’inizio, se non proprio formale, della dittatura. Quello formale, l’inizio dico, sarebbe arrivato dopo, col delitto Matteotti e il famoso discorso del 3 gennaio 1925 alla Camera, cui seguirono le leggi cosiddette fascistissime.
La legge Acerbo fu dunque lo snodo della dittatura fascista. Oggi ci chiediamo: nessuno si oppose alla sua approvazione? Ad opporsi furono il Partito Popolare di don Sturzo, poi indotto a dimettersi e a scegliere la strada dell’esilio, perché mollato dalla Chiesa, e i partiti di sinistra, sempre divisi e inconcludenti. Essi vedevano lucidamente i rischi che correva il Parlamento, ma nulla seppero o potettero fare per impedirne l’approvazione. Mancavano le forze, l’unità d’intenti, la volontà.
Lo stesso Enrico De Nicola, quello che poi sarebbe diventato a fascismo finito il primo Presidente della Repubblica Italiana, all’epoca Presidente della Camera, collaborò con Acerbo o per lo meno gli diede la sua consulenza tecnica, essendo un giurista di primissimo ordine. E Giovanni Gronchi, che sarebbe diventato il terzo Presidente della Repubblica – ma che continuità! – era sottosegretario all’industria nel governo Mussolini. Questa era l’Italia politica di quegli anni.
E’ ben vero che l’ambiente era dominato da un perdurante clima di guerra civile e che le stesse tribune di Montecitorio, mentre si discuteva l’approvazione della legge, erano piene di Camicie Nere; ma questo spiega relativamente il fenomeno della corsa degli italiani verso il fascismo.
C’è un’immagine che rende come meglio non si potrebbe l’idea del consenso di massa, è la partenza di quelle grandi maratone, che oggi si svolgono periodicamente in diverse località del mondo. Ecco, se pure uno si ferma o addirittura cerca di fermare altri, viene travolto e appena appena decalcomanizzato sull’asfalto. E’ la cinetica della politica, mettiamola così, per non offendere nessuno.
Per tornare alla legge Acerbo, balzano subito all’attenzione di chi ancora sa essere sveglio due dati. Il primo, che perfino un De Nicola si mise  al servizio del fascismo. Secondo, che la Chiesa già da allora pregustava concordati e patti con Mussolini. Gronchi era nel governo in quota Partito Popolare. L’unico deputato di questo partito che votò contro fu Giovanni Merizzi di Sondrio.
Nel corso della trasmissione non si fece il minimo cenno a quanto stava accadendo nel Senato dei nostri giorni sulla riforma dello stesso e sul combinato disposto con la nuova legge elettorale detta Italicum, voluti da Matteo Renzi. Ma i fantasmi prendevano corpo ogni volta che nella trasmissione televisiva si insisteva sulle intenzioni di Mussolini di assicurarsi tutto il potere attraverso la legge Acerbo, la sua legge.
I più avveduti costituzionalisti e politologi lo sanno: c’è un rapporto di causa-effetto tra il sistema elettorale e il regime politico che ne vien fuori. Perciò dietro ogni legge elettorale c’è un disegno da parte di chi quella legge la vuole ad ogni costo, ieri Mussolini, oggi Renzi.
Quanti di quelli che siedono oggi a Montecitorio e a Palazzo Madama conoscono le vicende italiane e quanti sanno trarre un insegnamento da esse? Io dico pochissimi, e quei pochissimi seguono la corrente, pezzi di sughero o di qualcosa che gli somiglia, con l’unica preoccupazione di tenersi a galla e di percorrere quanto più corso possibile. Oggi sulle tribune di Palazzo Madama non ci sono squadristi pronti a menare la mani; oggi si segue la corrente per opportunismo, per lavoro, per carriera, per non rimanere esclusi, per piacere all’ambiente di lavoro o del bar.
Dietro il pifferaio dei nostri giorni corrono tutti. Verdini, un pluri inquisito transfuga da Forza Italia, addirittura dice di essere lui il andando in soccorso di Renzi, facendo finta di non sapere che in politica c’è una bella differenza tra tattica e strategia. Il fatto che siano stati votati, lui e i suoi accoliti, da altri per fare altro, non lo tocca minimamente. Dietro a Renzi vanno ormai gli ex oppositori interni del Pd, convinti che non c’è più niente da fare. E’ bastato il papocchietto del voto alle Regionali per i candidati al Senato indicati dai cittadini, che il Consiglio Regionale poi formalmente nomina, per far gridare ai poveri frustrati della minoranza Dem di aver pareggiato la partita con Renzi.
Ma dove va l’Italia? Dove gli Italiani? A chiedercelo siamo rimasti solo noi, dai cinquant’anni in poi, che veniamo da altra educazione politica; quell’educazione per la quale ogni scelta che facevamo era mirata ad una prospettiva: gli ultimi a sapere che oltre al presente da gestire c’è un passato da conoscere e un futuro da creare come arcate sul viadotto della storia. Non è nostalgia. La realtà delle cose non è cambiata; sono cambiati gli uomini. Quelli che oggi hanno meno di cinquant’anni non sanno leggere la realtà nella sua derivazione e nella sua evoluzione, non hanno memoria, non hanno capacità di vedere più lontano dell’effimero quotidiano.

Che Renzi ricalchi le orme di Mussolini, facendo approvare una legge elettorale che gli consente di padroneggiare il Parlamento e di spadroneggiare nel Paese, non significa necessariamente che le conseguenze saranno le stesse. Troppo diverso è lo scenario italiano, europeo e mondiale per assurde riproposizioni; ma gli effetti, pur diversi, potrebbero essere altrettanto nefasti sul piano della formazione civica e politica dei cittadini, irreggimentati in una dittatura non imposta ma scelta spontaneamente. Andiamo come quelle persone che, per traumi lenti e progressivi, finiscono per perdere volontà e interesse a vivere e a progettare e si conformano, magari anche felici, all’inavvertito degrado. 

domenica 11 ottobre 2015

Marino: la disavventura di un povero...fate voi


Ignazio Marino, il discusso e stravagante sindaco di Roma, si è dimesso, anzi…no, lo farà formalmente lunedì. Così ha detto. E’ un uomo ordinato, pignolo; almeno all’apparenza. E’ un chirurgo di fama mondiale, ha fatto centinaia di trapianti, come potrebbe non esserlo? Sa quando deve iniziare il corso di un evento. E se pure si tratta di dimissioni, meglio farle iniziare in principio di settimana invece che alla fine. Sono dettagli, questi, che contano, specialmente nei soggetti genialoidi, intellettualoidi, un po’ fissati.
Di lui, in questi giorni, si sono raccontate stravaganze & stranezze a non finire, che si sono aggiunte a quelle dei mesi precedenti, culminate col tentativo di imbucarsi al seguito del Papa a Filadelfia ed autoesposizione con tanto di fascia tricolore in prima fila.
Si è detto che, scoperto di aver pagato cene private con la carta di credito del Comune, spacciandole per cene offerte ad alte personalità straniere – i fantasmi delle nipoti di Mubarak tornano! – da queste poi smentito, se ne fosse uscito dicendo che comunque avrebbe risarcito il Comune e che non lo avrebbe fatto più.
Si è detto che lui per Roma non si muoveva in bicicletta, come teneva ad ostentare, ma in auto, seguito da un furgone, e che ad un certo punto, giunto nelle vicinanze del luogo dove era diretto, scendeva, prendeva la bicicletta dal furgone e via, lasciando che l’auto lo seguisse guidata da un dipendente del Comune. C’è da credere? Bah!
Qualche avvisaglia sulle sue invenzioni, che per lui erano certezze, l’aveva data Alemanno, suo predecessore, che, da lui bersagliato e bollato come la destra che doveva tornare nelle fogne, una sera su “La Sette” disse che una sua telefonata per raccomandare alcuni suoi amici Marino se l’era inventata di sana pianta.
Ha poi tentato di metterla sulla Resistenza e l’antifascismo, andando sul sicuro e facendo dei pendant storici del tutto sgangherati: abbiamo liberato Roma una seconda volta dai fascisti. La libereremo dai criminali e mafiosi. Nemmeno Totò col suo abbiamo conquistato Trento ed ora conquisteremo trentuno.
Certo è che Marino, da quando Renzi gli aveva dato quella specie di ultimatum: amministri se lo sa fare altrimenti lasci, aveva perso la sua baldanza. L’inchiesta “Mafia Capitale” poi non lo aveva lasciato tranquillo, c’erano innegabili elementi di continuità tra le passate amministrazioni e la sua. A questo, che già era tanto grave, si aggiungevano le lamentale dei cittadini romani, i quali gli contestavano di essere un incapace, di non riuscire a fare nemmeno le cose più banali e di essere sempre lontano da Roma nei momenti di crisi o di spropositi colossali, come i funerali del boss Vittorio Casamonica.
La sua débâcle insomma si profilava già tutta e netta prima delle comiche finali di questi ultimi giorni. Ma, un po’ per la questione del Giubileo e un po’ per salvare l’immagine e la tenuta del Pd, li maggiori sui lo avevano messo sotto tutela, di Matteo Orfini sul piano politico, del prefetto Franco Gabrielli sul piano operativo.
Un’altra persona, con un minimo di amor proprio, a quel punto si sarebbe dimesso; avrebbe mandato tutti a quel paese. Ma come, io sindaco rigeneratore di Roma, messo sotto tutela?  
Lui, invece, ha fatto finta di niente ed ha continuato con qualche battuta sulla “badante” Gabrielli, tradendo un autentico crollo di personalità. Da quel momento non è stato più lui, il politico entusiasta e sicuro di sé, il professionista serio che sa di essere stimato; ha perso la sua sicurezza e si è dato ad atteggiamenti sempre meno controllati, tra spacconate (farò il sindaco fino al 2023), fughe (continui viaggi in America), minacce (contro alcuni del Pd e delle opposizioni e perfino di signore che lo contestavano), irriverenze (polemica col Papa) e catastrofiche profezie (dopo di me a Roma trionferà la mafia). Il suo volto è diventato quasi catatonico, una maschera di paura, di incertezza, di angoscia. Non ci vuole l’occhio di un esperto per accorgersene.
Quasi a gara col suo ben più illustre omonimo, il poeta secentesco Giambattista Marino, deve essersi convinto che la risposta da dare alla suburra, in cui si è ritrovato, era di stupire, in parodia poetica: è del sindaco il fin la meraviglia / chi non sa far stupir vada alla striglia. Ma non sono più i tempi del Marino poeta e del barocco e le sue stravaganze non sono materia di filologia o di critica letteraria,  se la devono vedere coi marpioni della politica e col codice penale.
Detto tutto questo, però, si pone un caso Marino di tutt’altra specie. Un po’ ricorda la vicenda di papa Celestino V, che, secondo Dante, “fece per viltà il gran rifiuto” ma che fu vittima dei maneggi di quel furbastro di Bonifacio VIII, come narra, un po’ revisionisticamente, Ignazio Silone in quel bellissimo e straordinario libro che è “L’avventura di un povero cristiano”.
La sua disastrosa vicenda è anche e soprattutto del Pd e di quella discutibilissima procedura delle primarie. Marino, infatti, non è stato scelto come si faceva una volta, ossia da un comitato che sapeva vagliare i pro e i contro, anche nella prospettiva politica più ampia e interagente, ma dal popolo delle primarie, un soggetto indistinto, ingestibile, una specie di mostro senza una volontà precisa.
Ci sono poi le sue ambizioni. Le sue prime mosse – che sono di tutto rispetto, anche se non sempre o totalmente condivisibili – lo hanno reso subito inviso ai romani. Il primo provvedimento fu di pulire la zona dei Fori Imperiali di tutti quei camion bar e chioschi che, se pure erano comodi per tanti turisti che potevano comprare souvenir o rifocillarsi, non consentivano di fruire della bellezza paesaggistica, artistica, archeologica di Roma. L’altro provvedimento, ancor più odioso, fu di legalizzare i matrimoni gay celebrati all’estero, vantandosene e addirittura, come poi si è saputo, informando – quasi uno sfottò – le alte cariche della Chiesa, addirittura il Papa se il telefono non lo avesse preso un suo segretario.

Ora Marino minaccia di trasformarsi in Sansone e di voler portare con sé tutti i filistei. Qualcuno gli dovrebbe sommessamente dire che anche ai guai occorre mettere un limite.