Ignazio Marino, il discusso e
stravagante sindaco di Roma, si è dimesso, anzi…no, lo farà formalmente lunedì.
Così ha detto. E’ un uomo ordinato, pignolo; almeno all’apparenza. E’ un
chirurgo di fama mondiale, ha fatto centinaia di trapianti, come potrebbe non
esserlo? Sa quando deve iniziare il corso di un evento. E se pure si tratta di
dimissioni, meglio farle iniziare in principio di settimana invece che alla
fine. Sono dettagli, questi, che contano, specialmente nei soggetti genialoidi,
intellettualoidi, un po’ fissati.
Di lui, in questi giorni, si sono
raccontate stravaganze & stranezze a non finire, che si sono aggiunte a
quelle dei mesi precedenti, culminate col tentativo di imbucarsi al seguito del
Papa a Filadelfia ed autoesposizione con tanto di fascia tricolore in prima
fila.
Si è detto che, scoperto di aver
pagato cene private con la carta di credito del Comune, spacciandole per cene
offerte ad alte personalità straniere – i fantasmi delle nipoti di Mubarak tornano!
– da queste poi smentito, se ne fosse uscito dicendo che comunque avrebbe
risarcito il Comune e che non lo avrebbe fatto più.
Si è detto che lui per Roma non
si muoveva in bicicletta, come teneva ad ostentare, ma in auto, seguito da un
furgone, e che ad un certo punto, giunto nelle vicinanze del luogo dove era
diretto, scendeva, prendeva la bicicletta dal furgone e via, lasciando che
l’auto lo seguisse guidata da un dipendente del Comune. C’è da credere? Bah!
Qualche avvisaglia sulle sue invenzioni,
che per lui erano certezze, l’aveva data Alemanno, suo predecessore, che, da
lui bersagliato e bollato come la destra che doveva tornare nelle fogne, una
sera su “La Sette” disse che una sua telefonata per raccomandare alcuni suoi
amici Marino se l’era inventata di sana pianta.
Ha poi tentato di metterla sulla
Resistenza e l’antifascismo, andando sul sicuro e facendo dei pendant storici del tutto sgangherati:
abbiamo liberato Roma una seconda volta dai fascisti. La libereremo dai
criminali e mafiosi. Nemmeno Totò col suo abbiamo conquistato Trento ed ora conquisteremo
trentuno.
Certo è che Marino, da quando Renzi
gli aveva dato quella specie di ultimatum: amministri se lo sa fare altrimenti
lasci, aveva perso la sua baldanza. L’inchiesta “Mafia Capitale” poi non lo aveva
lasciato tranquillo, c’erano innegabili elementi di continuità tra le passate
amministrazioni e la sua. A
questo, che già era tanto grave, si aggiungevano le lamentale dei cittadini
romani, i quali gli contestavano di essere un incapace, di non riuscire a fare nemmeno
le cose più banali e di essere sempre lontano da Roma nei momenti di crisi o di
spropositi colossali, come i funerali del boss Vittorio Casamonica.
La sua débâcle insomma si profilava già tutta e netta prima delle comiche
finali di questi ultimi giorni. Ma, un po’ per la questione del Giubileo e un
po’ per salvare l’immagine e la tenuta del Pd, li maggiori sui lo avevano
messo sotto tutela, di Matteo Orfini sul piano politico, del prefetto Franco Gabrielli
sul piano operativo.
Un’altra persona, con un minimo
di amor proprio, a quel punto si sarebbe dimesso; avrebbe mandato tutti a quel
paese. Ma come, io sindaco rigeneratore di Roma, messo sotto tutela?
Lui, invece, ha fatto finta di
niente ed ha continuato con qualche battuta sulla “badante” Gabrielli, tradendo
un autentico crollo di personalità. Da quel momento non è stato più lui, il
politico entusiasta e sicuro di sé, il professionista serio che sa di essere stimato;
ha perso la sua sicurezza e si è dato ad atteggiamenti sempre meno controllati,
tra spacconate (farò il sindaco fino al 2023), fughe (continui viaggi in
America), minacce (contro alcuni del Pd e delle opposizioni e perfino di
signore che lo contestavano), irriverenze (polemica col Papa) e catastrofiche profezie
(dopo di me a Roma trionferà la mafia). Il suo volto è diventato quasi
catatonico, una maschera di paura, di incertezza, di angoscia. Non ci vuole
l’occhio di un esperto per accorgersene.
Quasi a gara col suo ben più
illustre omonimo, il poeta secentesco Giambattista Marino, deve essersi
convinto che la risposta da dare alla suburra, in cui si è ritrovato, era di
stupire, in parodia poetica: è del sindaco
il fin la meraviglia / chi non sa far stupir vada alla striglia. Ma non
sono più i tempi del Marino poeta e del barocco e le sue stravaganze non sono
materia di filologia o di critica letteraria, se la devono vedere coi marpioni della
politica e col codice penale.
Detto tutto questo, però, si pone
un caso Marino di tutt’altra specie. Un po’ ricorda la vicenda di papa
Celestino V, che, secondo Dante, “fece per viltà il gran rifiuto” ma che fu
vittima dei maneggi di quel furbastro di Bonifacio VIII, come narra, un po’
revisionisticamente, Ignazio Silone in quel bellissimo e straordinario libro
che è “L’avventura di un povero cristiano”.
La sua disastrosa vicenda è anche
e soprattutto del Pd e di quella discutibilissima procedura delle primarie.
Marino, infatti, non è stato scelto come si faceva una volta, ossia da un
comitato che sapeva vagliare i pro e i contro, anche nella prospettiva politica
più ampia e interagente, ma dal popolo delle primarie, un soggetto indistinto,
ingestibile, una specie di mostro senza una volontà precisa.
Ci sono poi le sue ambizioni. Le sue
prime mosse – che sono di tutto rispetto, anche se non sempre o totalmente
condivisibili – lo hanno reso subito inviso ai romani. Il primo provvedimento
fu di pulire la zona dei Fori Imperiali di tutti quei camion bar e chioschi
che, se pure erano comodi per tanti turisti che potevano comprare souvenir o
rifocillarsi, non consentivano di fruire della bellezza paesaggistica,
artistica, archeologica di Roma. L’altro provvedimento, ancor più odioso, fu di
legalizzare i matrimoni gay celebrati all’estero, vantandosene e addirittura,
come poi si è saputo, informando – quasi uno sfottò – le alte cariche della
Chiesa, addirittura il Papa se il telefono non lo avesse preso un suo
segretario.
Ora Marino minaccia di
trasformarsi in Sansone e di voler portare con sé tutti i filistei. Qualcuno
gli dovrebbe sommessamente dire che anche ai guai occorre mettere un limite.
Buonasera. Sulle vicende di Ignazio Marino, vere o presunte tali, credo sia stato detto tutto ed il contrario di tutto; l'importante era creare il solito "fatto mediatico" senza approfondire bene un solo caso..........
RispondiEliminaQuello che, ad esempio, non è stato né ricordato né sottolineato a dovere, riguarda ciò che avevano fatto alcuni suoi predecessori in merito alla gestione comunale. Su tutti il sig. Veltroni, tanto amato e decantato, che aveva a suo tempo sottoscritto un contratto con una società che amministrava le case popolari di Roma, priva di archivio elettronico dei documenti. Alla disdetta del contratto da parte della giunta Marino, ci sono ora giacenti (in un'area alquanto insicura e semi abbandonata, la ex Fiera di Roma) ben 128 bancali ricolmi di documenti. Ritengo che Marino si sia reso "colpevole" di una sola cosa che alla nostra politica fa molta paura e cioè lavorare in modo efficiente senza imposizioni dal partito e pertanto è stato crocifisso. Un classico già visto da Nord a Sud, Italia docet.
Credo anch'io che Marino non fosse l'unico male di Roma. Bisogna, però, ammettere che non era certamente il rimedio più appropriato. In poco più di due anni ne ha fatte un po' troppe di "cose allegre" senza portarne a compimento una buona e seria. Purtroppo accade in politica che il male procurato da una persona venga spalmato su tante e il male procurato da tante venga concentrato su una sola persona. Marino col suo modo di fare disinvolto, da Narciso isolato, si è rappresentato un concentrato di mali e di inefficienze.
Elimina