sabato 24 giugno 2023

Parlare è un diritto, tacere un'opportunità

Chiedersi in democrazia se uno ha diritto o meno alla parola non ha senso. Tutti ce l’hanno. La domanda è quando è opportuno esercitare questo diritto. Non è un limite, ma l’essenza stessa del diritto e della parola. La disciplina non può essere che un bene. Quando ci si educava fin da piccoli, in famiglia, a scuola, in società, si raccomandava a non parlare mai quando parlava uno più grande, a non alzare la voce, a non insistere più di tanto, a non sovrapporsi all’altro, a non replicare solo per evitare di non darsi per vinto. Da adulti non è stato difficile capire che parlare è bene ma tacere è opportuno, quando si è in presenza di una persona che ha titoli e competenze specifici, quando parlare è compromettente. Non si contano i saggi che invitano a tacere. Già Plutarco osservava che nessuno si è mai pentito di aver taciuto, qualcuno invece di aver parlato. Il parlare sarà pure un diritto, ma il tacere è una virtù. Oggi si è convinti che tutti abbiamo il diritto assoluto di parlare di tutto e di tutti con toni a volte prevaricatori. Ne sono esempi quotidiani: i tanti tifosi di calcio che straparlano di formazioni e tattiche, di ruoli e di tecniche, di come si calcia o si para un rigore, di arbitri e di Var; i vari personaggi dei dibattiti televisivi, che si avventano l’uno contro l’altro come due pugili sul ring allo scopo di mettersi ko. Altrettanti esempi sono i professori che sdottrinano sulle direttive del Ministro dell’Istruzione, dei medici di quello della Sanità, dei magistrati di quello della Giustizia e via di seguito. Non un minimo di decenza etica, non solo e non tanto per rispetto delle istituzioni che quelle persone rappresentano ai massimi livelli, ma per opportunità di non doversi trovare poi nelle condizioni di agire professionalmente in conformità di una legge o disposizione da te non condivisa e pubblicamente osteggiata. Questo insinua nel cittadino una serie di storture mentali, che non vanno a beneficio della concordia sociale. Oggi dovremmo tutti riabituarci al silenzio ovvero a parlare quando è opportuno farlo. Capisco che già si pensi all’autoritarismo incombente, ma non è così. Il discorso va oltre il contingente politico e non va, almeno nelle nostre intenzioni, contro una parte politica e a favore di un’altra. Siamo di parte ma ci sforziamo di non esserlo. Un suggerimento che tutti dovrebbero osservare. Il caso più recente è quello di alcuni magistrati che hanno contestato al Ministro della Giustizia Carlo Nordio l’abolizione dell’abuso d’ufficio, un reato che a detta di molti farebbe più danno che utile. Noi siamo del parere che colpire un reato è sempre utile, che quello d’ufficio lo è per definizione e che perciò non andrebbe cancellato. Ma ciò detto, da un pulpito adibito a parlare come è la stampa, bisogna fare alcune considerazioni sul gran vociare che si sta facendo sull’argomento. I magistrati, intervenendo sulla questione, non hanno fatto nulla che già lo stesso Nordio non avesse fatto quando era magistrato e criticava le cose della giustizia. Del resto se Nordio è oggi ministro lo è fondamentalmente tanto per la sua attività pubblicistica quanto per quella professionale. Contro quel provvedimento, che va in una direzione diversa da quella sempre avuta da Fratelli d’Italia, si sono espressi non pochi politici di opposte tendenze. Questo prova come sia difficile governare con la barra sempre dritta sulle proprie idee. La Meloni paga lo scotto delle “cattive compagnie”. Ma dire che il provvedimento è un omaggio alla scomparsa di Berlusconi è affermare un anacronismo. Di questo si sta parlando da anni; e a farlo non sono stati solo quelli di Forza Italia e della Lega. Il dibattito è stato sempre vivo e vivace. A maggior ragione lo è oggi in prossimità della sua approvazione. In un certo senso le posizioni si conservano e si conserveranno sempre trasversali. Aggiungersi ai politici da parte dei magistrati non pare, perciò, opportuno. Tutti sì e i magistrati no? Proprio quelli che ne sarebbero più interessati? Proprio così, in considerazione non solo del fatto che il ministro non elabora la sua riforma da solo, ma con personalità importanti del mondo del diritto, ma anche perché essi potrebbero trovarsi un domani a decidere su casi specifici di quanto si discute oggi e dovrebbero apparire assolutamente sereni e imparziali. Così suggerisce il Presidente della Repubblica quando riceve al Quirinale i nuovi magistrati che si accingono ad entrare nell’esercizio delle loro funzioni. Una raccomandazione di sobrietà e di prudenza tra il parlare e il tacere, che perfino in un paese di ciarlieri deve finire di essere ingiusta e dolorosa.

sabato 17 giugno 2023

Berlusconi: l'Italia e la Destra

Ora che Silvio Berlusconi non c’è più molti giudizi su di lui cambiano. Già erano incominciati a cambiare in questi ultimi anni, diciamo dal suo ritorno alla politica dopo la sua decadenza da Senatore della Repubblica in seguito ad una condanna giudiziaria per frode fiscale. Molto deve l’Italia al Cavaliere di Arcore, pur prescindendo dall’imprenditore. Ha realizzato tanto a Milano ai tempi di Craxi e della Milano “da bere”. Ha creato Mediaset, affossando il monopolio televisivo di Stato della Rai. Ma molto gli deve l’Italia per la sua azione politica. Se molti giovani e molte giovani sono oggi in posti importanti della politica, della pubblica amministrazione, dell’imprenditoria, lo si deve anche a lui, al suo modo, coraggioso o spregiudicato che lo si voglia intendere, di svecchiare e di rottamare ben prima di Renzi, non uomini, dei quali è stato sempre rispettoso, ma le strutture e le logiche fatiscenti che sottendevano e che si trascinavano dal dopoguerra. A tutti ha sempre lanciato messaggi di modernità e di intraprendenza. Era l’aspetto buono del berlusconismo. Si consideri che l’Italia fino a Tangentopoli sul piano politico-ideologico era ferma all’incontro-scontro di don Camillo e Peppone, che a livello nazionale si proponeva con Moro e Berlinguer e poi a quanto rimaneva della Dc e del Pci. L’Ulivo non è stato proprio il Compromesso Storico ma quanto era possibile fare in quella logica in mutate condizioni. Di lì non si usciva. Se confrontiamo la prima metà degli anni Novanta, quando Berlusconi scese in politica, con la situazione odierna ci accorgiamo di più e meglio dei cambiamenti avvenuti. Oggi al governo c’è una coalizione di destra fondata anche sulla componente berlusconiana di Forza Italia ma con Giorgia Meloni, che è quanto resta del vecchio Msi, a capo del governo. Una situazione ribaltata. Il processo che ha portato a tanto fu iniziato da Berlusconi, che con la sua discesa in campo alle Politiche del 1994 avviò il bipartitismo, l’alternanza alla guida del Paese. Incominciò con lo sdoganamento del Msi, quando nel dicembre 1993 egli dichiarò che se fosse stato elettore romano avrebbe votato Gianfranco Fini a sindaco di Roma, come se facesse la cosa più normale di questo mondo. Era un’Italia in quel momento confusa e spaurita da Tangentopoli, che però conservava ancora forte i suoi valori di democrazia e di antifascismo. Fu il primo gesto di rottura col passato, per certi aspetti eversivo, tanto che subito il vecchio establishment insorse scandalizzato prima, preoccupato poi. La risposta rabbiosa che il vecchio potere diede fu l’avviso di comparizione il 22 novembre 1994 mentre era a Napoli come Presidente del Consiglio a presiedere un vertice internazionale sulla giustizia. Fu il primo atto di ostilità tra il vecchio e il nuovo. La vecchia classe dirigente cercava di riprendersi quanto riteneva di sua competenza. In questo braccio di ferro tra Berlusconi e il vecchio mondo politico, nel corso del quale ha vinto e ha perso, è rimasto ininterrottamente nelle attenzioni della magistratura per macroscopici suoi comportamenti di vita tra pubblico e privato. I suoi avversari sono stati favoriti da queste sue enormità, tra conflitto di interessi, leggi ad personam, reati amministrativi e costumi di vita scandalosi, che hanno fatto di lui nel mondo, specialmente in quello anglo-sassone, una sorta di icona del politico impresentabile. Basti vedere come i giornali di Gran Bretagna e Stati Uniti hanno commentato la notizia della sua morte. Ciononostante riusciva ad imporsi in campo internazionale grazie ad una politica dell’empatia basata sui rapporti personali coi capi politici stranieri. I suoi rapporti con Gheddafi, Putin ed Erdogan, ma anche con Bush jr. di amicizia personale prima ancora che di intesa politica, dimostrano come in talune circostanze hanno pagato. Negli ultimi tempi, a partire dall’uscita di Giorgia Meloni dal PdL nel 2012 e la nascita di Fratelli d’Italia, per Berlusconi è iniziato un periodo di decadenza. Se riusciva a tenere forte la barra nel suo partito, non altrettanto nella coalizione. Fedele alla sua visione liberaldemocratica e sensibile alle sorti del Paese non ha esitato ad entrare nella formazione del governo di unità nazionale presieduto da Mario Draghi. Questo ha fatto della Meloni, l’unica a restarne fuori, il punto di riferimento di tutto quel mondo politico di destra che si è orientato su Fratelli d’Italia alterando gli equilibri interni della coalizione. Berlusconi si rendeva conto fin dalla elezione del Presidente del Senato La Russa che non era più lui che dettava la linea e che la Meloni, per la sua storia e per il suo carattere, non era addomesticabile, lei disse “non ricattabile”. Alcune sue sortite contro la donna che lui stesso aveva “cresciuto”, fin da quando era Ministro della Gioventù nel suo quarto governo, erano espressione di una sorta di disagio, senza però conseguenze politiche, anche per le sue condizioni di salute che lo hanno portato alla fine.

domenica 4 giugno 2023

Ma la Schlein non è esente da colpe

Nel Pd sono accadute cose difficilmente riscontrabili nei manuali di politica, seguite alla sconfitta elettorale del 25 settembre 2022. Questo è accaduto: ha chiamato gente da fuori per decidere in casa sua che fare, certificando di non avere più una classe dirigente all’altezza del compito. Si sa che uno dei sintomi di chi è depresso è di non sentirsi più in grado di fare anche le cose più semplici che prima faceva con naturalezza. Il Pd è un partito depresso. Dopo che aveva indicato con le primarie segretario nazionale Stefano Bonaccini, una figura forte e rassicurante, è passato ad altre primarie, questa volta aperte a tutti gli elettori, e si è visto imporre Helly Schlein. Una che non era neppure iscritta al partito, un’estranea, che una parte del partito aveva incoraggiato a candidarsi. Ora, quando si parla di questa politica, della Schlein dico, si dà per scontato che sia colta, intelligente e brava. Ma queste sono doti che avrebbe dovuto dimostrare. Tanto per incominciare, avrebbe dovuto lei, conscia della sua certa e singolare visione delle cose, rifiutare di ritrovarsi a capo di un partito incerto e plurale. La ragione delle sue difficoltà sta proprio in questo, a prescindere da qualsiasi altra considerazione. Come è potuto accadere questo strano autogolpe in casa del Pd, un partito così importante? Probabilmente il partito si è fatto prendere dalla fretta di avere un nuovo leader, donna per di più, e dalla suggestione di contrapporlo alla leader della destra Giorgia Meloni, nella duplice errata convinzione che Fratelli d’Italia è un partito estremista e che le fortune della sua leader dipendano da una moda e non invece da un processo politico complesso e ben radicato nella realtà. Con l’operazione Schlein il Pd ha forzato il normale andamento delle cose, trasformando quella che poteva essere una validissima promessa della politica in una leader scaduta prima ancora di entrare in “vigore”, comunque non adatta alle circostanze. Questa giovane donna si è proposta alle primarie con un profilo ben preciso, come se avesse dovuto guidare un partito fortemente compatto e identitario. Il Pd, invece, è un partito che ha messo insieme quel che restava della Dc di sinistra, morotea e prodiana, e quel che restava del Pci, berlingueriano e riformista. L’incontro delle due componenti dipendeva dagli sforzi comuni di convergere al centro. La Schlein, invece, donna di sinistra, si è proposta come la leader che vuole portare il partito verso la radicalizzazione, andando a sbattere contro quella componente di partito che non si riconosce nella sua visione e nei suoi traguardi. Alcuni di questa componente se ne sono andati, come Fioroni e Cottarelli, per limitarci ai più noti. Altri, la gran parte, hanno deciso di restare ma per continuare ad essere quel che sono sempre stati, poco propensi a piegarsi a posizioni radicali. Di qui le difficoltà che incontra la Schlein perfino nella comunicazione, dovendo esprimere posizioni opposte e contrastanti. Sulle armi all’Ucraina lei è intimamente contraria ma il suo partito ha fatto una scelta in altri tempi e continua ad essere favorevole; così come è contraria al termovalorizzatore, ma deve fare i conti con quelli del suo partito che lo avevano già scelto e che lo vogliono. Non diversamente per tante altre tematiche dell’agenda politica italiana, mentre l’elettorato moderato va sempre più verso i partiti del centrodestra, specialmente per la questione dei diritti civili e dell’immigrazione. La partita, in Italia, si è sempre giocata al centro. Se non conquisti l’elettorato di centro, elezioni non ne vinci. Anche per questo la scelta della Schlein, col suo estremismo, si è rivelata frettolosa e del tutto inadeguata. Negativa sia per il partito che per lei stessa, che non ha dimostrato di essere avveduta e scaltra in un momento importante della sua carriera politica. Le sue difficoltà si riscontrano anche nella politica delle alleanze, nel cercare il cosiddetto campo largo, inventato da Enrico Letta – che è tutto dire – e miseramente fallito nei veti incrociati di minoranze litigiose e presuntuose, premessa della sconfitta elettorale. Nel Pd e nel più vasto schieramento antidestra sono convinti che tutti insieme possono battere le destre, così addizionando, dal Pd al M5S con l’arcobaleno intermedio dei Fratoianni, Della Vedova, Renzi e Calenda. Se i partiti fossero solo degli addendi e la politica una sommatoria avrebbero ragione. Ma così non è. Mettere insieme una coalizione credibile è presupposto per vincere le elezioni. Vincerle è un passaggio, una condizione. Poi bisogna governare e se programmi e traguardi delle varie componenti sono diversi non si va molto lontano. Lo stesso Pd, dopo quindici anni dalla sua fondazione, recrimina sulla mancata fusione delle sue due storiche componenti, più volte “pianta” dal filosofo Massimo Cacciari. Al Pd non mancano uomini e donne validi: Letta, Bonaccini, Schlein ed altri ancora. Quel che gli manca è una comune idea di partito e di Paese.