domenica 4 giugno 2023

Ma la Schlein non è esente da colpe

Nel Pd sono accadute cose difficilmente riscontrabili nei manuali di politica, seguite alla sconfitta elettorale del 25 settembre 2022. Questo è accaduto: ha chiamato gente da fuori per decidere in casa sua che fare, certificando di non avere più una classe dirigente all’altezza del compito. Si sa che uno dei sintomi di chi è depresso è di non sentirsi più in grado di fare anche le cose più semplici che prima faceva con naturalezza. Il Pd è un partito depresso. Dopo che aveva indicato con le primarie segretario nazionale Stefano Bonaccini, una figura forte e rassicurante, è passato ad altre primarie, questa volta aperte a tutti gli elettori, e si è visto imporre Helly Schlein. Una che non era neppure iscritta al partito, un’estranea, che una parte del partito aveva incoraggiato a candidarsi. Ora, quando si parla di questa politica, della Schlein dico, si dà per scontato che sia colta, intelligente e brava. Ma queste sono doti che avrebbe dovuto dimostrare. Tanto per incominciare, avrebbe dovuto lei, conscia della sua certa e singolare visione delle cose, rifiutare di ritrovarsi a capo di un partito incerto e plurale. La ragione delle sue difficoltà sta proprio in questo, a prescindere da qualsiasi altra considerazione. Come è potuto accadere questo strano autogolpe in casa del Pd, un partito così importante? Probabilmente il partito si è fatto prendere dalla fretta di avere un nuovo leader, donna per di più, e dalla suggestione di contrapporlo alla leader della destra Giorgia Meloni, nella duplice errata convinzione che Fratelli d’Italia è un partito estremista e che le fortune della sua leader dipendano da una moda e non invece da un processo politico complesso e ben radicato nella realtà. Con l’operazione Schlein il Pd ha forzato il normale andamento delle cose, trasformando quella che poteva essere una validissima promessa della politica in una leader scaduta prima ancora di entrare in “vigore”, comunque non adatta alle circostanze. Questa giovane donna si è proposta alle primarie con un profilo ben preciso, come se avesse dovuto guidare un partito fortemente compatto e identitario. Il Pd, invece, è un partito che ha messo insieme quel che restava della Dc di sinistra, morotea e prodiana, e quel che restava del Pci, berlingueriano e riformista. L’incontro delle due componenti dipendeva dagli sforzi comuni di convergere al centro. La Schlein, invece, donna di sinistra, si è proposta come la leader che vuole portare il partito verso la radicalizzazione, andando a sbattere contro quella componente di partito che non si riconosce nella sua visione e nei suoi traguardi. Alcuni di questa componente se ne sono andati, come Fioroni e Cottarelli, per limitarci ai più noti. Altri, la gran parte, hanno deciso di restare ma per continuare ad essere quel che sono sempre stati, poco propensi a piegarsi a posizioni radicali. Di qui le difficoltà che incontra la Schlein perfino nella comunicazione, dovendo esprimere posizioni opposte e contrastanti. Sulle armi all’Ucraina lei è intimamente contraria ma il suo partito ha fatto una scelta in altri tempi e continua ad essere favorevole; così come è contraria al termovalorizzatore, ma deve fare i conti con quelli del suo partito che lo avevano già scelto e che lo vogliono. Non diversamente per tante altre tematiche dell’agenda politica italiana, mentre l’elettorato moderato va sempre più verso i partiti del centrodestra, specialmente per la questione dei diritti civili e dell’immigrazione. La partita, in Italia, si è sempre giocata al centro. Se non conquisti l’elettorato di centro, elezioni non ne vinci. Anche per questo la scelta della Schlein, col suo estremismo, si è rivelata frettolosa e del tutto inadeguata. Negativa sia per il partito che per lei stessa, che non ha dimostrato di essere avveduta e scaltra in un momento importante della sua carriera politica. Le sue difficoltà si riscontrano anche nella politica delle alleanze, nel cercare il cosiddetto campo largo, inventato da Enrico Letta – che è tutto dire – e miseramente fallito nei veti incrociati di minoranze litigiose e presuntuose, premessa della sconfitta elettorale. Nel Pd e nel più vasto schieramento antidestra sono convinti che tutti insieme possono battere le destre, così addizionando, dal Pd al M5S con l’arcobaleno intermedio dei Fratoianni, Della Vedova, Renzi e Calenda. Se i partiti fossero solo degli addendi e la politica una sommatoria avrebbero ragione. Ma così non è. Mettere insieme una coalizione credibile è presupposto per vincere le elezioni. Vincerle è un passaggio, una condizione. Poi bisogna governare e se programmi e traguardi delle varie componenti sono diversi non si va molto lontano. Lo stesso Pd, dopo quindici anni dalla sua fondazione, recrimina sulla mancata fusione delle sue due storiche componenti, più volte “pianta” dal filosofo Massimo Cacciari. Al Pd non mancano uomini e donne validi: Letta, Bonaccini, Schlein ed altri ancora. Quel che gli manca è una comune idea di partito e di Paese.

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