giovedì 29 novembre 2012

Primarie, se è spettacolo diventa solo un diversivo



Qualcuno a destra, col solito linguaggio da osteria, volgare e sanguigno, tipico di certi settori di quella parte politica, ha definito le primarie una minchiata, un affare di mentula; insomma, una cazzata. Estetica a parte, non gli si può dare tutti i torti. Ormai in Italia, patria della creatività, si imitano, ma direi si scimmiottano, tutte le cose americane. Retaggio della liberazione, probabilmente; o riconoscenza. Se quei giovanottoni, tra cui anche italiani figli di nostri emigranti, con quei grossi elmi rotondoni in testa e le tasche piene di cioccolata per tenere buono lo stomaco, di gomme da masticare e sigarette, per tenere buona la bocca, tra il ‘44 e il ’45, ci liberarono dai nemici interni, i fascisti, e da quelli esterni, i tedeschi, vuol dire che gli americani hanno sempre qualcosa da insegnarci. E così, imitazione dopo imitazione, si è arrivati al park primary, come “La Sette” di qualche sera fa intitolava una sua puntata di Luca Telese e Nicola Porro. Proprio mentre – guarda caso – la Corte di Giustizia europea, su appello del governo italiano, ossia del paese legale, riconosceva a tutte le lingue europee pari dignità e rispetto. Ma in Italia c’è il paese reale in agguato, che preferirebbe ingleseggiare perfino sul water se potesse comandare anche alle sotto-emittenti.
La scelta dei candidati attraverso un percorso “primario” è un rispettabilissimo sistema di selezione e di esemplificazione elettorale, che può andar bene in un paese e male in un altro; bene oggi e male domani; bene per un partito, male per un altro. Al centrosinistra italiano va dato il merito o il demerito di averlo introdotto in Italia. Dicono che sia stato Parisi, ma il più convinto è stato Veltroni, che per essere un americano doc ha il solo difetto di essere tifoso dell’italianissima Juventus e non di una americanissima squadra di basket e di base-ball americana.
Così in Italia le primarie sembrano ormai la soluzione della crisi politica. Habemus pontificem! E’ quanto vuol far passare un sistema informativo che mette tutto nella tramoggia dello spettacolo televisivo o più genericamente mediatico.
Il confronto tra Bersani e Renzi su Rai Uno la sera di mercoledì, 28 novembre, ha dimostrato come in Italia tutto scade nella insulsaggine della copiatura: la giacca sbagliata di Bersani, la poca cipria di Renzi; il realismo di Bersani, l’obamismo di Renzi e via di seguito. In realtà i due, chiamiamoli contendenti, non avevano assolutamente nulla da contrapporre. Uno, Bersani, sembrava un professore compassato; l’altro, un alunno, assai rispettoso, quasi preoccupato di non mancare di rispetto. E difatti Renzi attaccava sempre allo stesso modo: sono d’accordo al cinquanta… al cinquantacinque… al sessanta per cento col Segretario; e così via. Uno spettacolo al bromuro.
Si dirà: appartengono allo stesso partito, perché sostenere cose diverse? Già, ma perché allora mettere su il Barnum delle primarie? E’ di tutta evidenza che si è trattato di una grande promozione di immagine, un tentativo di recuperare alla politica e in particolare al centrosinistra una qualche credibilità. Sempre meglio della confusione annichilante che regna nel centrodestra! Ma sempre di un palliativo si tratta.
Si sarebbe però superficiali e prevenuti se non si riconoscesse che qualcosa di tipicamente italiano nelle primarie nostrane c’è. Altro che! C’è, per esempio, che si tenta di cambiare le regole in corso d’opera, come vorrebbe Renzi. C’è che può andare chiunque a votare e magari tre-quattro volte, spostandosi da un seggio all’altro, facendo lievitare il numero dei votanti. C’è che dirigenti locali del Pd, per non fare una brutta figura, invitano anche amici di destra a votare. C’è che ora si dice che sono andati quattro milioni di cittadini ed ora soltanto tre, come se un milione di persone fosse illusione ottica in un deserto. C’è che entra nella casse dei partiti un bel po’ di soldi, come se non bastassero già quelli che prendono dal raggirato sovvenzionamento pubblico. C’è che le primarie alla fine diventano un gran casino, uno spettacolo distraente, un diversivo, un’operazione non credibile se non per approssimazione del dibattito vero tra le forze in campo.  
A volte per significare qualcosa, bisogna dirla proprio tutta. Carlo Marx, che se non avesse avuto altro merito ha avuto quello di aver aperto gli occhi alla gente, girando un po’ intorno alla kantiana distinzione tra fenomeno e noumeno, distingueva struttura e sovrastruttura. Lo spettacolo delle primarie è una sovrastruttura che tende a distrarre la gente dalla struttura, che è la crisi politica, economica e sociale che stiamo vivendo.
Un anziano amico mi raccontava che in guerra, quando si soffriva il freddo o il caldo e la fame, durante le marce di spostamento nel deserto africano, il comandante intimava ai soldati di cantare, di cantare, di cantare. Serviva a non pensare.
Non è del tutto inutile fare le primarie, men che meno dannoso. E difatti anche nel centrodestra c’è chi vuole farle, restituendo la mentula alle sue specifiche occupazioni.

domenica 25 novembre 2012

Monti, la brocca e il vino del nonno



Un giorno la mamma disse a Mario: Mariuccio mio, porta questa brocca di vino al nonno; e attento a non romperla, ha più di centocinquant’anni, è ricordo del papà… del papà… del tuo papà…aspetta, beh non mi ricordo più. E gli porse una bella brocca di creta, riccamente adornata di motivi bacchici, tralci di viti e grappoli d’uva, con la data 17 marzo 1861 sulla pancia. Mario fece pochi passi quando si accorse che era inseguito da un gruppo di ragazzacci. Fece per alzare il passo, ma il vino nella brocca ondeggiava e traboccava. Quelli intanto si avvicinavano. C’era un solo modo per sottrarsi a quei malvagi, mettersi a correre. Ma come fare? Più correva e più vino cadeva dalla brocca. Più rallentava e più gli inseguitori gli stavano sopra con tutta l’aria di volersi prendere brocca e vino. Allora Mario prese una decisione: o la brocca o il vino. Si ricordò della raccomandazione della mamma. Attento alla brocca! Aveva un buon piede e libero dall’impaccio del vino li avrebbe seminati. In un attimo versò per terra il vino rimasto e agguantata stretta stretta la brocca per il manico si mise a correre a perdifiato. Così tornò a casa trionfante, con la brocca sana e salva. Gliel’hai portato il vino al nonno? Gli chiese la mamma quando lo vide tutto trafelato, ma soddisfatto. Il vino al nonno no – ma la brocca a te sì, eccola e la alzò nemmeno fosse la Coppa Rimet nelle mani di Zoff.
Questo mi viene di pensare tutte le volte che qualcuno, dall’Alpi alle Piramidi dell’universo politico italiano, loda Monti per aver salvato l’Italia. E gli italiani? Tutti giù, prostrati per terra.
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In un libretto pubblicato nel settembre scorso da Luciano Canfora, “E’ l’Europa che ce lo chiede!” Falso! (Laterza), si dimostra come la sospensione della democrazia in Italia è qualcosa di assai più grave e di assai meno italiana di quanto si pensi. Al netto delle porcate di Berlusconi e delle miserie di Fini, che non sono state cose da niente, il governo politico di centrodestra ha dovuto fare un passo indietro e cedere il potere al governo tecnico per cause legate alla metamorfosi politica che stanno subendo gli stati nazionali europei. Scrive Canfora. “Nel caso dell’Italia, della Spagna e della Grecia, si è visto il diktat della Banca Centrale Europea (forte dei vincoli sopranazionali costituiti dalla ‘gabbia d’acciaio’ dei parametri di Maastricht) abbattere governi, farne nascere di nuovi, ordinare la nascita di coalizioni, vietare referendum in paesi apparentemente sovrani. «Una forza direttrice a sé stante», ma di quale entità!” (pag. 25). E più oltre: “la «forza direttrice a sé stante» si è ‘delocalizzata’ fuori dei confini statali divenendo perciò stesso inattingibile, protetta e totalitaria nelle sue direttive e decisioni; tale «forza direttrice» è nel potere bancario (BCE e FMI in primo luogo), che preferisce collocare d’autorità, al vertice degli Stati nazionali subalterni, direttamente suoi funzionari, saltando il fastidioso problema della conquista del consenso e del cimento ‘elettorale’” (pag. 26). A leggere queste cose mi sento per un verso confortato, per averle io stesso più volte pensate e dette nel corso dell’anno, per un altro sono spaventato, perché quel naturale margine di dubbio che io esagerassi o che mi sbagliassi si è assai ridotto.
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L’analisi di Canfora ridimensiona i superlodati meriti di Monti. Qualsiasi politico avrebbe potuto fare come lui o meglio di lui se avesse goduto delle sue stesse condizioni, di ministri yes-man, e di un Parlamento blindato sulle sue decisioni. Ma più si esalta il merito di Monti e più si nasconde la realtà, che è quella così bene spiegata da Canfora e che noi con linguaggio giornalistico, più adeguato al destinatario di un blog, abbiamo risolto diversamente definendo Monti un Quisling. Ma un politico non avrebbe mai preso ordini da quella che Canfora chiama «forza direttrice delocalizzata e inattingibile», perché contrari alle popolazioni. Berlusconi, infatti, tergiversava, prometteva ma non si decideva ad eseguire gli ordini di quella «forza». Di lì i sorrisetti stupidi di Sarkozy e della Merkel, in Italia accolti dagli antiberlusconiani viscerali come motivi per liberarsi di Berlusconi. La verità è che noi italiani, incastigati partigiani, pur di danneggiare l’avversario siamo capaci di buttarci nel fuoco. Stiamo precipitando verso il baratro davvero e non ce ne stiamo accorgendo. La fine delle ideologie, la fine dello Stato sociale, l’impoverimento progressivo, l’aumento della disoccupazione, giovanile in particolare, il diffondersi della fame e del disagio portano inevitabilmente verso disastri civili che non è difficile immaginare. Lo stesso Giovanni Sartori, a conclusione del suo fondo Quando le società possono esplodere sul “Corriere della Sera” di martedì, 20 novembre, ha scritto che “Nel caso della privazione relativa […] chi è minacciato dalla fame non è rassegnato, non resta passivo: si rende conto di quel che sta succedendo e reagisce”; e ha fatto l’esempio della Grecia. “Ma anche la situazione italiana è grave” ha aggiunto. Il vecchio politologo ha ragione. Monti, fino a qualche tempo fa, si vantava che in Italia la gente accettava i sacrifici senza reagire e che il consenso che avevano lui e il suo governo era maggiore di quello dei partiti. Beh, dopo l’infuriare del morbo Grillo e il susseguirsi delle proteste di piazza degli studenti, ferocemente stroncate dalla polizia della ministra tecnica Cancellieri, ha ben poco di cui vantarsi. Posto che prima lo avesse!
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Non molto diversamente da Luciano Canfora, Piero Ostellino, il quale si serve dei trucchi usati dai filosofi che in regime di Controriforma, per salvarsi dalle accuse di eresia, mascheravano il loro pensiero tra simulatio e dissimulatio o semplicemente facendo finta di riferire da altri. Ne L’Italia «virtuale» e quella che manifesta (“Corriere della Sera” del 24 novembre) scrive: “La più grande operazione di marketing della storia a favore di un governo si è trasformata in regime. Eterogenesi dei fini non prevedibile, dice qualche anima candida. No, dicono altri: calcolo della finanza dei Paesi «amici» (Usa e Germania); che ha buttato sul mercato miliardi di euro di nostri titoli pubblici per delegittimare i governi politici, spingere l’Italia sull’orlo della bancarotta e farla finire nelle mani di un governo ubbidiente. Chi giudica la situazione sui fatti e ne denuncia la pericolosità passa per nemico della Patria. Il capo del governo, poveretto, ha un solo difetto: fa diligentemente «i compiti a casa» che gli sono assegnati dalla potenza egemone e che lo applaude, interessatamente: la Germania prospera, mentre noi siamo piombati in depressione e non si sa se e quando ne usciremo”. Ostellino non è un’anima candida. La sua lettura delle cose è perciò la stessa di Canfora, pur da una posizione diametralmente opposta. Quando si dice che la realtà non è figurazione!
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Monti sì Monti no è come il m’ama o non m’ama della proverbiale margherita. Un dubbio che sta caratterizzando questa fase della campagna elettorale già iniziata. Per un verso il centrodestra, vagamente inteso, da Montezemolo all’ex ministro degli esteri di Berlusconi Frattini, spinge Monti a candidarsi per ipotizzare un governo Monti politico; per un altro il centrosinistra, da Bersani ai moderati dell’area, ammonisce Monti a non scendere in campo. I politici, ancora una volta, caso mai qualcuno se ne dimenticasse, dimostrano scarsa lungimiranza, molta tattica e zero strategia, soprattutto quelli del centrodestra. Non hanno capito – benché c’è chi glielo spieghi quotidianamente – che Monti politico sarebbe ben poca cosa, sarebbe uno dei tanti, sarebbe un Sansone senza capelli e quindi senza la sua forza biblica. Monti dovrebbe semplicemente mettersi da parte, lasciare il campo alla politica, ad un governo sperabilmente tanto solido da poter respingere senza danni gli attacchi furiosi delle opposizioni. Le cose per il governo politico andranno male? Beh, allora sarà il caso di un suo ritorno. Insomma Monti, riserva della politica, è come Cincinnato: una risorsa; Monti, titolare della politica dal primo minuto, è uno spreco. Napolitano, richiesto sull’argomento, ha dato da Parigi, dov’era in visita di Stato, risposte sensate. Ha detto: Monti non può candidarsi perché è Senatore a vita; quanto a guidare una lista finirebbe per diventare un politico tra i tanti politici e dopo le elezioni concorrerebbe alla formazione di un governo. Intendiamoci, cose ovvie; ma di questi tempi perfino l’ovvio diventa intelligente, della serie beati monocoli in terra caecorum.
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Dice Grillo che lui è incandidabile perché delinquente. Una grillata! Ma sul fatto che non intende candidarsi sembra sia sincero e direi coerente. E’ uno che rifiuta i luoghi, i mezzi e ovviamente i fini dei politici. Il suo luogo privilegiato è il palcoscenico, meglio se se lo può creare in piazza a mo’ dei giullari e dei saltimbanchi medievali. Allora, perché il Movimento delle Cinque Stelle? Io un’idea me la sono fatta, ma – dico la verità – più che frutto di analisi attenta e seria è un desiderio; vorrei tanto che Grillo alla fine volesse solo una cosa: dimostrare quanto son fessi gli italiani. E dopo che se n’è messi alcuni milioni dietro, come il famoso pifferaio, si creperà di risate quando farà l’ultima grillata: cari signori, il potere politico in Italia è fatto di ladri, corrotti e delinquenti; ma il popolo è fatto di autentici coglioni e la prova provata siete voi che mi siete venuti dietro in tanti, dietro a uno che non vi ha mai parlato di programmi né di problemi né di prospettive né di mete da raggiungere. Ora, ditemi voi dove dobbiamo andare. E dalla gente ammassata un coro: dove ci hai sempre detto, Grillo: vaffanculooo!    

domenica 18 novembre 2012

Monti e le "immontizie" di un anno



Chiamo immontizie quelle soluzioni politiche che non hanno una legittimazione popolare; quei provvedimenti adottati non per risolvere i problemi del popolo, ma per obbedire ad imposizioni straniere, alle quali è stata ceduta una parte della sovranità nazionale senza mai aver consultato il popolo se fosse o meno d’accordo; quegli atteggiamenti autoreferenziali di superiorità intellettuale da parte di chi si arroga il diritto di prescindere dalle regole scritte nella Costituzione o di aggirarle; quelle leggi approvate, ovvero estorte al Parlamento, con voti di fiducia; quelle adesioni vassallesche di politici e opinionisti proni ad inchini nei confronti del signore di turno.
E così le chiamo non perché la parola sia foneticamente allusiva di immondizie, a cui si penserebbe di primo acchito, né perché io tali le consideri, ma in esplicito riferimento onomastico a Mario Monti, nominato nel giro di pochissime ore Senatore a vita e poi Presidente del Consiglio, senza mai aver ricevuto in vita sua un voto, dico uno, da un elettore. Monti è l’immontizia per antonomasia, avendo egli suggerito il neologismo; immontizie i suoi ministri. Per indicarlo è stato necessario ricorrere ad un metaplasmo, appunto una figura retorica che consiste nell’alterazione di un suono all’interno di una parola per poterne esprimere origine e complessità semantica.
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Se oggi, che è oggi – l’oggi è sempre dei laudatores temporis acti – non c’è commentatore politico che non ammetta due cose fondamentali: l’anomalia Monti che ha interrotto il normale svolgersi della vita democratica del Paese e il sostanziale peggioramento della situazione, che cosa diranno domani gli analisti e gli storici, quando saranno dispensati dal politicamente corretto e da ogni più o meno convinta laudatio per l’artefice dell’impresa Monti, ossia il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano? Si legge sul “Corriere della Sera” di giovedì, 15 novembre: “Senza voler sottovalutare le discontinuità introdotte dal governo dei tecnici è però evidente a tutti che il Paese non è guarito dalle sue malattie. Il debito pubblico è arrivato a quota 1.995, a soli cinque miliardi dalla soglia psicologica dei 2 mila miliardi. Lo spread, che testimonia il giudizio dei mercati, continua a veleggiare attorno a quota 360. La disoccupazione ha fatto segnare il record e purtroppo la tendenza è tutt’altro che invertita. Il sistema delle imprese è in grave sofferenza, perché se è vero che chi ha trovato la via dell’export sta ottenendo risultati positivi, il mercato interno è quasi totalmente fermo. Le nostre città stanno lentamente cambiando volto e i segni della depressione dell’economia cominciano ad essere visibili nelle zone industriali e nelle vie dei centri storici” (Dario Di Vico, Una impasse da evitare. Il logorio dei tecnici). Lasciamo stare il refrain: “Ricordare tutto ciò non è un esercizio polemico, vuole essere solo un richiamo a non interrompere l’azione di governo e a non archiviare frettolosamente l’agenda Monti”. Ognuno, di fronte alla casa che brucia, può reagire come vuole, perfino che a casa bruciata si metta fuoco, come recita un modo di dire meridionale. E’ sufficiente leggere nei suoi crudi termini una realtà che definire preoccupante incomincia ad essere un eufemismo.
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Dai benpensanti si continua a denunciare come pericolosi i populismi che qua e là nascono e si affermano in Italia. Ma quando nascono i populismi? Quando il popolo si trova nelle condizioni di affidarsi a chi per lo meno lo prende in considerazione e ne interpreta bisogni e propositi di lotta. Quanto è accaduto nella giornata di mercoledì, 14 novembre in diverse città italiane, con violenti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, deve far riflettere i benpensanti. La ministra Cancellieri ha detto che lei sta coi poliziotti. E con chi potrebbe stare una ministra che non ha mai avuto rapporti con la gente, ma è nata e cresciuta nella serra delle istituzioni? La Cancellieri ha espresso una grossa immontizia. Ci sono populismi e populismi. Finché si ha a che fare con quello di Beppe Grillo, che fa ridere e tutto sommato acquieta con speranze di vaghe soluzioni, i benpensanti possono anche avere margini di sicurezza, ma se dovesse sorgere un populismo un po’ meno da burla, allora saranno guai seri. E’ già accaduto tante volte nella storia e non si capisce come tanta gente, pur colta e attrezzata, si ostini a pensare che non possa più accadere.   
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Stupisce come in Italia si passi sopra fatti e personaggi armati di spatola e stucco per coprire tutto con una spalmata omologante, invece di usare il bisturi, le pinze, il rampino ed ogni strumento di precisione e di selezione critica. Su Monti e sulla famosa sua agenda politici e analisti politici scivolano e fanno piroette come su lastra ghiacciata. Quel che ha fatto Monti in un anno, dicono, è un tesoro che non va vanificato; l’agenda Monti va continuata, aggiungono. Si potrebbe pure essere d’accordo; ma questi signori dovrebbero spiegare che cosa è stato Monti e che cosa è la sua agenda. Incominciamo col dire che l’agenda Monti senza Monti è una frittata senza uova. Almeno questo bisognerebbe dirlo. Monti ha fatto quello che ha fatto, di buono o di cattivo, di bello o di brutto – ognuno la pensi come vuole – perché ha agito in una sostanziale “dittatura”, coperto dal Presidente della Repubblica e da un Parlamento, che, pur tra bofonchi e mal di pancia, gli ha dato la fiducia. A quanti altri si potrebbe concedere la stessa cosa? Io credo a pochissimi, per non dire a nessuno. La seconda cosa che bisognerebbe chiarire e che alla prima è connaturata è che senza le condizioni in cui ha operato Monti, il deus ex machina, l’uomo della provvidenza – chiamiamolo come vogliamo –  avrebbe fatto pipe e cannucce. Dunque, si dica chiaro e tondo che qui si vuole perpetuare non Monti, in quanto Monti, ma Monti in quanto mono-tecnocrate, che opera in regime di assolutismo. Si dica che in Italia si vuole continuare la sospensione della democrazia e della politica. Perché aver paura di dire le cose come stanno? Terza cosa che bisognerebbe dire, che è poi la più importante. Con Monti si vuole continuare ad adorare l’Europa o l’eurozona, come meglio viene specificata, esattamente come in India si adorano le vacche. Il Paese, la gente, i giovani stanno ai piedi di Cristo, ma l’Europa viene prima di tutto, perché è sacra. In India muoiono di fame ma le vacche non le toccano, perché sacre. Chi queste cose non le dice e si tratta di politici impegnati e critici militanti è un traditore della sua funzione sociale.
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Ora è uscito finalmente allo scoperto il cosiddetto “Partito di Monti”, fatto da Montezemolo e da frange di sindacalisti cattolici. Che farà questo partito? Monti non si sbilancia a riconoscerlo, ma è sufficiente perché si stabiliscano gerarchie e rapporti. Monti, uomo di Napolitano e dell’Europa, è una cosa; Monti, capo di un partitello di quattro gatti è un’altra. Un partito di Monti è una contraddizione, non può esistere, sarebbe la negazione di Monti per quello che è stato finora. Se Monti è stato il tutto o quasi, come potrebbe essere una parte? In questa ressa di montiani più montiani di Monti, hanno buon gioco gli urlatori alla Grillo, gli impresari di pulizie alla Renzi, i secondini alla Di Pietro, gli affabulatori alla Vendola, gli eterni comunisti alla Diliberto e alla Rizzo. E meno male che sono scomparsi i Moretti e i girotondini. Diogene, accendi la tua lanterna!     

venerdì 16 novembre 2012

Il giardino grande. Ortensio Seclì e i "promessi sposi" di Parabita



Qualche anno fa si ebbe notizia di una vecchia storia di amanti, sbrigativamente detta dei promessi sposi di Parabita, con evidente allusione al romanzo di Alessandro Manzoni; vera, ambientata in antico regime,  seconda metà del Settecento. Quella storia ora ha trovato sistemazione narrativa in un’opera di Ortensio Seclì, intitolata “Il giardino grande” (Parabita, Il Laboratorio, ottobre 2012).
Un giovane, Saverio Ferrari dei Duchi di Parabita, ama ed è riamato da una giovane fanciulla del popolo, Rosaria Cataldo. Al matrimonio si oppone il fratello maggiore, il Duca Giacinto, che ha potere di veto in tutto il suo feudo su quanto non ritiene opportuno o conveniente. Lo fa per due motivi: uno di sostanza, non vuole che il fratello si sposi per non rompere la tradizione famigliare del maggiorascato e perdere parte del patrimonio; l’altra di forma, non accetta che una popolana entri nella famiglia ducale. I due sono già in lite per la proprietà rivendicata dal fratello minore e sono in attesa che si pronunci la giustizia. Tra i due giovani innamorati accade il naturale che rende necessario il matrimonio: lei è incinta. Ma il Duca Giacinto non si commuove e non cede. I due giovani hanno tutti contro. I parenti di lui per un motivo, i parenti di lei per un altro, pur riconducibili per certi aspetti allo stesso: due giovani di così diversa appartenenza sociale non possono sposarsi. Il costume dell’epoca è legge morale, quasi divina, introitata, prima ancora che sociale e imposta. Lui ha dalla sua parte, ma con scarso potere, solo la sorella Elisabetta e qualche amico. Lei finisce per avere l’aiuto della famiglia, della mamma e delle sorelle. Ogni tentativo di matrimonio trova ostacoli. Alla fine i due tentano quello clandestino – ecco il motivo manzoniano – ma è il disastro. Pur riuscito, non viene riconosciuto; e lei è internata in un convento per pentite a Lecce, dove partorisce il terzo figlio, avuto dal suo Saverio. La sentenza della Gran Corte Civile di Napoli dà ragione a Saverio, riconoscendogli il diritto alla proprietà; ma, di ritorno da Napoli, il viaggio è da tregenda, il giovane prende acqua e freddo, si ammala di polmonite e muore qualche giorno dopo il suo ritorno a Parabita, dopo aver visto per l’ultima volta Rosaria, il figlioletto maggiore  e per la prima volta il piccolo nato in convento. Il giardino grande è teatro dell’amore dei due giovani, eletto a luogo definitivo della loro vita.     
Il romanzo può avere almeno quattro linee di lettura. La prima è quella dell’infelice storia d’amore, che qualche lacrima la strappa. Netto il confine tra bene e male: tutti i personaggi che ruotano attorno a Saverio e Rosaria sono buoni, miti, ricchi di sentimento; quelli che ruotano intorno al Duca, compresi i religiosi, sono duri, cinici e intransigenti, chiusi ad ogni sentimento, estraneo alla ferrea legge religioso-feudale, come si conviene al genere. Se l’autore si attiene all’accaduto, nulla gli è imputabile sul piano creativo.
La seconda linea è lo sfondo in epoca d’antico regime, ciò che avrebbe dovuto giustificare la tipologia di romanzo storico. Il quadro appare riduttivo, così limitato alla cornice della famiglia ducale e dei famigli. Niente dall’interno che colleghi la vicenda ad un contesto più ampio; niente dall’esterno che interferisca con la storia portante.
La terza linea riguarda l’estetica. Qui si registra l’aspetto più interessante e sorprendente. Dopo un avvio piuttosto lento e attardato in descrizioni eccessive di oggetti e di ambienti, in un italiano d’epoca rigorosamente in corsivo, la scrittura diventa più fluida, con un ritmo narrativo efficace, di piacevole scorrevolezza, ed un lessico che a tratti declina emotivamente i paesaggi naturali con assoluta padronanza espressiva.
La quarta linea è direi scolastica. L’autore offre una ricca messe di informazioni sulla vita quotidiana dell’epoca, specialmente agricola, su usi, costumi, abitudini, credenze, superstizioni, attraverso comportamenti, scadenze, proverbi e modi di dire; uno sfondo antropologico che in qualche modo compensa il difetto di quello storico.  
L’autore, indipendentemente se della storia vera c’è un testo scritto o una tradizione orale, si è inibito a creare quel qualcosa che avrebbe dato all’opera carattere di romanzo, con una vicenda centrale, uno sfondo storico e soprattutto un maggiore coinvolgimento sociale, sì da avere per protagonista un’intera classe sociale in un determinato periodo della storia.
Se prendiamo, tanto per capirci, I promessi sposi del Manzoni, a cui la vicenda parabitana si associa (tempi e luoghi a parte), vediamo che Renzo e Lucia sono personaggi eponimi di una borghesia in ascesa (quella dell’Ottocento manzoniano, non del Seicento storico). Non così per Saverio e Rosaria, che non escono dai loro confini individuali, restano due eccezioni chiuse e non coinvolgenti. I veri protagonisti della storia parabitana non sono i due giovani che si amano e vengono ostacolati perché lui è nobile e lei popolana, ma i due fratelli Giacinto Ferrari Duca di Parabita e il fratello minore Saverio, che non accetta le imposizioni del maggiorascato, rivendica la proprietà di famiglia che gli spetta e vuole sposare una ragazza non per interesse patrimoniale ma per amore. Dunque il vecchio che resiste e il nuovo che avanza, entrambi però all’interno di una stessa classe sociale che incomincia a scricchiolare sotto i colpi della cultura illuministica, prerivoluzionaria, a cui solo alla fine del romanzo si fa un breve accenno.
Il punto che ricorda i Promessi sposi a chi è di buona memoria scolastica è il matrimonio clandestino, che, più o meno ricalca la scena del povero don Abbondio quando si trova davanti Renzo e Lucia coi testimoni per pronunciare la fatidica frase: questa è mia moglie…questo è mio marito. Anche la conclusione delle due vicende, inventata la manzoniana, vera la parabitana, è significativa nell’indicare due prospettive diverse: Renzo e Lucia finiscono per coronare il loro sogno d’amore e la loro aspirazione sociale divenendo proprietari di una piccola azienda; patetica la conclusione di Saverio e Rosaria con la morte prematura di lui e con una controversia patrimoniale risolta a metà. Se pure Saverio ha vinto la causa contro il fratello per la proprietà, i suoi figli, a distanza di molti anni, non ne sono ancora entrati in possesso e sono alle prese, da padri a figli, col cugino Duca, che ancora si oppone, quasi a chiudere un tempo che di per sé scorre così lento da sembrare fermo.
Forse una nota editoriale dell’autore per chiarire il rapporto tra la vicenda veramente accaduta e quella del libro avrebbe fatto più giustizia del lavoro dell’autore. Seclì, che in genere si occupa di ricerche d’archivio, rivela una sorprendente capacità affabulatoria, tanto più significativa e importante quanto più la materia che tratta, essendo vera, poco si presta ad essere modellata. Il “romanzo”, modesto nella vicenda, ha un solido impianto narrativo, si arricchisce della cultura e della spiritualità dell’autore, e ben si presta, liberamente interpretato, ad un approdo sceneggiato.

domenica 11 novembre 2012

Monti e il mal compleanno



Le Province da 86 sono state ridotte a 51. Un risparmio che diventerà più consistente, dicono gli esperti, quando saranno aboliti tutti quegli uffici che dipendono dalle province, tipo prefetture, questure, sovrintendenze e simili. Allora il risparmio sarà notevole. Bene. Anzi benissimo! Ma quanti altri posti di lavoro si perderanno? Tutto il personale che oggi dipende dalle province finirà per uscire man mano pensionandosi, ma quei posti di lavoro si perderanno per sempre. E’ il classico ritornello, che ormai da un anno si sente in Italia, sul dilemma “risparmio o crescita”, dato che l’uno esclude l’altro. La Fornero ha dato degli schizzinosi ai giovani laureati senza posto di lavoro. Ci può stare. Lo direbbe e lo dice ogni buon professore o genitore. Ma qui non si tratta più di prendere il lavoro che si trova pur che sia, qui si tratta che tra non molto non ci sarà lavoro di nessun genere, neppure a fare gli spazzini, gli scaricatori di porto, i buttafuori, gli spazzacamini, le pulizie domestiche, i lavavetri, senza voler offendere queste categorie di lavoratori. La prospettiva è un Lumpenproletariat quale si è visto nei secoli passati e che sembrava essere definitivamente scomparso dalle contrade urbane dell’Occidente. Sottoproletariato è la versione italiana, ma più esattamente è un proletariato straccione, cencioso, poiché Lumpen in tedesco significa straccio, cencio.
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La Fornero, intanto, ha preso gusto a far parlare di sé. Se l’è presa coi giornalisti. In un incontro alla Fondazione Croce a Torino con avvocati e giuslavoristi, ha chiesto agli organizzatori che i lavori si svolgessero a porte chiuse, facendo uscire i giornalisti. Non contenta, in un successivo incontro coi giovani dell’Unione Industriale ha preteso la stessa cosa. Ubbidienti la prima volta – e hanno fatto male ad ubbidire – alla seconda i giornalisti si sono ribellati, rivendicando il diritto di esercitare la loro professione. A questo punto la Fornero ha capito che insistere sarebbe stato per lei controproducente e si è arresa dicendo: “Va bene. Sarò costretta a parlare lentamente, a pesare  ogni parola. Succede sempre così: parli quaranta minuti, dici cose sensate e poi ti scappa una parola ed è quella che fa il titolo dei giornali”. A parte la presunzione delle “cose sensate” è normale per un ministro sapere sempre quello che dice. Ancora una volta, questa ministra, piagnucolante agli esordi, ha tradito un carattere piuttosto borioso e introverso. Fosse per lei toglierebbe il lavoro anche ai giornalisti, o riserverebbe loro le veline con le cose da dire e con le indicazioni come dirle. Sarà pure brava nella sua professione, ma in fatto di comunicazione, zero! Dovrebbe sapere che a fare notizia non sono le parole normali, più o meno sensate, ma quelle che “scappano”. Per esempio, tra poco lei non farà più notizia nemmeno se strapperà il bastone ad un non vedente per strada, tanto ha abituato tutti alle sue intemperanze.
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Monti, il capo della banda dei tecnici, ossia dei migliori, come gli stessi si considerano, ha detto a proposito della legge elettorale: il governo potrebbe pure intervenire con un decreto legge, ma è meglio che se la vedano i politici. In dialetto salentino dicesi fiancunàta, letteralmente “colpo al fianco”, una minaccia larvata, un’anticipazione di un colpo diretto, al petto. Non è che sbagli Monti a minacciare, di fronte alla convulsa negligenza dei politici, ma se il suo governo si mette a fare la legge elettorale, che poi deve essere approvata dal parlamento, sia pure con un voto di fiducia, è lecito dubitare sulla buona riuscita. Il dramma di questo paese è che si ha bisogno di qualcosa, ossia della politica, che al momento però rappresenta il male dal quale si deve essere salvati. E’ come aver bisogno di un medico chirurgo che al momento però è un macellaio e per fermare costui si chiama chi fino a qualche tempo prima faceva il garzone nella sua bottega. La classe politica si serviva dei tecnici, i quali non si capisce se non erano bravi a dare consigli e suggerimenti o se non erano ascoltati. Oggi sono al potere e se la classe politica non vuole finire davvero nella tragedia dovrebbe dare qualche segnale di ravvedimento. Incominci con una bella legge elettorale, a prescindere se al momento va in favore di questa o quella parte politica; l’importante è che sia buona in sé. Il primato della politica, per il quale nonostante tutto tifiamo, lo si stabilisce con qualche buon provvedimento, non con le chiacchiere.
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Ci salveranno i gay? Il neopresidente della Sicilia Rosario Crocetta ha affidato al cantautore Franco Battiato l’assessorato al turismo e allo spettacolo. Questi ha accettato smarcandosi dalla politica e dicendo che si sarebbe impegnato a fare qualcosa di buono per la sua terra. Il sospetto, che è sempre del Maligno, che se l’avesse chiamato una giunta di centrodestra non avrebbe accettato, ce l’abbiamo. Battiato, che parla a gettoni come le colonnine dei parcheggi a pagamento registrano la scadenza dell’orario, ospite di Lilli Gruber (La7, martedì, 6 novembre) ha detto che alle primarie del Pd voterà Bersani e che avrebbe voluto che in America vincesse Obama. E meno male che non c’entra con la politica! Ma, andiamo oltre. E’ un gesto, quello di Crocetta, che non può non essere apprezzato. Battiato è fondamentalmente un uomo di arte e di cultura, ha le sue idee politiche, possiede sensibilità e buone capacità espresse sul campo in tanti anni di carriera. Dovrebbe riuscire a far bene, anzi benissimo. Dei suoi auspicabili successi un qualche merito lo avrà pure Crocetta, che è un gay dichiarato. Un’altra grande regione, la Puglia, è da anni governata da un altro gay dichiarato, Nichi Vendola. A tutt’oggi, a parte l’incidente giudiziario dal quale è uscito indenne ma non inviolato (la Procura aveva chiesto venti mesi di carcere), ha ben governato la regione. Quando l’opposizione tace vuol dire che c’è poco da dire. Dunque, due grandi regioni governate da due gay dichiarati sono un bel test per non avere nessuna riserva nei loro confronti. Non sappiamo se ce ne sono altri in giro per le poltrone della politica, se ci sono se lo tengono per sé; ma il fatto che questi lo dicano è apprezzabile ben più del tacerlo. Viene di pensare a Piero Marrazzo, l’insospettabile governatore della Regione Lazio. Forse è proprio il caso di mettere alla prova della pubblica amministrazione coloro che sono stati da sempre esclusi per delle ragioni che gli stessi oggi esibiscono.  
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Ernesto Galli Della Loggia (I tecnici, i notabili e il vuoto politico, Corsera del 9 novembre) discetta sui tecnici e sui notabili e conclude che la differenza è tutta qui: il tecnico finisce il suo mandato e se ne torna alle sue cose abituali, il notabile di tornarsene non ne vuole sapere e fa di tutto per prolungare la sua permanenza in politica. Monti – dice lui – è un tecnico e non un notabile. Io, avrei aspettato un po’ prima di dirlo.  Ma, in Italia, si sa: si coltiva lo sport dell’inchino, pericoloso direi dopo aver visto quello della Costa Concordia all’Isola del Giglio. Voglio dire che se poi Monti dovesse prenderci gusto a stare al potere, Galli Della Loggia avrebbe preso uno scoglio. A mio avviso la differenza sta invece nel comportarsi di Monti da impolitico. Quanto lo faccia per calcolo o per indole, non si può dire. L’ultima l’ha detta a proposito dei politici e della verità. Non è impossibile – ha detto – per i politici dire la verità. Certo che non lo è, ma per lui! Che è stato nominato e non eletto e che probabilmente potrebbe essere rinominato; ma per un politico, che deve fare i conti con l’elettorato la verità è come chi buttandosi in mare per farsi una nuotata riposante si lega una grossa pietra al collo. Si può essere più o meno convinti sostenitori della bontà del metodo democratico di governare; ma, di fronte all’esperienza di Monti, l’antidemocratico ha ragione di lisciarsi l’asso.
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Or è un anno dall’inizio del governo Monti. Quel che si potrebbe dire ora lo si è detto nel corso dell’anno, passo dopo passo, senza neppure aspettare l’esito, tanto era ovvio. Alcune cose sono state fatte per l’emergenza in corso, in regime pseudodemocratico. Il Parlamento ha avuto la funzione della foglia di fico. Altre cose il governo non è riuscito a farle perché chiaramente non praticabili, come l’ultima dell’aumento delle ore degli insegnanti da diciotto a ventiquattro la settimana. Una cosa da dilettanti allo sbaraglio. Poi il Ministro Profumo ha trovato la pezza a colore della mancanza di copertura finanziaria, della serie che anche i tecnici dicono le bugie. Altre cose sono state fatte male, come la riforma delle pensioni che ha lasciato irrisolto il problema degli esodati. Nel complesso l’Italia ha due volti, quello dei conti a posto, lodata dall’Europa, e quella di un paese che si sta impoverendo pericolosamente, con la deriva politica dei Grillo e dello sfaldamento delle coalizioni e dei partiti, con un’economia sempre più asfittica, con le fabbriche che chiudono, con la disoccupazione che avanza, con una pressione fiscale degna dei peggiori regimi assolutistici. No, non è un buon compleanno né per l’Italia né per il suo governo, né per gli italiani, né per chi spera di poter raddrizzare la politica. E’ un mal compleanno, purtroppo, per tutti.  

domenica 4 novembre 2012

Monti e non più Monti



Fin dal suo apparire come capo del governo Monti fece sollazzare i comici, i quali non potettero tacere il suo parlare lento, anonimo e raschiato come un robot. L’espressione staccare la spina gli era precedente, ma con lui trovò giusto posto. Sicché, quando Berlusconi sabato, 27 ottobre, nella sua più sgangherata esibizione, ha detto che è probabile che gli staccherà la spina, si è capito subito che l’autonomia di Monti era compromessa. In quel momento ci stava quasi simpatico, Monti non Berlusconi. Dell’ex commissario europeo abbiamo detto di tutto – nulla di personale, s’intende – come chi non ha condiviso fin dall’inizio l’esperienza del governo tecnico. Quell’insistere da parte di alcuni superscreditati politici, tipo Casini e Fini, o superdemocratici, tipo Scalfari e De Bortoli, che stavamo sull’orlo dell’abisso, che l’Europa ce lo impone e via di seguito coi vari codici rossi, ci ricordava il trucco di Numa Pompilio, che inventò la ninfa Egeria e la religione di stato per fare quello che lui decideva di fare. Non c’è la controprova e dunque la piantiamo qui. Ma Monti che dipende da Berlusconi come un frullatore elettrico, a cui si può staccare la spina e…addio al frappé, francamente ci fa un po’ arrabbiare, soprattutto in difetto di una prospettiva politica nazionale.
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Monti è stato l’anti Berlusconi in tutto e per tutto. Sobrio e misurato l’uno, torrenziale con piene e straripamenti l’altro. E tuttavia in Berlusconi c’è un’innegabile costante, che non è stato difficile vedere fin dalla sua famosa discesa in campo. Il suo pensare, parlare e agire è apparso subito e via via rafforzato pro domo sua, che ha fatto sollevare subito il famigerato conflitto di interessi. Altrettanto chiaro è apparso l’accanimento giudiziario nei suoi confronti. Un vero fronte, degno di ben altra causa, ha visto intellighenzia, giornali, televisioni, spettacolo, varietà, procure della repubblica fare azioni e tendenza. Non che non ci fossero alla base di tante iniziative i motivi, ma in un paese in cui si lascia morire per decenni la gente, ora con le esalazioni chimiche a Porto Marghera, ora con le polveri di Eternit nel Monferrato, ora con quelle dell’Italsider-Ilva a Taranto, per non parlare di migliaia e migliaia di casi di inquinamento e illegalità diffusi in tutto il paese, senza che un solo pretorino avesse mai sollevato un’obiezione o avesse avviato un’indagine, è apparso come una jihad islamica la lotta contro Berlusconi. In Italia ci siamo fatta un’idea dei talebani pensando a quei signori di sopra (scrittori, giornalisti, attori, comici, magistrati) tutti impegnati usque ad mortem contro il Cavaliere, ad mortem del Cavaliere s’intende. Ciò che a momenti lo ha reso anche simpatico a chi gli è stato sempre antipatico e non per ragioni irrazionali, come il patos farebbe intendere.
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Monti è stato l’anti Berlusconi anche perché è del tutto esente da attenzioni giudiziarie. La notizia di un avviso di garanzia nei suoi confronti sarebbe come apprendere che hanno sparato alla Croce Rossa. Il buono, insomma, e il cattivo. Ora l’idea che il cattivo possa staccare la spina al buono e che questo si afflosci come un pupazzo pieno d’aria a cui è venuto meno il compressore ci fa davvero male.
In politica non si sa mai come siano andate veramente le cose. Può essere che qualche tacita concessione a Berlusconi sia stata fatta, in cambio del suo famoso “passo indietro”, se non da Monti Mario da qualche altro cocuzzolo della montagna; non so una promessa di evitargli altri fastidi giudiziari e finanziari. Ora la condanna per i diritti televisivi avrebbe fatto saltare tutto. Se no, per quale ragione prendersela con Monti, fino all’altro giorno se non proprio osannato, di sicuro stimato e rispettato?
Chiudiamo il cerchio: Berlusconi ha ancora una volta dimostrato che tutto finisce negli affari suoi personali. E questo non è tollerabile. Non lo era ieri, non lo è oggi, non lo sarà domani. Possiamo continuare a comprendere le sue ragioni, non possiamo più comprendere le sue azioni e soprattutto le sue esternazioni.
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Governo “maledetto” ha chiamato Monti il suo governo, ma dagli italiani più gradito di quello dei partiti. La solita tisana in varietà di gusto lessicale. Agli italiani che non amano uscir di testa basta e avanza il “maledetto”, senza paragoni per lenirne il dolore. Ma, ora che la sua esperienza volge al termine, è giusto pure vedere le cose non con la presa diretta del momento, condizionata dall’indignatio dell’immediato, ma con un minimo di analisi politica retrospettiva. Non più cos’è ma che cosa è stato il governo Monti. Terreno più percorribile per un analista politico, che ha bisogno anche di vedere come volge il giorno per dire se è stato soleggiato o nuvoloso. Se la luce alla fine del tunnel ancora non si vede, si vede invece per Napolitano il traguardo della scadenza naturale della legislatura: il suo traguardo. E lo ha detto con un certo compiacimento alla cerimonia dei centocinquant’anni della Corte dei Conti: il governo durerà fino alla fine. Ecco, tra il governo “maledetto” e la macchinazione che l’ha creato e sorretto, che è quella politica – dico politica – di Napolitano, ancora una volta è di gran lunga più apprezzabile questa. Non è una consolatio per chi sostiene il primato della politica, ma una constatazione, che invita a valutare la situazione sempre dal punto di vista politico. Può pensarla come vuole la mamma di Monti sulla politica e il grado di obbedienza a lei del figlio, sta di fatto che lui ha agito come il braccio meccanico di una volontà politica di un soggetto, che è in Italia, con l’energia persuasiva che è in Europa. Di fronte ad una crisi innegabile, non solo finanziaria ma politica e morale – in Italia nel corso del 2011 c’era la guerra civile tra le parti politiche e all’interno delle stesse parti – Napolitano, politico vecchio stampo, ha trovato la quadra del governo tecnico, come a dire: mo’ basta, comando io. E lo ha fatto con lucida determinazione ma anche con rassicurante rispetto delle parti. Altro è il giudizio sulle cose fatte dal governo. Altro ancora è quello sulle parti politiche che hanno gettato il Paese nello squallore di una situazione di totale disfacimento. L’Italia politica va ricostruita. Il problema semmai è come pulire il terreno da erbacce, animali ed insetti che infestano gli edifici della politica abbandonati alle loro rovine; e da tanti materiali di risulta, alcuni molto inquinanti e ingombranti.
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In Sicilia, domenica, 28 ottobre, si è votato per le Regionali. Ha vinto un certo Crocetta, comunista e gay dichiarato, sostenuto da una coalizione Pd-Udc, che ad alcuni appare assai più scandalosa della condizione di “genere” del presidente eletto con appena il 30 % dei voti, in realtà il 15 % di tutti gli elettori siciliani. Il risultato elettorale è una vera schiaffeggiata agli italiani: il 53 % non ha votato, il Movimento comico-politico detto delle Cinque Stelle, con un po’ di presunzione alberghiera, è il primo partito col suo 18 % dei voti. Intendiamoci, nessuna sorpresa. Un Paese, l’Italia, che deve convincersi di dover rinunciare alla sua sovranità, alla sua cultura, ai suoi caratteri storici, che per adeguarsi ai parametri e ai costumi europei deve cambiarsi i connotati, deve pur essere compreso se produce fenomeni come quello siciliano, peraltro diffuso in tutta Italia. Davvero può morire qualcuno senza lo strepito dei parenti, il pianto delle prefiche? Quel che preoccupa non è questo, è quel che potrebbe venir dopo. I giovani di oggi, tra i trenta e i quarant’anni, non erano nati per rimanere disoccupati e affamati, figli del benessere accumulato prima e di un’Italia, che, pur con tutti i suoi difetti, non si sognava neppure di doversi piegare ai costumi dei belgi; e dunque non hanno la mentalità dei rivendicatori. Ma i figli dei figli, quelli che cresceranno sulla disoccupazione e la fame dei padri sfortunati, se ne staranno con le mani in mano, compiacendosi delle buffonate dei Beppe Grillo? Attenzione, qualcosa accadrà!

venerdì 2 novembre 2012

Pino Rauti, l'ultimo grande del Novecento, è morto

Pino Rauti è morto stamattina, 2 novembre, giorno dei morti, all’età di quasi 86 anni. Era nato il 19 novembre 1926. Credo che l’aver “scelto” il giorno dei morti per morire sia stata l’unica data puntuale della sua vita. Le altre, le tante, le molte altre, lo hanno visto paradossalmente in anticipo e in ritardo, non alcune volte in anticipo e altre in ritardo, ma in anticipo e in ritardo insieme. Basti pensare alla sua scelta di arruolarsi giovanissimo, a diciassette anni, nella Repubblica Sociale, aderendo ad un fascismo che per certi aspetti lo vedeva precocemente suo e allo stesso tempo in ritardo rispetto al regime ormai finito il 25 luglio 1943.
Sentii per la prima volta il suo nome, come di un mito, quando avevo quattordici anni e frequentavo a Maglie il Ginnasio “Capece”. Fu uno studente più grande a parlarmi di lui, un liceale del terzo anno, uno di quelli che organizzano scioperi e manifestazioni; e quel giorno si doveva manifestare per gli attentati terroristici in Alto Adige. Era l’autunno del 1958. Allora le frange studentesche più sensibili e organizzate erano di destra. Sulla posta interna di partito si stampigliava buste la scritta “I confini della patria non si discutono, si difendono”. Tutti in corteo dietro la bandiera al Monumento dei Caduti.
Il nome di Rauti è stato legato allo stragismo di destra. Da Piazza Fontana a Milano 1969 a Piazza della Loggia a Brescia 1974. Ne è uscito sempre pulito. Ma non ha escluso, con l’onestà che lo caratterizzava, che elementi della destra missina ed extra potessero essere stati strumentalizzati dagli strateghi del terrorismo politico, nazionale ed internazionale, che non erano certo del Msi.
Il suo percorso politico lo esponeva a sospetti ed accuse. Era stato tra i fondatori del Msi nel 1946. Fondatore dei Far (Fasci di azione rivoluzionaria) tra gli anni Quaranta e Cinquanta, nel 1951 fu arrestato e processato insieme a molti altri, fra cui il filosofo Julius Evola. Fu assolto, ma voltò pagina, privilegiando da quel momento la riflessione e lo studio, pur senza trascurare la militanza politica sempre da posizioni radicali. Nel 1954 fondò “Ordine Nuovo”, un movimento politico e una rivista. Nel 1956, con la segreteria Michelini, uscì col suo gruppo dal Msi. Prese le distanze da “Ordine Nuovo” quando si accorse che il movimento era usato da elementi non controllabili, come il gruppo padovano di Freda e Ventura. Tornò in carcere accusato della strage di Piazza Fontana, poi assolto e scarcerato. Nel 1969, col ritorno alla segreteria di Almirante, rientrò nel partito, di cui fu deputato per vent’anni, dal 1972 al 1992. Parallelamente scrisse e pubblicò opere storiografiche importanti, fra cui “Le idee che mossero il mondo” e la “Storia del fascismo” in collaborazione con Rutilio Sermonti.
Nei primi anni Settanta non condivise la politica di apertura di Almirante alla grande destra; non poteva sopportare – lo scrisse – che certi elementi della destra monarchica e conservatrice, salottiera e massonica, storcessero le labbra davanti ai ritratti fascisti delle sedi missine. Si mise a capo del gruppo degli intellettuali più moderni e spregiudicati del partito, per lo più giovani, tra cui Marco Tarchi, e organizzò la sua corrente intorno alle riviste “Civiltà” e “Presenza”. La prima più teorica e legata al fascismo pagano, filogermanico ed evoliano, la seconda più funzionale all’attualità politica e alle sue problematiche. Verso la metà degli anni Settanta, in risposta alla crisi del partito che avrebbe portato alla scissione di Democrazia Nazionale, incominciò ad elaborare una linea che dalle proposte di “Linea Futura”, “Spazio Nuovo” e “Andare Oltre”, documenti programmatici e strategici di grande intuizione politica, lo portò alla segreteria politica del partito nel 1990.
La sua era la tipica linea dell’intellettuale prestato alla politica, del rivoluzionario e magari del militare se ce ne fossero state le circostanze. Il suo modello era in verità più Trotzki che Gramsci. Era convinto che il Msi dovesse essere un partito di solide radici ideologiche, con un forte ancoraggio al passato ma di pensiero e di azione nel presente. Perciò indusse i suoi a tagliare col nostalgismo, spinse i giovani a invadere campi fino a quel momento appannaggio delle sinistre per mettersi in concorrenza con esse. Furono quelli gli anni in cui i giovani del Msi ebbero nel quindicinale “Linea” lo spazio delle loro idee, incominciarono ad occuparsi di ambiente, di cultura popolare, di tradizioni, di fumetti, di satira politica, di musica leggera e di canzonette, di letteratura fantastica, facendo scoprire autori come Tolkien. La qual cosa sconcertò per certi aspetti il vecchio ambiente missino. Nelle Amministrative del 1991 se ne videro i risultati, mai così bassi nelle percentuali. I frutti del nuovo non erano ancora maturati; gli anziani erano quasi indignati di un futuro dal quale si sentivano esclusi. Nell’estate di quell’anno il Comitato Centrale credette che l’esperimento “di sinistra” di Rauti fosse fallito e riprese la vecchia strada del conservatorismo moderato, destituendolo da segretario nazionale, in favore di Gianfranco Fini.
A Fiuggi, nel 1994 non accettò la fine del partito e la nascita di Alleanza Nazionale. Fondò il Msi-Fiamma Tricolore e fu eletto Deputato al Parlamento Europeo. Ma il partito, tra cambiamenti e convulsioni interne, finì per essere una testimonianza sempre più anacronistica e ingestibile, mentre sorgevano altri gruppi come “Forza Nuova”, “la Destra” di Storace, e “Casa Pound” più radicati nella realtà odierna. L’età incalzante e la parentela con Gianni Alemanno, marito della figlia Isabella, ministro e poi sindaco di Roma per An, gli hanno fatto vivere gli ultimi anni nel ruolo del vecchio saggio, ritirato, ma capace sempre di letture critiche puntuali e profonde dell’attualità politica e di intuizioni importanti.
Felice il suo giudizio sul fascismo. «Il fascismo non è più ripetibile. E’ solo un giacimento della memoria al quale penso che si possa attingere».
La mia esperienza rautiana risale al 1974, quando divenni suo collaboratore alle riviste “Civiltà” e “Presenza”, con saggi, recensioni e traduzioni. Peraltro gli unici soldi avuti dalla mia attività pubblicistica me li ha dati lui. Finì nel 1976, due anni dopo, quando per ragioni professionali e per scelta di vita pensai di dedicarmi alla scuola e allo studio, fuori e lontano dal partito. Nel 1976 mi chiese di valutare la possibilità di creare a Lecce e nel Salento la corrente di “Linea Futura”. Gli risposi che non avevo interesse politico attivo, ma che avrei contattato alcuni elementi. Poi altri, fra cui Mario De Cristofaro a Lecce, Ennio Licci a Ruffano, Roberto Tundo a Melissano risposero all’appello. Quando seppe qualche anno dopo che avevo fondato un periodico locale mi fece sapere con garbo ed ironia che non avevo fatto una gran bella scelta, lasciando la nazione per il villaggio. In verità non ho mai lasciato la nazione e qualche anno fa tornai a scrivere per l’ultima sua “Linea” qualche articolo di politica.
Rauti resta uno dei più grandi pensatori ed operatori politici di destra del secondo Novecento, un maestro per tante generazioni. Se oggi esiste una destra giovane e moderna, capace di fare l’analisi critica di un fatto, di saper intercettare i problemi del paese, della gente, di ragionare in prospettiva, lo si deve a lui; a quell’operazione che lui iniziò proprio negli anni Settanta. Ma va detto anche che il suo modo di intendere la politica, come mito e come realtà, come un universo di valori da coltivare e una moltitudine di problemi da risolvere, oggi ha perso entrambi i corni. Nessuno ha più la cultura e la sensibilità di avere un mito e di coltivarlo pur nella pressione quotidiana di molteplici problemi, mentre la realtà fa registrare ogni giorno di più una degenerazione della politica. Quei giovani che, nell’ultimo decennio, si sono invaghiti dello yuppismo berlusconista e finiano, sono vuoti e snervati, privi di capacità e sensibilità politica.
Un grido, perciò, secondo tradizione, può giungere in questo momento a Rauti solo da chi in lui e con lui ha creduto e crede nella politica, sul campo o sui libri, come impegno nobile. Da quei giovani, oggi prossimi all’anzianità anagrafica, parta allora il saluto che gli si deve, in un ultimo ritrovarsi idealmente insieme: Onore a Pino Rauti!