venerdì 16 novembre 2012

Il giardino grande. Ortensio Seclì e i "promessi sposi" di Parabita



Qualche anno fa si ebbe notizia di una vecchia storia di amanti, sbrigativamente detta dei promessi sposi di Parabita, con evidente allusione al romanzo di Alessandro Manzoni; vera, ambientata in antico regime,  seconda metà del Settecento. Quella storia ora ha trovato sistemazione narrativa in un’opera di Ortensio Seclì, intitolata “Il giardino grande” (Parabita, Il Laboratorio, ottobre 2012).
Un giovane, Saverio Ferrari dei Duchi di Parabita, ama ed è riamato da una giovane fanciulla del popolo, Rosaria Cataldo. Al matrimonio si oppone il fratello maggiore, il Duca Giacinto, che ha potere di veto in tutto il suo feudo su quanto non ritiene opportuno o conveniente. Lo fa per due motivi: uno di sostanza, non vuole che il fratello si sposi per non rompere la tradizione famigliare del maggiorascato e perdere parte del patrimonio; l’altra di forma, non accetta che una popolana entri nella famiglia ducale. I due sono già in lite per la proprietà rivendicata dal fratello minore e sono in attesa che si pronunci la giustizia. Tra i due giovani innamorati accade il naturale che rende necessario il matrimonio: lei è incinta. Ma il Duca Giacinto non si commuove e non cede. I due giovani hanno tutti contro. I parenti di lui per un motivo, i parenti di lei per un altro, pur riconducibili per certi aspetti allo stesso: due giovani di così diversa appartenenza sociale non possono sposarsi. Il costume dell’epoca è legge morale, quasi divina, introitata, prima ancora che sociale e imposta. Lui ha dalla sua parte, ma con scarso potere, solo la sorella Elisabetta e qualche amico. Lei finisce per avere l’aiuto della famiglia, della mamma e delle sorelle. Ogni tentativo di matrimonio trova ostacoli. Alla fine i due tentano quello clandestino – ecco il motivo manzoniano – ma è il disastro. Pur riuscito, non viene riconosciuto; e lei è internata in un convento per pentite a Lecce, dove partorisce il terzo figlio, avuto dal suo Saverio. La sentenza della Gran Corte Civile di Napoli dà ragione a Saverio, riconoscendogli il diritto alla proprietà; ma, di ritorno da Napoli, il viaggio è da tregenda, il giovane prende acqua e freddo, si ammala di polmonite e muore qualche giorno dopo il suo ritorno a Parabita, dopo aver visto per l’ultima volta Rosaria, il figlioletto maggiore  e per la prima volta il piccolo nato in convento. Il giardino grande è teatro dell’amore dei due giovani, eletto a luogo definitivo della loro vita.     
Il romanzo può avere almeno quattro linee di lettura. La prima è quella dell’infelice storia d’amore, che qualche lacrima la strappa. Netto il confine tra bene e male: tutti i personaggi che ruotano attorno a Saverio e Rosaria sono buoni, miti, ricchi di sentimento; quelli che ruotano intorno al Duca, compresi i religiosi, sono duri, cinici e intransigenti, chiusi ad ogni sentimento, estraneo alla ferrea legge religioso-feudale, come si conviene al genere. Se l’autore si attiene all’accaduto, nulla gli è imputabile sul piano creativo.
La seconda linea è lo sfondo in epoca d’antico regime, ciò che avrebbe dovuto giustificare la tipologia di romanzo storico. Il quadro appare riduttivo, così limitato alla cornice della famiglia ducale e dei famigli. Niente dall’interno che colleghi la vicenda ad un contesto più ampio; niente dall’esterno che interferisca con la storia portante.
La terza linea riguarda l’estetica. Qui si registra l’aspetto più interessante e sorprendente. Dopo un avvio piuttosto lento e attardato in descrizioni eccessive di oggetti e di ambienti, in un italiano d’epoca rigorosamente in corsivo, la scrittura diventa più fluida, con un ritmo narrativo efficace, di piacevole scorrevolezza, ed un lessico che a tratti declina emotivamente i paesaggi naturali con assoluta padronanza espressiva.
La quarta linea è direi scolastica. L’autore offre una ricca messe di informazioni sulla vita quotidiana dell’epoca, specialmente agricola, su usi, costumi, abitudini, credenze, superstizioni, attraverso comportamenti, scadenze, proverbi e modi di dire; uno sfondo antropologico che in qualche modo compensa il difetto di quello storico.  
L’autore, indipendentemente se della storia vera c’è un testo scritto o una tradizione orale, si è inibito a creare quel qualcosa che avrebbe dato all’opera carattere di romanzo, con una vicenda centrale, uno sfondo storico e soprattutto un maggiore coinvolgimento sociale, sì da avere per protagonista un’intera classe sociale in un determinato periodo della storia.
Se prendiamo, tanto per capirci, I promessi sposi del Manzoni, a cui la vicenda parabitana si associa (tempi e luoghi a parte), vediamo che Renzo e Lucia sono personaggi eponimi di una borghesia in ascesa (quella dell’Ottocento manzoniano, non del Seicento storico). Non così per Saverio e Rosaria, che non escono dai loro confini individuali, restano due eccezioni chiuse e non coinvolgenti. I veri protagonisti della storia parabitana non sono i due giovani che si amano e vengono ostacolati perché lui è nobile e lei popolana, ma i due fratelli Giacinto Ferrari Duca di Parabita e il fratello minore Saverio, che non accetta le imposizioni del maggiorascato, rivendica la proprietà di famiglia che gli spetta e vuole sposare una ragazza non per interesse patrimoniale ma per amore. Dunque il vecchio che resiste e il nuovo che avanza, entrambi però all’interno di una stessa classe sociale che incomincia a scricchiolare sotto i colpi della cultura illuministica, prerivoluzionaria, a cui solo alla fine del romanzo si fa un breve accenno.
Il punto che ricorda i Promessi sposi a chi è di buona memoria scolastica è il matrimonio clandestino, che, più o meno ricalca la scena del povero don Abbondio quando si trova davanti Renzo e Lucia coi testimoni per pronunciare la fatidica frase: questa è mia moglie…questo è mio marito. Anche la conclusione delle due vicende, inventata la manzoniana, vera la parabitana, è significativa nell’indicare due prospettive diverse: Renzo e Lucia finiscono per coronare il loro sogno d’amore e la loro aspirazione sociale divenendo proprietari di una piccola azienda; patetica la conclusione di Saverio e Rosaria con la morte prematura di lui e con una controversia patrimoniale risolta a metà. Se pure Saverio ha vinto la causa contro il fratello per la proprietà, i suoi figli, a distanza di molti anni, non ne sono ancora entrati in possesso e sono alle prese, da padri a figli, col cugino Duca, che ancora si oppone, quasi a chiudere un tempo che di per sé scorre così lento da sembrare fermo.
Forse una nota editoriale dell’autore per chiarire il rapporto tra la vicenda veramente accaduta e quella del libro avrebbe fatto più giustizia del lavoro dell’autore. Seclì, che in genere si occupa di ricerche d’archivio, rivela una sorprendente capacità affabulatoria, tanto più significativa e importante quanto più la materia che tratta, essendo vera, poco si presta ad essere modellata. Il “romanzo”, modesto nella vicenda, ha un solido impianto narrativo, si arricchisce della cultura e della spiritualità dell’autore, e ben si presta, liberamente interpretato, ad un approdo sceneggiato.

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