domenica 27 marzo 2016

Terrorismo: i veri kamikaze siamo noi!


Ancora una volta il terrorismo islamico ha colpito. A Bruxelles, il 22 marzo, all’aeroporto due kamikaze e alla metropolitana una bomba hanno provocato più di trenta morti e circa trecento feriti. Ma la ferita più grave, con tutto il rispetto per le povere vittime, inferta all’Europa, è quella psicologica. Essa continua a inebetire gli europei, politici e semplici cittadini. E’ spaventoso sentirli ripetere ogni volta le stesse cose: vogliono farci rinunciare alla nostra civiltà, alle nostre abitudini, alla nostra vita; e noi, per non dargliela vinta, continuiamo a fare quello che sempre abbiamo fatto. E poi, politici e opinionisti, che se la prendono col fascismo! Non riuscendo a capire quel che sta succedendo e non volendo chiamare le persone coi loro nomi e coi loro predicati, finiscono sempre per parlare di fascisti e di nazisti.  
Che significa continuare a fare quello che sempre abbiamo fatto? Per noi, comuni cittadini, significa continuare a lavorare, viaggiare, divertirci frequentando bar, ristoranti, discoteche, biblioteche, cinema. O, per lo meno, cerchiamo di illuderci di poter fare tutte queste cose come se nulla fosse accaduto o potesse ancora accadere.
Per i nostri politici significa un’altra cosa: continuare ad accogliere islamici e imbottire sempre più le nostre città di soggetti, non solo e non tanto estranei, ma potenzialmente ostili e nemici.
Ogni volta che si verifica un attentato, con morti e feriti, il primo pensiero politico dei nostri governanti e dei media, che ne riprendono i pensieri e le parole, dopo quello emotivo, che evidentemente è per le vittime, è per i pacifici islamici che vivono tranquillamente in Europa ed esprimono loro solidarietà per lo stato d’ambascia in cui si sentono. Nobili sentimenti! Chi lo nega? Ma qui il discorso è un altro, tragicamente diverso. Qui è in gioco la sicurezza di milioni di cittadini, che vivono costantemente a rischio di essere ridotti a brandelli da un’esplosione improvvisa o falciati da una raffica di mitragliatore.
Ora, invitare i signori del potere politico a ragionare non serve a niente. Tentò disperatamente qualche anno fa Oriana Fallaci, incominciando una durissima requisitoria contro l’Islam subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001; e finì per portarsi nella tomba sia la rabbia che l’orgoglio. Non riuscì semplicemente perché chi non vuole capire non capisce nemmeno se fosse possibile trapiantargli chirurgicamente il pensiero.
Ci sono ormai interessi, tanti e tali, di carattere economico e finanziario, che non è più possibile fare marcia indietro nel fenomeno della contaminazione islamica nei nostri paesi.
E’ vero: ci sono migliaia e migliaia di islamici tranquilli, che si sono integrati magnificamente, che rappresentano delle risorse importanti, sia economiche che culturali; nessuno può negarlo. Ma la componente umana di una popolazione non è mai statica, è sempre qualcosa di dinamico, di mutevole, di progressivo ma anche di regressivo. E’ possibile che ci siano islamici che si convertano al cristianesimo per completare un processo di piena integrazione. Ma è anche possibile il contrario. Chi oggi compie gli attentati terroristici contro chi ha accolto e accudito i loro padri o i loro nonni sono figli di islamici tranquilli e integrati. Dunque, il problema non è se ci sono o non ci sono islamici tranquilli e pacifici, ma se i figli o i nipoti di essi possono o meno regredire alla loro condizione pre-migratoria, al loro essere nemici storici della civiltà occidentale e cristiana.
Non c’è una risposta teorica precisa ad una simile domanda. C’è però la constatazione di quanto sta avvenendo, che non lascia dubbio alcuno. La presenza islamica in Europa è una minaccia costante, comunque gli islamici si presentino al momento. Essi sono in potenza dei nemici dell’Europa e del Cristianesimo.
Questo cercava di far capire la Fallaci a chi, non che non l’avesse già capito, ma faceva finta di non capire, perché altri erano e altri sono gli interessi degli europei che detengono il potere in Europa, d’accordo coi loro omologhi americani.
La gente spesso arrabbiata e inorridita – i movimenti populistici lo dimostrano crescendo in Europa e negli Stati Uniti d’America – si chiede perché con tutta la potenza militare che l’Occidente ha non va a fare piazza pulita delle centrali terroristiche di questo nuovo stato detto del Califfato, non chiude il conto con questi barbari che minacciano le nostre popolazioni; perché continua ad accoglierli; perché non avvia un processo di restituzione dei migranti alle terre da dove sono venuti. C’è dell’ingenuità in domande simili; ma il popolo – si sa – è ingenuo e diretto.
La risposta è semplice: perché i nemici non stanno in un posto altro, lontano dai nostri paesi, stanno nelle nostre stesse città, negli stessi quartieri, pronti a colpirci come hanno fatto finora. L’Occidente si è legate le mani favorendo l’immigrazione islamica; ora, non solo non è in condizioni di combattere il nemico, ma addirittura nega di avere un nemico, circoscrivendolo, quando proprio non può fare a meno di vederlo, ai quattro terroristi che si fanno saltare in aria insieme a tanti poveri cittadini ignari di trovarsi in prima linea perfino quando vanno al bar per prendersi un caffè.

Paradossalmente più kamikaze di quelli che si fanno saltare per uccidere i nemici della loro civiltà siamo noi. E incominciamo ad esserlo nel momento in cui li accogliamo nei nostri paesi e lasciamo a loro la scelta se diventare buoni cristiani o feroci saladini. Non è una questione di rispetto della legge, come Ernesto Galli della Loggia, sostiene sul “Corriere della Sera” di sabato, 26 marzo; no, qui la questione è assai più complessa, si tratta di una religione, di un costume, di una visione della vita – mi riferisco all’islamismo – che non ha niente a che fare con la nostra religione, con il nostro costume, con la nostra visione della vita. L’islamismo è qualcosa che con l’Occidente cristiano ha ben poco a che fare. Una società in cui coesistono islamici e cristiani è una bomba che da un momento all’altro può esplodere. Quando in Occidente si arriverà a capirlo, forse sarà troppo tardi. 

domenica 20 marzo 2016

Così Berlusconi sarà riabilitato dalla storia


A fronte del dilettantismo, del disordine e dell’approssimazione di tanti leader del centrodestra – ma leader tanto per capirci – Silvio Berlusconi rischia di essere più che riabilitato dalla storia. Intendiamoci, le porcherie che ha fatto, con donne e donnette di malaffare, leggi e leggine ad personam, compravendita di deputati e senatori, barzellette e cafonate varie, restano a sua perpetua damnatio; non potranno mai diventare altro da quello che sono. Balordaggini, indegne di un uomo politico che deve rappresentare e guidare una nazione. Non dico come l’Italia perché allora ci sarebbe da giustificarlo; siamo il paese di Alessandro VI, Lucrezia e Cesare Borgia.
Ma a Berlusconi uomo d’affari, spregiudicato e fortunato e sicuramente positivo, come lo si è sempre considerato, si finirà per aggiungere anche l’uomo politico avveduto e scaltro. Ci sta tutto!
Lo ha dimostrato non solo quando è riuscito a vincere le elezioni avendo tutti contro in Italia e fuori, raggiungendo un consenso nel Paese del 70 %, ma soprattutto nei momenti di crisi del Paese. Nel caos seguito a Tangentopoli e alla fine della repubblica dei partiti è stato lui a inventare il centrodestra, a dargli dignità politica e consistenza amministrativa, conferendogli un ruolo che solo qualche tempo prima “era follia sperar”. E’ stato lui a trovare un modo nuovo, discutibile quanto si vuole, ma così tanto di successo e imitato, di porsi in politica. Il berlusconismo è assai di più che una condanna sommaria di modi di fare. A prescindere se si è contrari o favorevoli.
Per entrare nello specifico internazionale, nessuno potrà negargli il suo senso realistico della crisi libica, quando tentò di opporsi al bombardamento di quel paese e all’abbattimento del regime di Gheddafi. Non lo fece solo per simpatia personale, che pure c’era, nei confronti del dittatore libico, ma perché l’Italia da anni faceva affari d’oro con quel paese e da anni l’Italia, pur senza tradire l’alleato Israele, coltivava una politica estera favorevole ai paesi arabi, Libia inclusa; ma era contrario soprattutto perché non si distrugge, non si demolisce neppure un canile senza aver prima pianificato qualcosa per il dopo. Si è visto il disastro provocato da Sarkozy e Cameron, spalleggiati dai nostri superdemocratici, Napolitano e compagni, che sentivano la missione di portare la democrazia in paesi in cui della democrazia essi non sanno che farsene. Romano Prodi – e sappiamo tutti quanto sia stato ostile a Berlusconi – sulla Libia era del suo stesso parere. E Prodi non si limitò ad esprimere pareri sottovoce ma lo disse apertamente, compromettendo la sua carriera politica, che avrebbe dovuto portarlo di filato al Quirinale. Berlusconi, con la sua politica dei rapporti d’amicizia personali, esercitata con leader come il russo Putin e il turco Erdogan, ha dimostrato che in certi momenti si possono superare le difficoltà di importanti questioni internazionali, economiche e politiche con la complicità che c’è tra amici.
Ma anche nelle faccende interne, all’Italia e al suo schieramento, Berlusconi ha dimostrato di saper vedere dove altri non riuscivano. Affari politici, dunque, non meno di quelli economici. Oggi, alla vigilia dei suoi ottant’anni, è più vivace e volitivo dei tanti sergenti e caporali di giornata del centrodestra. Basta osservare quanto è accaduto a Roma con la candidatura a sindaco di Bertolaso, l’ex capo della Protezione Civile. Dopo essere riuscito a mettere d’accordo tutti su quella candidatura, ha costretto i suoi alleati di schieramento a tradirsi per quello che sono. Salvini, il supponente leader della Lega, che si sta giocando le ultime carte lumbard, e la Meloni si sono rivelati davvero ben poca cosa, non solo perché cambiare parere da un giorno all’altro non è mai un segnale positivo, né per l’intelligenza né per la lealtà, ma soprattutto perché i fatti provvederanno a dar loro torto, quando apparirà loro come alla luce del sole di essere dalla parte perdente – ma direi dalla parte assai più perdente – rispetto alla soluzione prospettata e difesa da Berlusconi.
I commentatori politici insistono nel dire che la partita non è sul sindaco di Roma ma sulla leadership del centrodestra e che tutto l’avant-arrière di questi giorni è mirato a delegittimare Berlusconi. Può darsi che sia così. In Italia non si giudica mai il politico per un gesto di lealtà e di coraggio ma sempre per le sue furbate e per le sue obliquità. Oh come parla bene quel Renzi! Sembra di sentire quel tormentone di alcuni anni fa “Anvedi come balla Nando…”. Lo stesso Panebianco ha recentemente sottolineato la vocazione di alcuni politici a destra e a sinistra di giocare a perdere per poter far fuori Berlusconi da una parte e Renzi dall’altra.  
Berlusconi – dicono i suoi detrattori – fa quello che gli suggeriscono i figli, Letta (Gianni) e Confalonieri, a difesa degli interessi delle aziende di famiglia. Ma se pure così fosse – e non si può escludere che così è – non è positivo l’operare in difesa di qualcosa di concreto? Bisognerebbe dimostrare piuttosto che agendo per i propri interessi si danneggia la collettività. Ma la storia insegna che molti uomini importanti, agendo per i propri interessi, hanno saputo farlo anche per quelli generali. Non sempre gli interessi personali sono in conflitto con quelli generali. Cesare e Napoleone agivano forse per gli interessi dei loro nemici e avversari? E chi in politica non cerca di conciliare gli interessi della collettività coi propri?

No, non è questo un elogio di Berlusconi; è semmai un’apostrofe nei confronti del personale politico che lo circonda, dentro e fuori del suo mondo politico, fatto di mezze calzette, di personaggetti, per dirla col pittoresco Governatore della Campania De Luca, che non valgono niente. Storia vecchia quella dei monocoli in terra caecorum. Berlusconi resta un monocolo, né più né meno; ma – e qui sovviene il grande Andreotti – se si gira intorno non è che veda giganti. Tra tanti grecuzzi si fa presto a diventare un ciclope!        

domenica 13 marzo 2016

Noi, la guerra e la Libia del Califfo


Da più di due anni Matteo Renzi governa l’Italia, pressoché da solo. Lo hanno detto tanti osservatori politici e politologi che non è davvero il caso di insistere. Nel corso di questi due anni egli ha fatto tanta propaganda, per la quale occorre riconoscere abbia una spiccata vocazione. Ci sono state le riforme, quella del lavoro, pomposamente detta Jobs-act, e della Costituzione. Per la prima, fino ad oggi è stato più il fumo che l’arrosto. Per la seconda, non si può dire al momento che sortirà e se sortirà.
Per il resto è stata routine, che neppure i suoi oppositori interni e lo scalmanato Salvini sono riusciti a vivacizzare. A tratti ha pensato lui stesso a creare rumore col suo solito nazionalismo, che sta al vero nazionalismo come il calcio in costume sta al calcio vero. Ha tentato perfino di renderlo più credibile, il suo nazionalismo, litigando col Presidente della Commissione Europea Juncker per via dei suoi insulti alla Commissione, e perfino col Cardinal Bagnasco a causa del voto segreto per la legge sulle unioni civili. Defensor Reipublicae con l’uno, dello stato laico con l’altro appare!  
Solo in questi ultimissimi tempi, ma la cosa è nata con l’abbattimento del regime di Gheddafi, e cioè dall’ottobre del 2011, si è trovato di fronte ad una gravissima crisi internazionale, quella della Libia e delle armate dell’Isis alle porte di casa nostra.
Non occorre avere molta paura o molta immaginazione per capire che noi, per storia politica e vicinanza fisica, siamo i più diretti interessati a sistemare le cose libiche. Senonché, mentre gli altri da tempo e senza strombazzamenti sono impegnati concretamente in Libia, in modi e mezzi diversi, noi ancora non abbiamo deciso che fare. Continuiamo a dire di non volerci affrettare ad avventurarci in situazioni pericolose, perché – dice Renzi – la guerra è una faccenda seria, non è cosa da videogiochi. E torniamo alle trovate propagandistiche. Non si stanca mai di atteggiarsi a saggio. Parla come un vecchio. Parla…
E, propaganda per propaganda, ha preso la palla al balzo dopo un’intervista dell’Ambasciatore statunitense a Roma sul “Corriere della Sera” del 4 marzo, nel corso della quale il diplomatico ha detto che l’Italia interviene in Libia con cinquemila uomini, per assumere il ruolo del difensore della sovranità nazionale. Evidentemente era una decisione già presa nell’ambito Nato; o comunque se n’era parlato. Se no, da dove tirava fuori la cosa l’Ambasciatore? Ma, dio liberi! Come si permettono di dire a noi cosa dobbiamo fare? E giù trovate propagandistiche, inneggianti alla pace, all’equilibrio, alla sovranità dell’Italia. Come se gli altri in Libia fossero andati per divertimento, non perché c’è un grosso pericolo che minaccia anche noi!
Qualche tempo addietro il professor Angelo Panebianco, editorialista del “Corriere della Sera” e ordinario presso l’Università di Bologna di Sistemi Internazionali Comparati, richiamava in un suo fondo la nostra impreparazione in Libia. Lasciamo stare quel che è capitato a Panebianco da parte del braccio armato delle sinistre italiane, che dove non arrivano con le parole arrivano con le mani, è importante notare come in difesa del professore non si è levata nessuna personalità politica, men che meno lui, Renzi, che un twitter di auguri, complimenti e solidarietà non lo nega a nessuno. Panebianco è passato per un assassino e guerrafondaio e gli è stato impedito per ben due volte di tenere la sua lezione.
Ora nessuno, salvo che non sia un pazzo, vuole la guerra; ma nessuno, che non sia un furbastro o un vigliacco, vuole che la guerra la facciano gli altri per noi. Non solo perché sarebbe vergognoso contare sugli altri per salvarsi il culo, ma soprattutto perché chi la guerra la fa, poi vuole giustamente beneficiare degli effetti. Non è che, a guerra finita, l’Italia parta lancia in resta come se la guerra l’avesse fatta lei? C’è da giurarci che lo farebbe; lo ha fatto altre volte.  
Intanto due nostri connazionali rapiti sono stati uccisi e non sappiamo da chi e perché, mentre altri due sono stati rilasciati, anche per questi non si sa perché. Il ministro Gentiloni ha detto che non è stato pagato nessun riscatto. Per favore, si taccia almeno su vicende così tragiche! Questa storia del riscatto “che non paghiamo” è davvero mortificante. Intanto i guerriglieri del Califfato usano armi chimiche, come è già accaduto in Iraq. La minaccia che prima o poi ci attacchino è concreta, come concreta è la minaccia di atti terroristici nel nostro Paese. Più tempo passa e meno possibilità di scelta abbiamo. Non avere fretta in situazioni del genere è importante; ma essere lenti fino all’esasperazione può essere letale.
Sulla guerra bisogna essere chiari. Quando l’abbiamo fatta, dalla prima guerra d’indipendenza (1848) all’ultima (1940), ci è andata male, con l’eccezione della Grande Guerra quando fummo sull’orlo della disfatta. Sappiamo che in Italia non siamo liberi di decidere. C’è il Papa, che, senza usare parole esplicite, condiziona comportamenti e scelte degli italiani. Che vogliamo? L’occhio del padrone sazia il cavallo. I politici italiani dipendono elettoralmente dalla chiesa per un buon cinquanta per cento. In genere non dicono e non fanno niente che dispiaccia al papa. In Italia c’è una sinistra in servizio permanente effettivo, una sorta di gendarmeria del sistema, in grado di mettere sottosopra intere città per impedire scelte politiche del governo non gradite. Mi riferisco ai centri sociali, cosiddetti, che sono i padroni della piazza. 
In considerazione di questi e di altri fattori, che per carità di patria teniamo per noi, bisognerebbe dichiararci paese neutrale, come la Svizzera, e di conseguenza uscire dagli organismi internazionali militari. Se a tanto non vogliamo arrivare, perché, data la nostra posizione geografica, non possiamo neppure, dobbiamo convincerci che la guerra può diventare una costrizione. E allora, Papa o non Papa, Renzi o non Renzi, centri sociali e non centri sociali, bisogna farla e cercare di vincerla.  

domenica 6 marzo 2016

Eravamo figli di mamma...


La legge sulle unioni civili, ovvero convivenza riconosciuta tra due dello stesso sesso, ha superato lo scoglio del Senato. Le sarà più agevole superare quello della Camera, dove c’è una caterva di nominati, peraltro in maniera incostituzionale (lo ha detto la Consulta), in grandissima quantità disposti a resistere resistere resistere il più a lungo possibile dove stanno. Per ora è stato stralciato l’art. 5, quello dell’adozione del figlio biologico del partner, confezionato con l’utero in prestito, in affitto, in dono o come dir si voglia, la Stepchild adoption. Un figlio, dunque, prodotto di un semilavorato, dopo una serie di gesti tecnici, dalla masturbazione all’impianto (sorvoliamo sui dettagli).
E’ solo una frenata provvisoria, opportuna, perché l’iter parlamentare è viscido e il rischio è una sbandata. Ma non c’è dubbio alcuno che a quel risultato si arriverà. Basta considerare il cammino osservato finora a partire dall’introduzione del divorzio ad oggi per rendersi conto che tutto scorre come l’acqua in pendenza.
Dunque, addio figli di mamma, con quel carico di significati che l’espressione aveva: di amore, di tenerezza, di pietà. Un’espressione rigorosamente al femminile. Ricordo quando le donne, di fronte ad uno che aveva subito una disgrazia o la morte, esclamavano: povero figlio di mamma! Un uomo non la usava mai, perché non in possesso di tutte quelle doti di cuore di cui le donne una volta erano esclusive depositarie. Sentire un uomo pronunciarla era come sospettare che proprio maschio non fosse.
Essere figlio di mamma era una condizione assai più pregnante di quanto la lettera possa dire. In talune circostanze, l’espressione “siam tutti figli di mamma” era sinonimica di “siam tutti figli di Dio”. E perché, forse che la mamma non è creatrice come Dio?
Alla mamma si accompagnavano le espressioni più belle. Di stupore: mamma mia! Di dolore: ahi ahi, mamma mia! Si può avere qualche dubbio su ciò che disse il poeta tedesco Goethe prima di spirare, se mehr Licht (più luce) o mehr nicht (più niente), ma non c’è dubbio alcuno che chi è morto in guerra o sul lavoro, in un incidente stradale o per un’aggressione subita, l’ultimo suo pensiero e le ultime sue parole sono state per la mamma.
Una canzone di qualche anno fa del gruppo musicale svedese Abba ha immortalato l’espressione “Mamma mia” e l’ha fatta conoscere così in italiano in tutto il mondo. Un tormentone, che però non ci si stanca di ascoltare. Ora i figli di mamma andranno in estinzione. Si farà una legge per proteggerla? C’è da dubitarne.
Che una certa parte di parlamentari insistesse per far passare anche l’adozione per pressanti situazioni venutesi già a creare o che stavano per crearsi, lo dimostra il fatto che all’indomani del voto al Senato è nato Tobia, figlio di Nichi Vendola e di Ed Testa, il suo compagno di vita. C’era urgenza, c’era insistenza, c’era determinazione. Poi hanno capito i giustizieri dei figli di mamma che forse sarebbe stato meglio non compromettere il risultato raggiunto delle coppie civili: meglio oggi la gallina, che ci potrà dare domani anche l’uovo. Ma è del tutto evidente che si trattava di approvare una legge ad personas; mica persone così, no importanti, perché Vendola sarà pure comunista ma ha capito che il siam tutti uguali non esiste e non esisterà mai.
Di mamma – altra espressione proverbiale – ce n’è una sola. Quando ce ne sono due vuol dire che la mamma vera non c’è. Si è detto in questi turpi tempi di confusione che è molto meglio che un bimbo abbia due madri o due padri in serenità di crescita che un padre e una madre nel disordine e nell’inferno quotidiano di litigi e di tragedie. E’ meglio? Non so. Se tutto l’orizzonte dell’esistenza si contiene nel crescere senza gridate, minacce e violenze, evidentemente sì, è meglio stare con due madri o con due padri in tranquillità come bruchi sotto i cavoli. Ma non è così. Premesso che perfino due madri o due padri possono ad un certo punto litigare e rompersi i piatti in testa, separarsi e rimettersi con altri, avere un padre e una madre è un valore unico, che non può essere surrogato da nessuna altra condizione. Si è anche detto che è meglio che un bambino cresca con due padri o con due madri anziché stare in un orfanotrofio. Anche qui, occorre essere chiari. I bambini dell’orfanotrofio possono essere adottati da coppie eterosessuali. Qual è il problema? Magari esemplificando le adozioni, che oggi comportano difficoltà burocratiche incredibili. Da che mondo è mondo questo è avvenuto, e non ci sono stati né traumi né tragedie. Ma darli in adozione a coppie dello stesso sesso è una condanna per i bambini, dagli esiti imprevedibili.
Oggi un omosessuale può dire: io ho il diritto di avere un figlio. Lo si può capire anche se con qualche difficoltà. Ma se domani il bambino, ad una certa età, chiede di volere la mamma, che gli si risponde? Non ha più ragione il bambino di volere una mamma e un papà che una coppia di omosessuali di volere un figlio? E perché certi diritti non sono erga omnes?
Chi sostiene la trasformazione antropologica della società nella direzione dell’omosessualità punta ad avere dalla sua parte il tempo. Pensa: tra una generazione o al massimo due i giovani neppure ricorderanno i tempi della mamma e del papà e per loro sarà normale avere due madri o due padri; gli altri si saranno abituati. A quel punto gli anormali, probabilmente anche da discriminare, saranno quelli che fino ad oggi sono stati i normali.

Già oggi sono pochi ad avere il coraggio di difendere le proprie idee in materia; i più se ne stanno zitti per non dispiacere o per paura di poter essere personalmente coinvolti, non si sa mai. Mentre dappertutto i gay possono fare liberamente e festosamente le loro sfilate, chi manifesta per la famiglia tradizionale viene aggredito ed insultato. Lo spirito del tempo è la forza di questa gente. Può essere che si andrà fatalisticamente fino in fondo sulla strada intrapresa. Ma può essere anche che a qualcuno torni imperioso il desiderio della mamma. Allora forse il “voglio la mamma” diventerà un grido di battaglia.