sabato 4 maggio 2024

Giorgia Meloni oltre le votazioni

Per tutte le cose che sono accadute e che stanno accadendo – dico tutte, ma proprio tutte – il primo governo Meloni deve porsi una scadenza, che è dopo le elezioni, quali che saranno gli esiti, che comunque non potranno essere che di cambiamento dei rapporti di forza all’interno delle coalizioni. La candidatura di Vannacci nella Lega, che è parte fondativa e costitutiva del centrodestra, è uno sgarbo alla Meloni e un insulto a tutto il popolo del centrodestra. O davvero pensa Salvini di sottrarre voti alla sinistra col suo generalone? Se così è vuol dire che i mojiti ancora se li fa, ma di nascosto. Che cosa ha a che fare con la destra un generale dell’esercito, che con la divisa indosso si mette a sparare granate micidiali contro parti del popolo, sia pure minoritarie e culturalmente e politicamente discutibili? Nulla. Anzi è segno che quel generale, che si propone come un’icona, si comporta in maniera sleale e vorrei aggiungere illegale. E chi sa che il senso dell’onore e della lealtà tradizionalmente sta a destra non può non considerarsi offeso e irritato. Salvini, che lo ha voluto, mentre lui si nasconde, in funzione anti alleati, pagherà per questo tradimento. Mai, come in queste elezioni europee, il Paese ha dimostrato tanto cialtronismo. Vecchie erose cariatidi del vecchio establishment, che spiccano per decadenza anche fisica, si stanno presentando alle elezioni per un posto in Europa, dove, a parte la riscossione del lauto stipendio, non faranno un cazzo, quando cazzo ha il significato di nulla. Altri, una volta fieri del proprio nome e cognome, hanno scelto di proporsi con un nome fittizio preceduto da un “detto” che meglio sarebbe dire “cosiddetto”. Tanto per imitare Giorgia Meloni, che meglio avrebbe fatto a proporsi col suo nome e cognome anagrafico. Così abbiamo il “detto generale” per Vannacci, il “detto pavone” per Cecchi Paone, altra colonna portante del cenotafio nazionale degli illustri curiosi. E chissà quanti altri ancora si stanno presentando con “detto” davanti a ipocoristici, diminutivi e appositivi, nel trionfo dell’italica creatività. Altri ancora, i big che si sono candidati, sanno perfettamente che una volta eletti non andranno neppure un giorno a Strasburgo, perché incompatibili sono i tempi di lavoro delle varie assemblee. Tutto questo ed altro fanno vedere la classe politica sempre più staccarsi dai canoni di serietà e di impegno che una volta aveva o forse solo si ipotizzava, ma mai così scaduta come oggi. Ci sono delle straordinarie immagini che da sole dicono chiaramente che questa classe politica è fatta di sbandati, di perdigiorno. Basta vederli nel corso dei telegiornali: a gruppetti avvicinarsi a Montecitorio o a Palazzo Madama mentre danno l’impressione di essere usciti o stanno per entrare in qualche pizzeria. Neppure si preoccupano di apparire più presentabili, meno sciatti e vagabondi. Fateci caso. Dove vanno Lupi e il suo seguito? E quel Magi? Sempre allo stesso modo, sempre sulla stessa piazza, sempre le stesse persone e soprattutto sempre lo stesso bighellonaggio. A cui, a volte, dà un senso l’incontro dell’inviato di “Striscia la notizia”, con una bella presa per il culo finale. Ma intanto sono apparsi e questo conta. Poi c’è la questione seria del Ministro Santanchè. Le accuse, formalizzate e poste alla base del suo rinvio a giudizio, non possono più essere eluse, come se fossero ancora allo stadio di dicerie dei giornali dell’opposizione. Il governo deve liberarsi dei soggetti impresentabili e dannosi, ne va della sua salute, della sua durata, del consenso popolare, che nel nostro Paese ha dimostrato negli ultimi anni di cambiare come per la donna dice l’aria del Rigoletto. Questo non significa dare in pasto all’opposizione un ministro per tacitarla, ma dimostrare di sapersi difendere bene come dalle minacce esterne così da quelle interne. Se Giorgia Meloni vuole davvero durare fino alla scadenza naturale della legislatura deve comportarsi come fa un allenatore di calcio, che, nel corso della partita sostituisce chi in campo batte la fiacca, chi maltratta gli avversari e rischia di essere espulso, chi non risponde più alla tattica di gioco. Da quando è stato varato questo governo ha dovuto sostituire due sottosegretari (Montaruli e Sgarbi), e non è successo niente, anzi la gente ha apprezzato. Qualcuno, che non ha dimostrato di essere all’altezza, al netto delle vocianti opposizioni, può essere benissimo essere sostituito. Ne gioverà il governo, ma anche il Paese. Si ricordi, poi, la Meloni che molti governi incominciano a scricchiolare quando non funzionano i servizi pubblici. Quelli italiani sono allo stremo.

sabato 27 aprile 2024

Si torna al '68, si torna nelle fogne

C’era una volta un’Italia che celebrava e commemorava i suoi uomini e le sue date in maniera unitaria e orgogliosa. Era l’Italia del Regno, quando gli italiani si riconoscevano nella Marcia reale e insieme nell’Inno di Mameli e nella Leggenda del Piave. Quell’Italia è scomparsa il 2 giugno 1946, quando al Referendum istituzionale il popolo italiano scelse la Repubblica. È seguita un’altra Italia, divisa e rancorosa. Non poteva essere diversamente, uscendo da una guerra civile, lunga e cruenta, in cui il sangue dei vinti non valeva quello dei vincitori. E ancora oggi viene ribadito. Non si è trovato un solo giorno dell’anno per ricordare le migliaia di vittime fasciste nel corso di una guerra durata fino a tutti gli anni Quaranta, come diversi storici hanno raccontato sulla base di ricerche documentali. Per i vinti non c’è pietà: erano dalla parte sbagliata. E se avessero vinto loro – si dice – non avremmo avuto la libertà e la democrazia. Perciò, che restino ignorati, fino al giorno del giudizio. Ogni anno, in occasione del 25 aprile, si recita lo stesso copione. Quest’anno con un motivo nuovo, la guerra israelo-palestinese, l’odio antisemita. Le armate di sinistra dalle solite postazioni, università e centri sociali, già da tempo hanno scatenato la guerriglia. Devono fronteggiarle gli uomini delle forze dell’ordine. Le università sono presidiate dalle novelle guardie rosse. Non si può accedere se non si è di sinistra, una qualunque, non fa differenza. Alt a Capezzone, alt a Parenzo, alt a Molinari. E i tre anzidetti sono solo tre giornalisti. Ma chi è di destra o addirittura ebreo non ha diritto di parola. Va da sé che se degli studenti di destra volessero entrare nell’università anche con la forza perché è un loro diritto, allora si tornerebbe al sangue. Si sta scivolando agli anni Sessanta-Settanta del ‘900. Allora il nemico principale era un generico fascismo, tanto generico che comprendeva tutti quelli che non erano di sinistra. A destra, a livello giovanile, erano quattro gatti, che finirono per essere utilizzati come terroristi al servizio di oscure manovre politiche. Altri dovettero darsi alla macchia ovvero alla fogna, come con un po’ d’ironia pensò Marco Tarchi che fondò “La voce della fogna” e come oggi ripete Tomaso Montanari, il supercomunista rettore dell’Università per stranieri di Siena. “Fascisti, carogne, tornate nelle fogne”, era lo slogan, uno dei tanti, che i giovani di sinistra urlavano contro i giovani di destra, per lo più nascosti, per l’impari confronto. Giovani pronti a uccidere o a farsi uccidere, come capitò a tanti, dell’una e dell’altra parte. Pensavamo di esserci allontanati da quelle atmosfere cupe e invece due eventi, clamorosi e destabilizzanti, sono arrivati, quasi a sorpresa. La vittoria nel 2022, a cento anni dalla presa del potere di Benito Mussolini, di Giorgia Meloni; e la guerra israelo-palestinese. Il primo evento era nell’ordine delle cose, ma non per questo meno traumatizzante. Un partito per vari motivi è cresciuto al punto da essere leader di una coalizione e vincere democraticamente le elezioni. Il secondo era meno scontato. Terroristi palestinesi in preda al delirio ideologico, arricchito da droghe meno riconducibili ad Allah, hanno compiuto una strage di israeliani senza precedenti, uomini, donne, bambini, anziani, macellati nel corso di una notte di ottobre 2023. I nostri giovani di sinistra – ma lo stesso si comportano in tutto il mondo – sono scatenati contro gli israeliani solo perché hanno risposto alla violenza con altra e ben più motivata violenza. Non hanno difficoltà a dire che l’attacco palestinese ad Israele era giusto e che invece la risposta di Israele è un genocidio insopportabile. Non vogliono neppure che ci siano due popoli due stati, come ripete in litania papa Francesco, quasi immemore che questa soluzione, prevista con risoluzione dell’Onu nel 1948, è fallita e ben quattro guerre Israele ha dovuto combattere per ritrovarsi sempre punto e daccapo. A sinistra hanno sempre la soluzione pronta. Vogliamo la pace e se questa passa dalla cessione di territori, come nel caso dell’Ucraina aggredita dalla Russia, si facciano tutte le cessioni necessarie. In fondo c’è la resa come ultima opzione risolutrice. Come si può, di fronte a posizioni simili, pensare di poter celebrare il 25 aprile tutti d’amore e d’accordo? Se pure non ci fossero i soliti motivi che tengono gli uni contro gli altri quelli di destra e quelli di sinistra, ci sono sempre dei pretesti per questi arruolati senza scadenza per tenere il Paese in uno stato di perenne disordine, a cui le donne che si pensava fossero generatrici di pace, danno un tocco di ordinaria isteria.

sabato 20 aprile 2024

Meloni rifiuti il prezzo dell'onore

Nel corso della mia lunga carriera giornalistica, accompagnata sempre dall’etica scolastica di docente, che mi rende diverso dai giornalisti-giornalisti, sono stato querelato più di una volta come direttore di un periodico locale per diffamazione a mezzo stampa. In tanti anni di esercizio, ben 39, può capitare. Il più delle volte la denuncia era speciosa. Il querelante, che era sempre il partito comunista, per decisione dei suoi dirigenti locali, non era per niente convinto, ma si costituiva parte civile lo stesso. Salvo poi a proporre la remissione di querela davanti al giudice. Accettare voleva dire comunque pagare l’avvocato e le spese processuali, che in lire potevano raggiungere il milione. Perché un simile incomprensibile atteggiamento? Per la semplice ragione che lo scopo dei querelanti era di infliggere al giornale un danno economico, che voleva dire la crisi del giornale e la chiusura. Si dirà, ma che c’entrano simili piccolezze a fronte di una querela, per esempio, della leader di un partito e poi premier nei confronti di un mostro sacro della cultura? Si parva licet… Veniamo al dunque. Giorgia Meloni, quando ancora non era premier, fu definita dal professor Luciano Canfora “neonazista nell’animo”, “poveretta”, “pericolosissima” e “mentecatta”. Qui non c’è niente da dimostrare, né da interpretare. Si tratta di ingiurie, violente, categoriche, giunte alla destinataria come mazzate. Diffamanti? Non lo ha creduto gran parte degli italiani che l’ha voluta Presidente del Consiglio dei Ministri. Alla faccia di Canfora. Meloni non è accusata di aver compiuto qualcosa di disdicevole che lei non ha compiuto, allora sì che ci sarebbe stata diffamazione, è stata solo ingiuriata da un avversario politico, benché di lusso. Buon senso vuole che ognuno si astenga dal suggerire alla Meloni le parole giuste, posto che ne abbia bisogno, per saldare il conto con Canfora sullo stesso piano, occhio per occhio, dente per dente. Che si può fare, allora, di fronte a simili offese? Penalmente, mettere in carcere un vecchio ultraottantenne? Non lo vuole la legge e non lo vuole neppure la Meloni. Civilmente, fargli sborsare 20mila euro? Tanto vale in Italia l’onore del capo del governo in carica? La questione potrebbe essere risolta nel più banale dei modi: Canfora si rende conto di aver sbagliato, chiede scusa e dichiara solennemente che non pensa affatto che la Meloni sia quella da lui sconsideratamente definita; Meloni, da parte sua, ritira la querela e alla fine un bel selfie e applausi da tutti e per tutti. Ma Canfora probabilmente non ci sta, forte del suo rango culturale e di tutta la claque che gli sta attorno, fatta di comunisti mai pentiti ma non più gradassi e spocchiosi. I comunisti vanno capiti. Hanno goduto in Italia di importanti privilegi, tenuti in gran considerazione, grazie al fatto che avevano sconfitto il fascismo e il nazismo. Erano quasi lì lì per mettere le mani sul potere quando sono precipitati giù come il disgraziato Sisifo. Di qui la rabbia che acceca perfino persone di elevato rango culturale come Canfora. Purtroppo c’è poco altro da fare, per non dire che da fare non c’è un bel niente. Questo, come tanti altri similari episodi, ricorda un raccontino del filosofo greco del II sec. d. Cristo Luciano di Samosata. Toh, ha lo stesso nome di Canfora. Narra il filosofo che Menippo di Gadara muore e si presenta davanti al guardiano del regno dei morti. Come di prassi questi gli chiede la monetina per farlo passare dall’altra parte, ma quello non ce l’ha. E, allora, gli risponde agitato il guardiano, senza monetina non ti faccio passare. Ah no? gli replica quello. E allora, benché morto, resto da questa parte coi vivi. Quale il senso di questa storiella? Che ci sono situazioni che la legge stessa impedisce di risolvere. Luciano Canfora-Menippo si rifiuta di pentirsi, tanto non gli si può far nulla. E alla Meloni non resta che lasciar perdere con tutte le ingiurie ricevute. Ma su Luciano Canfora, onorato e colto cittadino, non è finita. Resta da chiedersi perché un paese come l’Italia, che ha tanta bella gente come lui, ha poi una Presidente del Consiglio come Giorgia Meloni. La quale, per fortuna, è ben lontana dall’essere come i Canfora e gli a lui assimilabili la considerano. Se fosse quel democratico che dice di essere, Canfora dovrebbe avere più rispetto per la volontà del popolo espressa come la legge ha voluto. Socrate per coerenza e rispetto della legge preferì bere la cicuta. A Canfora non si chiede di bere neppure un po’ di rosolio se gli resta sullo stomaco, ma di ammettere che certe cose non si dicono, non solo e non tanto perché non sono vere, ma principalmente perché offensive di un intero paese.

martedì 16 aprile 2024

Maternità e valori sovvertiti

A Milano la Commissione del Comune e della Soprintendenza delle Belle Arti ha respinto la proposta di collocare in piazza Duse una statua della scultrice milanese Vera Omodeo, raffigurante una donna a seno scoperto che allatta un bambino. La motivazione è che «rappresenta valori rispettabili ma non universalmente condivisibili». C’è da non credere ai propri occhi ed orecchi. Il titolo dell’opera è «Dal latte materno veniamo». Cioè: in questo paese, a stragrande maggioranza cattolico, non è universalmente condivisibile il fatto che tutti veniamo dal latte materno. Meglio, in verità, sarebbe stato dire: dal seno materno, visto che oggi i bambini, quei pochi che nascono, possono essere allattati con latte diverso. Ma quello che conta non è il significato letterale, bensì quello simbolico, valoriale. La maternità non è più un valore condivisibile. Ciò che la rappresenta, anche un’opera d’arte, venga perciò nascosta, meglio se fatta sparire. Le tante opere d’arte che nel corso dei secoli hanno rappresentato la maternità possono prendere la via degli scantinati dei musei; i loro autori il dimenticatoio. Oggi sono un’offesa. Esporli è una provocazione nei confronti di chi non ne condivide contenuto e significato. Quello che è stato da millenni un valore naturale, sacro e indiscutibile, siamo tutti figli di mamma, oggi non lo è più. Ecco, questo è ciò che oggi vogliono imporre quelli che una volta erano quattro gatti, che chiedevano di essere tollerati, poi accettati, in seguito rispettati, oggi dominanti al punto da far passare gli altri dalla parte dei nuovi discriminati, da tenere sempre più in spazi angusti di sopportazione. Sono quelli che rappresentano la comunità Lgbt, in continua crescita in numero e varietà di specie, in continua crescita di potere, i nuovi discriminatori. È per rispettare il loro indiscusso dominio che oggi si nega a che un’espressione artistica di fine e alto valore venga esposta in pubblico a ingentilire un luogo urbano e a rafforzare un principio di appartenenza. Qualche anno fa i difensori di questa comunità sostenevano che non c’era nulla di male e che nessun danno avrebbe ricevuto la società dei “normali” a rispettarne i singoli membri. Ma, in fondo, a te che fastidio danno i gay, i trans, le coppie omosessuali? Questo chiedevano retoricamente essi e i loro difensori. Che danno? Ecco: il rovesciamento dei valori su cui si fondava la nostra civiltà. Fino a doversi vergognare dei più alti e sacri simboli che hanno accompagnato nei millenni l’umanità. Non è ancora chiaro? Qualcuno ancora ha dei dubbi sull’esito della partita? Il Presidente del Senato Ignazio La Russa, dall’alto del suo laticlavio, ha proposto di “nascondere” la statua in Senato. Se consideriamo chi è stato e chi è Ignazio La Russa, che non difende l’universalità del simbolo della statua, ma gesuiticamente ne elimina la questione, abbiamo chiara la situazione del disastro morale. Un’altra proposta è di “nasconderla” nel giardino della clinica Mangiacalli. Presto qualcun altro proporrà il cimitero monumentale. Forza, gente, forza, proponi altri nascondimenti! L’ipocrisia non è stata mai in svantaggio con la sincerità. Ma se una statua può essere motivo di contestazione e divisività, che accadrebbe se si vedesse in natura una donna allattare in pubblico il suo bambino? Siamo passati da quando le donne tiravano fuori con fierezza le mammelle e allattavano ovunque si trovassero i loro bambini alle donne che si vergognano della maternità, come se avessero commesso un delitto. Siamo passati da quando le donne andavano in giro tirandosi dietro quattro-cinque pargoletti, uno attaccato all’altro e il primo alla gonna della mamma, ad oggi con le donne che provano fastidio a farsi vedere mentre spingono un lussuoso passeggino, adempimento che quasi sempre lasciano ai mariti, i soli che ancora esibiscono con orgoglio i figli. Qui non si tratta più di mode, non è questione di gonna lunga, corta o mini, qui si mettono in discussione le leggi di natura, di civiltà. Oggi si ritiene che la maternità è rispettabile ma non universalmente condivisibile. Se il trend continua finirà che la maternità diventerà esecrabile e punibile, che si darà la caccia alle donne gravide come una volta alle streghe. E quel che è peggio è che a tutto questo si arriverà per il collasso morale e ideologico dei cosiddetti normali, di quelli che dovrebbero battersi per il trionfo dei valori millenari. Anche tu…, disse Cesare a Bruto che si apprestava a pugnalarlo. La storia si ripete sempre, anche se in modi e forme diversi.

sabato 6 aprile 2024

Sul caso Ilaria Salis...i soliti italiani

Ilaria Salis è un’insegnante di Monza, comunista di trentanove anni. Amava passare i weekend andando in giro per l’Italia e l’Europa a menar le mani dove c’erano fascisti o nazisti da pestare. Lo faceva in maniera professionale, con un manganello retrattile che teneva nello zainetto e con l’equipaggiamento dei picchiatori nomadi. Era già finita nelle attenzioni della polizia italiana ed era stata già condannata per quei reati tipici degli scontri di piazza, resistenza a pubblico ufficiale et similia. L’anno scorso, con altri comunisti italiani, arrivò fino a Budapest, in Ungheria, dove ogni anno si svolge una manifestazione patriottica, il «Giorno dell’Onore», per ricordare la fermata dell’Armata Rossa da parte di alcuni reparti nazisti nel corso dell’ultima guerra mondiale. L’Ilaria fece quel ch’era andata a fare. Aggredì il corteo dei neonazisti e si azzuffò con loro. Fu arrestata dalla polizia intervenuta per riportare l’ordine pubblico. Da allora è in carcere. Quando va in udienza, una poliziotta la tiene al guinzaglio, mani e piedi incatenati. Lei guarda di qua e di là come incredula e smarrita; a tratti accenna un sorriso, con l’aria non di una sofferente ma di una compiaciuta per trovarsi al centro di tanta attenzione. La popolarità, si sa, piace e si comprende benissimo che possa piacere anche a lei, a cui lo starsene quieta quieta in casa, con tutto quello che c’è da fare, compresa la preparazione delle lezioni se, come si dice, è un’insegnante, non piace proprio. Ma, fatti suoi! Ognuno cura i suoi hobby. Di fronte al caso l’Italia si è divisa tra salisiani (attenzione alla i) e antisalisiani. I primi in gran parte li trovi negli studi televisivi, indignati d’ordinanza, a disquisire sui diritti umani; i secondi nei bar a sparare, tra un caffè e uno spritz, bordate contro la Salis, che se l’è andata a cercare. I primi sono incazzati perché il governo non fa niente per liberarla e ricondurla trionfalmente a casa, onusta di gloria; i secondi sono indifferenti ed anzi non disdegnano l’idea che se la possano tenere in carcere fino alla condanna e alla pena. Ça va sans dire, i primi sono di sinistra, i secondi di destra. Poi c’è un padre, che sembra una gran bella persona, dicono, di idee diverse da quelle della figlia, tanto per stare nella forbice. È disperato perché le autorità ungheresi non ne vogliono sapere di concedere all’Ilaria gli arresti domiciliari. Si è rivolto al governo, presieduto da Giorgia Meloni, che è in gran simpatia col suo omologo ungherese Orban, convinto che se la premier italiana gli chiede un favore quello glielo fa, come se si trattasse di una questione tra due capetti della Magliana. Il governo ha fatto i suoi passi nell’assoluta correttezza. I salisiani lo rimproverano di stare più con quelli del bar che con quelli della televisione e di non fare nulla di concreto per liberare l’Ilaria. Il padre si è poi rivolto al Presidente della Repubblica, il quale ha promesso di interessarsene ma sempre attraverso il governo. La situazione non sembra smuoversi, almeno per ora. Tutto quello che si è riusciti ad ottenere sono migliori condizioni igieniche del luogo di detenzione e la possibilità di telefonare a chiunque. Questi, più o meno i fatti. Li conoscono tutti, si dirà, ma repetita juvant. Quel che dovrebbe mettere tutti d’accordo in Italia non è tanto la liberazione di una connazionale detenuta in Ungheria ma il rispetto delle norme europee in materia di detenzione dal momento che all’Ungheria fu concesso l’ingresso in Europa previa conformazione alle sue norme anche in materia di diritti civili. Non è per questo che la Turchia è tenuta fuori? Ci può pure stare che per un tafferuglio metti in prigione una persona, non è ammissibile che quel detenuto venga trattato come un animale, lo esibisci in catene e dopo un anno di detenzione gli neghi gli arresti domiciliari per un reato, la scazzotatura, che in Italia non viene nemmeno rubricato. In un qualsiasi altro paese europeo la Salis sarebbe stata espulsa il giorno dopo e nel frattempo avrebbe organizzato qualche altra spedizione, sempre a pestare fascisti e nazisti. In compenso nel Pd si parla di candidare la Salis e di farla eleggere al Parlamento Europeo. La Schlein per ora dice che la cosa non è in campo. E se mantiene il punto fa bene. Un partito come il Pd non può puntare su candidati improvvisati, come faceva il Partito radicale di Pannella. Già ha perso la tramontana. Se continua sulla strada del candidato alla “Cucchi” dà al suo elettorato un messaggio negativo. I suoi elettori, salisiani o meno, non gradirebbero e sarebbe per il Pd l’ennesimo errore di valutazione della natura degli italiani. Quale dote porterebbe la promessa sposa Ilaria Salis? Il manganello nello zaino. Ma il manganello non era di destra?

domenica 31 marzo 2024

La lezione di Bari

Chi vive in terra di mafia – e la nostra è terra di mafia – sa che è difficile se non impossibile rimanerne immuni. È come stare dal mugnaio senza infarinarsi. Ognuno sa che con la mafia o si è di qua o si è di là. Tertium non datur. In politica, però, ci può essere anche il tertium. Un po’ di anni fa in un bar del mio paese un sospettato locale mi offrì un caffè, come si usa fare per atavico costume. Gli dissi che da lui non lo accettavo. Calò il gelo e tutti i presenti, che quel caffè lo avevano accettato e sorbito, si guardarono sospetti. Posso dire che per questo non sono stato mai sfiorato dalla mafia? No. In tutta onestà non lo posso dire, anche se non so né come né quando sia accaduto. Qualche anno dopo il tipo me lo ritrovai sindaco con tanto di fascia tricolore che mi univa in matrimonio. Mi porse la mano, ricambiai per non incorrere in vilipendio di pubblico ufficiale. Il caso di Bari è emblematico. Le massime autorità politiche e amministrative della Città e della Puglia ammettono che nella nostra regione c’è la mafia e che è potente. Tanto potente che se c’è un po’ d’ordine a Bari è perché comanda lei. Ha detto lo storico medievista Franco Cardini, che all’Università di Bari ha insegnato per sei anni nella seconda metà degli anni Ottanta, intervistato da un giornale, che “Dove la malavita impera l’ordine è massimo, […] perché il criminale per potere operare ha bisogno di ordine, di tranquillità. È un potere parallelo che deve agire”. Decaro è andato in giro con un faldone da guinnes dei primati per dimostrare quello che tutti sanno, che lui si è sempre distinto in questo alto impegno civile e che perciò vive con la scorta. Il presidente della Regione Emiliano ha voluto strafare per dimostrare che lui la mafia non solo l’ha combattuta da magistrato ma la tiene in pugno come uomo delle istituzioni, presentandosi a casa di una sorella di un noto boss in carcere per “raccomandare” il rispetto di Decaro quando questi era assessore ed era stato minacciato. La verità che vien fuori è che a Bari la mafia e la pubblica amministrazione hanno trovato un entente cordiale nonostante l’impegno sia di Decaro che di Emiliano di combatterla. L’arresto di più di 130 persone, in vario modo legate alla pubblica amministrazione, è più che sufficiente per non avere dubbi su questo. Cercando nei rigagnoli della società minuta, troviamo una funzionaria della prefettura che si rivolge ad un mafioso per avere l’auto che le era stata rubata. Che cos’è, non è forse mafia? Due vigilesse, che si rivolgono ad un mafioso per fare giustizia di un’offesa ricevuta da un balordo, che cos’è? Via, non facciamo finta che certe cose non le sappiamo. E chissà quanti altri casi di mafiosa quotidianità! Il riconoscimento alla mafia o alla malavita di una funzione “giudiziaria” è la prova più grave che la mafia scorre nelle vene e nelle arterie della società come il sangue nel corpo umano. Siamo in campagna elettorale e Decaro è candidato alle Europee per il Pd. Lui dice – e con lui l’universo del centrosinistra – che l’iniziativa degli ispettori del Ministero degli Interni per vedere se ricorrono le condizioni per lo scioglimento del Consiglio Comunale cittadino, è un atto di guerra, compiuto dal centrodestra che è al governo, mirato a colpire le forze politiche del centrosinistra, che senza l’ispezione ministeriale avrebbero vinto in scioltezza le elezioni. L’ex magistrato di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, in un’intervista ad un giornale sul caso Bari, ha detto che l’ispezione è stato un atto doveroso e che “a Decaro hanno aperto la strada per una sicura elezione alle Europee”. Se queste sono le premesse ha ragione Di Pietro. Lo si è visto nella grandiosa manifestazione di solidarietà a Decaro da parte della popolazione di Bari. È la stessa dell’entente cordiale di cui si parlava. Se Decaro ha combattuto la mafia – e l’ha combattuta! – ed essa ha prosperato, come si riconosce, vuol dire che a Bari c’è una pax, in nessuna parte certificata, che garantisce reciproco vantaggio. Un qualsiasi cambiamento potrebbe scatenare reazioni imprevedibili fino al ritrovamento di un nuovo equilibrio, come è successo nel passato. Perché la mafia – lo dice la sua storia – se non puoi batterla te la devi fare amica. Veramente è pensabile che se a Bari vince il centrodestra, sim sala bim, la mafia sparisce, l’ordine regna come nella mitica età dell’oro? Non si tratta di essere rassegnati a dover convivere con la mafia ma di avere la consapevolezza che la mafia è nelle piccole e nelle grandi operazioni. Per batterla bisogna iniziare proprio dalle piccole. Se ti rubano l’auto, vai dai Carabinieri. Se ti offendono o minacciano, vai all’avvocato. Cercare scorciatoie con certa gente è delittuoso due volte, tanto più se rappresenti le istituzioni.

sabato 23 marzo 2024

Ci stiamo sottomettendo

A Pioltello, nell’hinterland milanese, un istituto scolastico inferiore ha deciso di chiudere la scuola per un giorno per festeggiare la fine del Ramadan (digiuno) secondo tradizione islamica. La ragione è che in quell’istituto la popolazione scolastica è divisa quasi fifty-fifty tra islamici e cristiani. Il ministro Matteo Salvini, leader della Lega, ha fatto l’ennesimo tweet indignato e ha rimediato gli ennesimi insulti. Il ragionamento che vien fatto è di una semplicità elementare: gli islamici nel corso dell’anno osservano tante tradizioni cristiane: Natale, Pasqua e feste comandate; è giusto che i cristiani almeno una volta all’anno osservino quelle islamiche. Che siamo in Italia e non in un paese arabo è un dettaglio di nessun conto. Gli islamici hic sunt et hic manebunt optime. Lo dico senza ironia o doppio senso: che sia giusto non so, che così è ormai è fuori discussione. C’è una slavina ideologica che vien giù e volerla fermare con le mani, come fa Salvini, è ridicolo oltre che pericoloso. Dico slavina perché se Salvini si guarda intorno non vede che gente indifferente, che anzi ritiene normale se non auspicabile che il Paese vada verso una direzione multiculturale, multietnica, multitutto. E poco o pochissimo conta che anche un Giovanni Sartori, politologo illustre, era contrario alle multicose. I grandi cambiamenti iniziano sempre così. All’inizio si dice: ma cosa vuoi che sia qualche islamico in Italia! A te personalmente che fastidio o danno ti fa se due maschi o due femmine, coppie di fatto, adottino un bambino? E così via con altre aperture o licenze, permessi e tolleranze, a volte contrarie alla legge. Ma, siccome il cervello è fatto per pensare, a volte bene a volte male, sono sempre punti di vista, mi chiedo se per caso di qui a qualche anno, sempre per il principio che ognuno ha diritto al rispetto delle proprie tradizioni, lo stesso non accada per tante altre tradizioni islamiche, compresa la bigamia, compresi i matrimoni combinati e tante altre abitudini che non solo sono diverse dalle nostre ma con le nostre confliggono. Allora si dovranno fare due costituzioni, una per gli italiani e l’altra per gli stranieri. Perché qui, in Italia, non è consentito avere due mogli, massimo qualche amante, mentre per gli islamici è a disposizione l’harem se se lo possono permettere. A Monfalcone, provincia di Gorizia, a due passi dal confine con la Slovenia, si ha l’impressione andando in giro di trovarsi a La Mecca, tanti sono gli arabi, regolarmente vestiti all’araba, che s’incontrano per strada, in piazza o nei locali pubblici. Già qualche italiano incomincia a vivere un po’ di disagio vestito alla europea. Ci sono luoghi di grande aggregazione, come piazze e stazioni ferroviarie, che sono talmente piene di gente di colore (termine lessicalmente modificato) che tu pensi, come primo impatto di essere in Africa, come successe a me qualche anno fa uscendo dalla stazione di Brescia per andare a fare il commissario alla maturità in una scuola di colà. Lo spettacolo è indecoroso: persone di colore sdraiate sotto gli alberi, altre sui muretti, altre affaccendate in non si sa quali confabulazioni. Nel bel paese, famoso nella storia e nel mondo, per il gusto estetico e le opere d’arte, passano come situazioni normali scene che deturpano, a prescindere da ogni altra considerazione, il paesaggio urbano. Il processo di deidentificazione non si ferma per ora, non è neppure contrastato, anzi. Chi accenna a qualche flebile lamento è tacciato di razzismo, di fascismo e di non so quanti altri reati d’opinione. Si va verso un paese completamente diverso, che diverrà, se già non lo è, estraneo alla nostra storia, alla nostra civiltà. C’è voluto del tempo, tante tragedie nazionali, tante resistenze, ma alla fine siamo sulla strada giusta, in direttiva d’arrivo. Non è solo l’Italia in gioco, evidentemente, ma l’intera Europa occidentale. L’Europa laica, da anni ormai soggiogata alla cultura francese, che rifiuta le radici cristiane, sta facendo tabula rasa delle peculiarità nazionali, della bellezza delle sue contrade, sta svendendo il suo immenso patrimonio di civiltà alle economie globalizzanti e in cambio di merci e di soldi punta a fare un solo mondo. Ci dobbiamo tenere tutti gli stranieri nei nostri paesi, quanti ne arrivano arrivano, per gli interessi che abbiamo noi europei nei paesi della loro provenienza. Ora, quando si è davanti a fenomeni del genere, si può anche essere per il quieto vivere. E mo’, le cose vanno così, pazienza! Eh no. La storia dice, non insegna, perché non insegna un bel nulla, che tutti i fenomeni degenerativi, prima o poi, esplodono nel disastro.

sabato 16 marzo 2024

Comunisti? Punto e daccapo!

Un indizio è un indizio, diceva Agatha Christie, due indizi sono due indizi, tre indizi sono una prova. A distanza di oltre mezzo secolo gli studenti di sinistra, chiamiamoli così, pur sapendo che non tutti sono studenti, hanno occupato le università. Entra e parla chi vogliono loro, gli altri se ne vanno con la coda fra le gambe per evitare il ritorno alle spranghe di ferro e alle chiavi inglesi. Ma se continuiamo di questo passo si arriverà anche questa volta agli scontri violenti. E allora la colpa sarà come sempre dei fascisti, tanto più che oggi sono al governo. Ne ha dato prova la professoressa dell’Università La Sapienza di Roma Donatella De Cesare, la quale ha chiamato squadristi alcuni giovani che in silenzio prima di una lezione le hanno fatto vedere i volti di quelli ammazzati dalla terrorista Balzerani della quale lei, in occasione della di lei morte, aveva detto di aver condiviso la stessa rivoluzione. Erano giovani innocui di Forza Italia, niente da paragonare a quelli che prendono di peso e cacciano via l’indesiderato ebreo o fascista dall’università, dalla scuola o dalla piazza. Questa volta la motivazione delle occupazioni è la Palestina, che a loro pensamento merita di occupare tutto il territorio dopo aver buttato nel Mediterraneo e nel Giordano tutti gli ebrei, i maledetti ebrei. È toccato al giornalista Davide Parenzo essere impedito di parlare, poi al direttore di “Repubblica” Maurizio Molinari. E sempre per lo stesso motivo: siete ebrei! Non ne avete il diritto! E dire che tutti questi padroni del campo sono sono vissuti di rendita in tutti questi anni con la Shoah e tutto il resto dell’armamentario sionista. Ai paradossi delle sinistre siamo ormai abituati. Ti pestano i piedi e ti accusano di aver messo i tuoi piedi sotto i loro. Manco il comico Franco Franchi nella scena di un film parodistico sul far west. È violenza solo quella che subiscono loro, quella che producono loro è manifestazione di libertà. Se in qualche università interviene la polizia per far rispettare la legge e la libertà di tutti e vola qualche manganellata ecco che insorgono le sinistre cosiddette democratiche, legalitarie a dar man forte ai violenti e agli estremisti. È un gioco che conosciamo molto bene. La giustificazione ce l’hanno, è sempre la stessa: hanno vinto, erano dalla parte giusta, per cui chi era dalla parte sbagliata deve tenersi le violenze e le angherie come cosa normale, democratica, pedagogica. E se le mazzate le prendono sul groppone, devono stare zitti, perché la colpa di chi li pesta è sempre loro che continuano a voler stare ancora dalla parte sbagliata. Questi maestri del pensiero distorto nulla dicono sull’aggressione russa all’Ucraina. Sono nostalgici della Russia sovietica e in Putin vedono il loro Stalin, il loro Kruschev, il loro Breznev. Hanno fermi gli orologi al mito del comunismo universale, a Trotzky. Si scoprono ammiratori di papa Francesco, che invita gli ucraini ad alzare bandiera bianca davanti alla Santa Madre Russia e inneggia al cristianesimo pauperista che per silloggismo d’osteria s’identifica col comunismo. Non sono rigurgiti i movimenti estremisti di sinistra dei giorni nostri. Ormai i centri sociali sono presìdi urbani fissi che all’occorrenza scatenano violenza, oggi assai più motivati di quelli di ieri, forti delle truppe Lgbt, femministe ed anarchiche. Essi non hanno mai smesso di tenere le città in disordine, di infrangere vetrine, di bruciare auto, di minacciare anche fisicamente le persone. Per ora le cose sono sotto controllo, neppure se ne parla di interventi per riportare l’ordine e la libertà nelle università. Probabilmente è il prezzo da pagare per evitare che l’intervento legittimo, doveroso, delle forze dell’ordine crei nuove speculazioni politiche. Ma se puta caso qualche esponente del centrodestra volesse tenere una conferenza in qualche università occupata che accadrebbe? Quello che accadde alcuni mesi fa quando gli studenti estremisti impedirono di parlare al giornalista Capezzone. Intervenne la polizia e volarono le manganellate. Subito si gridò alla repressione del governo, non degli studenti occupanti. Un governo, come quello di Giorgia Meloni, è nato con lo stigma della forza, per cui basta qualche manganellata della polizia a difesa della legalità che subito si grida al lupo al lupo fascista. C’è sempre chi ascolta gli allarmi e li traduce in polemiche contro il governo. Che di fronte a sé ha due strade: non fare niente in difesa della legalità, ed è il quieto vivere; o fare quel che deve fare, ed è il…fascismo. Scegliete voi.

sabato 9 marzo 2024

Imprese d'Italia: dossieranti e dossierati

A parti invertite, cosa avrebbero detto le sinistre a proposito del dossieraggio su personalità prevalentemente di centrodestra se i dossierati fossero stati prevalentemente di centrosinistra? Non sappiamo, ma possiamo immaginarlo. Avrebbero gridato all’avanzato stadio di autoritarismo fascista da parte del governo Meloni, tra spionaggio e manganellismo, e avrebbero gridato all’Ovra e ai tribunali speciali. Invece si sono limitate a dire, un po’ imbarazzate, che non si tratta di dossieraggio. Nooo? E allora, di che si tratta, di raccolta di figurine Panini? La famosa casa editrice sta lanciando una nuova raccolta, quella dei politici e dei personaggi del centrodestra? Se è così, mi prenoto per un album da riempire. Le spiate risalgono a pochissimi anni fa, quando si profilava per la destra una crescita importante. Fino a quel momento il centrosinistra si era sentito al sicuro. Era bastato l’antifascismo a renderlo invulnerabile. Ma quando si accorse che Annibale era alle porte, pensò subito di correre ai ripari. Il mezzo più collaudato per fermare il centrodestra, contro cui l’arma dell’antifascismo era spuntata, era lo spionaggio, lo scandalo, l’inchiesta giudiziaria. Il resto sarebbe venuto da sé. In quest’operazione, oltre alla solita talpa, si è particolarmente distinto il quotidiano “Domani” dell’ing. Carlo De Benedetti, il quale ad un certo punto licenziò il troppo molle Stefano Feltri e ingaggiò alla direzione il duro Emiliano Fittipaldi, esperto giornalista d’inchiesta. Chissà perché De Benedetti ce l’ha tanto con la destra da investire un po’ di soldi per fondare un giornale destinato a scomparire entro…domani. Fu nell’ambito dell’odio debenedettiano che uscirono alcune indiscrezioni sulla mamma e il papà di Giorgia Meloni, poi finite in un nulla di fatto. Chi sa di politica non si sorprende più di tanto. La politica è guerra senza armi. E un detto francese vuole che “à la guerre comme à la guerre”. Quando a scuola si studiava la storia lo sapevano tutti che era così da sempre e nessuno si stupiva di un colpo scorretto, di una promessa non mantenuta, dell’uso dei giornali, della propaganda, non per informare ma per malformare. Oggi non ci sono in Italia grandi leader politici. Ogni tanto ce ne ricordiamo. Ci sono i surrogati. I veri leader sono le Gruber, le Berlinguer, i Floris, i Porro, i Giordano, gli Amadeus, i maestri del fumo e dei fumogeni. Ma guai se glielo dici o glielo fai lontanamente capire. Sono talmente permalosi da scatenare una rissa in diretta, arroccandosi dietro la libertà dell’informazione e della loro neutralità adamantina, perché questa gente è davvero convinta che gli altri sono così allocchi da non capire con chi hanno a che fare. Ora, raccogliere notizie sui singoli cittadini è normalissimo compito degli organi preposti in una cornice di legalità. Lavorano per la sicurezza dello Stato e dei cittadini. A maggior ragione sono attenzionati i politici, i quali, nel bene e nel male, quel che fanno interessa l’intera nazione. Niente perciò di cui meravigliarsi se si scoprono i dossier. Ma si dà il caso che nella fattispecie i mandanti a spiare gli uomini del centrodestra non sono proprio quelli dell’intelligence di Stato, ma forze politiche avversarie, e le notizie non le raccolgono per la sicurezza nazionale, ma per colpire avversari politici. E allora, pur senza farci venire mal di cuore per la rabbia, osserviamo che quando la lotta politica arriva a questo punto la situazione è grave. Matteo Renzi, vittima del dossieraggio in parola, ha evocato, come fece Giacomo Matteotti cento anni fa alla Camera per ben altri soprusi, le metodiche in uso delle dittature sudamericane. Non è ammissibile che in democrazia si possa colpire un avversario politico con armi improprie come la delazione e la diffamazione realizzate attraverso attività illecite. Quando ciò accade gli argini stanno per cedere. L’Italia, che troppo spesso cita le sudamericanate per stigmatizzare certi comportamenti, farebbe bene oggi a prendere di petto questo problema prima che il poco gradito marchio d’eccellenza passi dal Sud America a lei. I cittadini devono sentirsi al sicuro dalla vigilanza delle forze di sicurezza e non esposti a sempre possibili sputtanamenti o ad accuse il più delle volte inventate che, però, prima di dimostrarlo che sono inventate, producono guasti. Che tra gli spiati ci fosse anche qualche sparuto personaggio non riconducibile all’area politica di destra e alcuni rappresentanti del mondo dello spettacolo e dello sport, che nulla c’entrano con la politica, può far pensare ad un tentativo di depistaggio. E infatti Giuseppe Conte, tra i pochi “attenzionati” non di destra, ha detto: e allora io?

sabato 24 febbraio 2024

La dittatura del politicamente corretto

Vige oggi in Italia la “dittatura” del politicamente corretto. Che cos’è? Vittorio Feltri ha scritto un libro per spiegarlo, “Fascisti della parola”. Fascisti, ovviamente gli altri. Più che cosa è, è interessante sapere dove sta: sta a sinistra, a destra neppure per l’anticamera. È l’osservanza del galateo politico affermatosi nei lunghi anni di dominio del centrosinistra. Esprime una cultura pretenziosamente igienizzante. Mai pane al pane e vino al vino. Parole, espressioni, che sostituiscano la realtà delle persone e delle cose, neutralizzandone i caratteri. Dopo la morte di certi valori del passato, affogati nella Stigia antiideologica, il vuoto è stato riempito da una sorta di piatta, mortifera e sciapa ideologia del nulla. Che non è nichilismo, ma artificiosità. Questa si è diffusa come la gramigna, erba infestante che non consente altra vegetazione tutt’intorno. Così il pensiero unico del politicamente corretto non consente la nascita di altri pensieri e di altre parole. È un linguaggio artificiale, con cui si vuole riportare tutto in una sorta di formulario, come una volta nelle curie. Una regressione incredibile se si pensa che per il padre Dante – per carità, nessuna allusione ad avi della destra – l’italiano elaborato settecento anni fa nel suo “De vulgari eloquentia”, doveva essere illustre, cardinale, aulico e curiale, adatto ad ogni ambito e forma di comunicazione. Col politicamente corretto siamo ridotti al solo curiale. Ne ha subito il danno più grave la scrittura. Essa una volta tirava fuori l’anima dello scrittore e descriveva la realtà vera, libera, creativa, brillante, vivace, con tutti i suoi infiniti colori e le tante sfumature. Oggi è ridotta al tristissimo grigio del monotono e scontato. Ci immaginiamo i Papini, i Prezzolini, i Montanelli, i Malaparte, i Longanesi, i Flaiano, i Pasolini, la Fallaci scrivere tutti in politicamente corretto? Non c’è più un giornale che abbia gli elzeviri, un articolo che informi e diverta, uno scrittore che sappia esprimere un concetto fuori dall’ordinario. Un nuovo Concilio di Trento si è abbattuto sulla cultura, che deve osservare le rigide disposizioni dei nuovi Bellarmini. Quel che è più grave non è la sorveglianza di chi deve scovare l’eretico e colpirlo ma la spontanea pratica del conformista che punta i reprobi che non ci stanno e li guarda in cagnesco. Si dice che è esagerato parlare di dittatura, che è addirittura offensivo per tutti quelli che la dittatura l’hanno vissuta davvero sulla loro pelle, col carcere, con la deportazione, con la tortura e con la morte. Io l’ho messa tra virgolette. Ci mancherebbe altro! Esagerato anche parlare di Trento e della Santa Inquisizione. Nessuno oggi corre il rischio del rogo. Ma resta che disattendere le “verità” indiscutibili della nuova ideologia comporta, a seconda dei casi, perfino il codice penale e sempre la discriminazione delegittimante di fascismo, di razzismo, di sessismo, di patriarcato, a tutti i livelli, in tutti gli ambienti, in tutte le circostanze, ovunque ti trovi. Guai ad esprimersi con parole o concetti che possano essere lontanamente diversi, critici o eretici. Bisogna stare attenti attenti (due volte). Meno male che da professore sto in pensione, se no come me la caverei a scuola col dolce stilnovo, il sessismo pseudoangelicato? Che direi della scorrettezza dell’imperatore Carlo che voleva assegnare Angelica al paladino che più si fosse distinto in battaglia? E che cos’era l’Angelica, una decorazione? Ma andiamoci piano pure col Decalogo. Onora il padre e la madre è fascismo puro, è patriarcato. Non desiderare la donna d’altri è maschilismo. Vuoi scherzare? La donna non è di nessuno. E poi, perché non vale anche non desiderare l’uomo di altre? Non osservare il politicamente corretto si è maleducati? Maleducati proprio no, ma qualche problema si pone. Una cosa è comunicare all’interno delle istituzioni un’altra è comunicare liberamente in ogni altro luogo. Nelle istituzioni il linguaggio deve essere gessato per non prestarsi ad equivoci, fuori deve rispondere ai criteri di sempre, essere utile e piacente e soprattutto saper essere personale pur nella primaria funzione di comunicare chiaro e comprensibile. Ovvio che non si tratta tanto di parole, si sa che verba sunt consequentia rerum, ma di persone, di cose e di fatti, che le leggi stabiliscono come esprimerli, per cui una cosa, un fatto, una persona non puoi che indicarli in una codificata maniera. Più aumentano le cose, gli spazi, i fatti e le persone che devi indicare come impone la legge e più si riduce la libertà di pensiero e di parola dell’individuo.

sabato 17 febbraio 2024

Aldo D'Antico, il visionario di Parabita

Il 31 gennaio scorso è morto a Parabita Aldo D’Antico. Insegnante, scrittore, editore, operatore culturale. Aveva 77 anni, molti dei quali vissuti nell’impegno sociale più vario, soprattutto promotore e organizzatore di eventi oltre che di strutture culturali, come biblioteche, musei, premi. C’era in lui come un invasamento che gli faceva superare tutte le difficoltà che un volenteroso incontra in questa nostra terra così avara di comprensione e di risorse. Le sue molte iniziative testimoniano di un’intelligenza visionaria che si appagava financo del germoglio, se pure la pianta non giungeva a frutto. Era insaziabile. Avrà raccolto diverse decine di migliaia di libri, in gran parte per donazioni, fra cui i fondi di Gino Pisanò e di Leandro Ghinelli. Può essere anche di altri. Quando sapeva che qualcuno aveva intenzione di liberarsi dei libri e non solo, arrivava lui e portava via tutto nel Palazzo Ferrari, a Parabita, ultima sede delle sue numerose iniziative, librarie e museali. A me soffiò una bella raccolta de “il Borghese”, il settimanale fondato da Leo Longanesi e diretto per anni da Mario Tedeschi. Mi precedette di poco. Che espressione brutta “liberarsi dei libri”! A lui non piaceva, ma ne traeva giovamento. “Dateli, dateli a me, quanti sono sono!”. In realtà giunge sempre il momento in cui i libri diventano un problema. Accade quando diventano ingombri. La lettura è come una bella donna, la ami, la accudisci, la rendi perfino più bella e affascinante per anni e anni, i libri sono le sue dolcezze; poi arriva il momento che te ne devi staccare e ti preoccupi di lasciarla. A volte i figli, volti ad altre discipline, non sanno che farsene della biblioteca paterna. Sì, non è una bella espressione ma può arrivare il momento che non sai davvero come liberarti dei libri e anche di altri oggetti che con tanta cura e tanti soldi hai accumulato nel corso della vita. Verrebbe di fare come il Mazzarò verghiano, che giunto a vecchiaia e prossimo a morire voleva portarsi appresso la sua roba. I libri richiedono molto spazio e molto ordine. Senza ordine essi non hanno nessun valore, sono ingombri, neppure molto igienici. Alla voracità della raccolta Aldo non riusciva a far corrispondere un adeguato ordine. E come poteva? Chi li digitalizzava e sistemava negli scaffali? Spesso rimanevano accatastati. Così le riviste. Non aveva personale. Si faceva aiutare da ragazze e ragazzi volenterosi saltuariamente. Accarezzava l’idea di un centro di lettura e di studio grandioso, ma spesso non sapeva neppure se un libro lo avesse o meno e se lo aveva dove trovarlo. Nei nostri paesi biblioteche ed archivi sono le strutture più penalizzate, spesso non hanno neppure un addetto, figurarsi un bibliotecario o un archivista! Aldo ha messo su una biblioteca che il Comune di Parabita fa male a non acquisire e ordinare con professionalità. A lui auspicabilmente verrà intitolata una via o un edificio; ma assai più proficuo sarebbe portare a compimento il suo lavoro. Sarebbe il riconoscimento più importante e più bello. Fra le tante iniziative Aldo pensò anche di creare un premio, il Mercurio d’Argento, perché secondo lui è importante che a chi si distingue per il bene della collettività venga riconosciuta un’attenzione sociale particolare. A egregie cose… Era così lui: idee interessanti e grandiose in condizioni modeste. Anche qui per mancanza di soldi. Ma lui non si scoraggiava, era convinto della bontà dell’iniziativa e tanto gli bastava per continuare, per progettare nuove imprese. Le pubblicazioni della sua casa editrice sono delle vere chicche e hanno fatto conoscere personaggi e fatti della sua Parabita. Autentico democratico, era un meridionalista passionale e acceso. Numerose le presentazioni di libri, conferenze e dibattiti pubblici da lui organizzati, cui partecipavano intellettuali di tutte le fedi ed orientamenti politici. Era invaghito del Sud, della sua terra, perfino dei Borbone, la cui opera non è stata certamente meritoria; perfino dei briganti, che per dieci anni dopo l’unificazione tennero il Paese nel travaglio di una sanguinosa guerra civile. Tutto ciò che riguardava il nostro Sud era per lui qualcosa di sacro, un valore non negoziabile. Così anche Borbone e briganti, che, secondo lui, andrebbero considerati in un’ottica diversa. Anche in politica, coerentemente col suo carattere e le sue idee, si appagava del confronto e non smetteva mai di credere di essere nato nel posto più bello del mondo, il Salento, "non per voler ma per fortuna".

domenica 11 febbraio 2024

La catastrofe di Sanremo

La Rai ha cantato per giorni e giorni l’epopea di Sanremo, come mai aveva fatto prima, insistendo sugli ascolti stellari, quasi totalitari, di dittatura mediatica. È come se per cinque serate si fosse trasmesso in Italia a reti unificate. Share neppure per il Presidente della Repubblica in ricorrenza del messaggio agli italiani di fine anno! L’azienda è soddisfatta per le entrate pubblicitarie. I soldi fanno dimenticare perfino le cose di Dio, figurarsi i guai degli uomini. Amadeus ha cantato “Bella ciao”, la password per prevenire la sinistra da qualche attacco, e ha parlato delle foibe per par condicio o perché gli è stato detto di farlo. Non fosse stato per i trattori, minaccianti di marciare sull’Ariston, l’Italia sarebbe apparsa come un paese favoloso, immaginario, il regno di Bengodi, dove si canta, si suona, si ride, si balla, si chiacchiera tra abbracci e baci sempre più omo. La gara canora in sé è passata in secondo piano: trenta concorrenti, la maggior parte dei quali innominabili, coi loro nomi d’arte strani e stravaganti, dal valore… boh! Amadeus, il conduttore televisivo, il conducator, il duce meriterebbe che gli fosse tributato il trionfo, come a Cesare di ritorno dalle Gallie. Vince la lotteria degli ascolti dopo essersi “comprati” tutti i biglietti. E vorrei vedere! Il suo trionfo è la catastrofe dell’Italia televisiva. Se il 74% degli italiani ha preferito seguire Sanremo su Rai Uno vuol dire che sulle restanti reti non c’era niente che valesse la pena di vedere. Gli è stato compagno, come nelle precedenti edizioni di Sanremo, Fiorello, l’altro duce della chiacchiera continua, che ha scambiato il mondo per un palcoscenico di minchiate. Dice Cazzullo, l’altro duce, questa volta della carta stampata, che Amadeus non è di sinistra. Probabilmente neppure Fiorello lo è. Ma che immagine danno della “non sinistra”, ossia della destra, questi due compari della più colossale mistificazione della realtà e della vita? Sicuramente i due sono antifascisti. Così per dire, s’intende. Per loro non esiste altro che lo spasso, il divertimento becero, la presaperilculo, le situazioni goliardiche, lo sfoggio di menefottismo alternato al solidarismo per i deboli, per gli sfortunati, per i casi di dolore e di sofferenza. È indecente mischiare il dolore col piacere, la preoccupazione con la spensieratezza. Significa mancare di rispetto non solo ai sofferenti, a chi ha problemi con la vita, ma a tutto l’intero Paese, la cui immagine esce deturpata. La tribuna d’onore quest’anno era occupata dal principe Ranieri di Monaco, venuto forse per vedere come si svolge un evento che al suo Principato andrebbe a pennello. E chissà che non abbia fatto un pensierino. Ma il suo Principato vive di divertimento e di turismo. Noi no! Noi abbiamo a che fare con l’Europa e con la Nato, con le guerre in Ucraina e in Israele, con la pirateria nel Mar Rosso, con l’economia di lavoro e di produzione, con le riforme strutturali delle regioni, della giustizia, con la sanità pubblica al collasso e con una montagna di problemi giornalieri. Questo è il secondo anno che Fiorello conduce “W Rai Due”. La gente si alza la mattina presto per non perdersi lo spettacolo, perché ama divertirsi e ridere, farsi selfie col personaggio che incontra. La Rai lo pubblicizza infinite volte al giorno e qualche volta fa passare il pubblico da scenari di guerra, di morte, di distruzione, di bambini morti e feriti alle maschere ridanciane di Fiorello e compagni. Un’operazione di svuotacervelli. Ma questa gente arriva o non arriva a fine mese? Ce la fa o non ce la fa a non morire prima che la sanità pubblica lo curi? E come si comporta con l’aumento dell’inflazione che svuota i carrelli della spesa? Ma questa gente ride per non pensare o non pensa per poter ridere di più gusto? L’Italia vera non può essere quella sanremese, col governo Amadeus-Fiorello che dispensa stordenti gratis, droghe audiovisive, allucinazioni. La Rai è responsabile di alterare la realtà del Paese, di “maleducare” i cittadini, di non saper fare nulla di interessante, di istruttivo, di educativo. Nel corso del festival sono state date matite per votare, un invito a non disertare le urne il 9 giugno. Si è detto un invito ai giovani. Ma votare per cosa, per chi? Perché l’Italia continui a produrre chiacchiere? Invitare la gente a votare nel gran bailamme festivaliero è un messaggio subliminale a votare per l’esistente, ossia per un’Italia godereccia e permissiva, quale ci hanno lasciato in eredità decenni e decenni di cultura cattocomunista. Il governo Amadeus-Fiorello è destinato a durare con altri ministri.

sabato 3 febbraio 2024

Meloni e la destra del risentimento

Una delle accuse più ricorrenti a Meloni & C. è di essere risentiti e arroganti, di non avere i modi del bon ton, che in politica non è solo forma, di essere sempre pronti alla rissa, come se stessero ancora all’opposizione. Se tanto si dice, qualcosa di vero c’è; inutile negarlo. Il problema è chiedersi perché. La risposta non può essere che nel percorso fatto dalla destra a partire dal dopoguerra, che copre il cinquantennio fino al cosiddetto sdoganamento del partito erede del fascismo secondo la vulgata berlusconiana. A questo partito, in quanto erede del fascismo, si attribuiva tutto il male e solo il male. Intellettuali, scrittori, scienziati, economisti, giuristi, artisti, imprenditori, che erano stati fascisti, tutti negativi, da dimenticare, anzi, da non nominare nemmeno. Vent’anni di storia cancellati, maledetti. Perfino D’Annunzio era da ridere, per non parlare dei futuristi, sbeffeggiati a scuola, durante le lezioni di storia dell’arte, come persone stravaganti e violente. Talché il giovane che per oneste e spontanee ragioni militava in quell’area politica si andava convincendo di essere un disadattato, figlio di un dio minore. I giovani di quella tendenza politica erano arrivati perfino a mettere in dubbio le proprie capacità di fare politica a livello amministrativo come i loro coetanei democristiani, socialisti, comunisti, liberali e repubblicani. Mentre questi si occupavano di problematiche importanti della vita dei loro paesi, eletti nelle loro liste e nominati sindaci e assessori, gli esclusi di destra finivano per trovare nella protesta sfogo alla loro rabbia e nella storia del fascismo una qualche consolazione. La nostalgia passiva in cambio della partecipazione attiva. Un danno immenso per intere generazioni, a cui è stato impedito di svilupparsi secondo le loro capacità. Era la democrazia, si diceva e si dice. Pochi voti, poche opportunità. Questo però valeva solo per i missini. Per repubblicani, liberali e socialdemocratici bastavano pochi voti e pochi eletti per condizionare le maggioranze. Come giustificare poi il formarsi di assurde coalizioni politiche pur di impedire il formarsi di un’amministrazione di destra? Per cinquant’anni chi era di destra non era “figlio di Dio” e nemmeno “figlio di mamma”, era figlio di…beh, abbiamo capito. Doveva convincersi a lasciare il partito e le idee in cui credeva per avere gli stessi diritti di tutti gli altri. E, a dire il vero, ce ne sono stati tanti che alla fine, stanchi di essere discriminati e vessati, si sono piegati. La Democrazia Cristiana era spesso il refugium peccatorum. Diciamo, senza scomodare parole grosse, come razzismo o apartheid, che, democrazia o dittatura, in politica quando si vuole escludere una parte non c’è scrupolo che tenga. I resistenti, quelli che non si sono piegati o i loro figli e nipoti ora sono al potere. Il risentimento che spesso emerge in taluni di essi ha una sua ragione storica, che non c’è bisogno di essere Freud o Jung per capirla. Il detto latino immitis quia toleravi (cattivo perché troppo ho sopportato) è più che sufficiente. Questo rancore durato per tutto il cinquantennio della belle époque partitocratica ha lasciato il segno. La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni è stata solo sfiorata da quel cinquantennio. Lei viene da un ambiente, dove non si parlava certo di San Domenico Savio o di Santa Maria Goretti, ma nemmeno di preparazione di scontri e agguati, come accadeva negli anni di piombo. Viene dalla politica dura, variamente violenta, fatta di discriminazioni dell’establishment. Viene da un’opposizione sterile, fine a se stessa, come l’aveva resa la partitocrazia arcocostituzionale. Anche in lei, tuttavia, riaffiora il risentimento “ereditario” e molte volte invece di far finta di niente risponde subito, colpo su colpo, come se in lei parlasse il missino discriminato, il giovane del Fronte della Gioventù sprangato. “Adesso le carte le dò io” non è una bella espressione, ma nella banalità dell’avverbio c’è tutta una storia. Ciò nonostante è innegabile che in poco tempo la Meloni abbia dato di sé un’immagine complessivamente positiva, come le è riconosciuto in tutto il mondo. Si è adeguata al ruolo e anzi deve stare attenta a non dare di sé un’immagine troppo imborghesita. C’è una destra a cui non piace l’imborghesimento. Ha dimostrato l’aspetto buono della politica, la capacità di adeguarsi al possibile. Ha messo da parte molte sue priorità elettorali per una politica improntata alla pragmaticità e alla concretezza. Non ha fatto finora grandi cose, ma ha dato vivacità all’azione e soprattutto ha dimostrato che è stato un sopruso discriminare per cinquant’anni gente assolutamente normale.

sabato 13 gennaio 2024

Elogio della "scorrettezza"

Appare chiaro a tutti che incontrando per strada uno zoppo non lo si saluta dicendo: buongiorno, zoppo. È da cretini il solo pensarlo. Ma che si debba abolire il proverbio “chi va con lo zoppo impara a zoppicare” per non pronunciare la parola in sé offensiva, mi sembra altrettanto cretino. Occorre buonsenso e soprattutto rispetto del prossimo. Basterebbe, a questo punto, il Galateo di mons. Giovanni della Casa, qua e là aggiornato. È il modo di parlare senza offendere, attenti a non dire cosa che possa urtare la suscettibilità di qualcuno. Arte non sempre facile. Nella nostra società, in preda ormai a delirio buonista, l’ipocrisia ha raggiunto livelli che se fosse un fiume diremmo di guardia. Essa è detta, con una formula eufemistica, “politicamente corretto”, che vuol dire non chiamare le cose coi loro nomi se essi sono offensivi. Meglio usare giri di parole. Se il tondo offende, non lo puoi per questo chiamare quadrato. Prima si usava dire “absit iniuria verbis”, senza offesa, e potevi continuare a parlare con aderenza alla realtà. Oggi non ti salva niente e nessuno se ti scappa di dire la verità o di essere sincero. Siccome le parole hanno una loro forza, questo modo di intendere la comunicazione ha trasferito i significati dalle parole ai fatti di riferimento certificandone il falso. Aristotele diceva che le parole sono conseguenza dei fatti, non il contrario. È stato abrogato il concetto di normalità, e dunque anche il nome. Tutti sono normali. Come nella Fattoria degli animali di George Orwell tutti gli uomini sono uguali. La realtà dice altro, ma tu non lo devi dire. Si fa l’elogio del diverso in ogni sua forma. Salvo a ricorrere a medici e specialisti se qualcosa di diversificante insorge a modificarti lo status psicofisico. Estetisti e chirurghi plastici fanno affari d’oro, non si bada a spese pur di rientrare in una normalità d’altra parte negata. Dietro la maschera del buonismo c’è la vera natura umana, che alla detestata normalità ci tiene, altro che. Fare una stroncatura di un libro o di un’opera d’arte è peggio che sparare sulla Croce Rossa o aggredire un paralitico. E se la critica è fondata, non ti salvi lo stesso, anzi è peggio. Quello che dici, lo dici per invidia o per cattiveria. Una volta c’erano giornali e riviste che si intitolavano alla discussione e alla polemica e non c’era periodico che non avesse rubriche del genere, oggi, invece, sono intitolate Lettere al Direttore o Punti di vista. Polemizzare è vietato, stroncare è delittuoso. Nell’apoteosi del diverso, l’unica cosa da condannare è la diversità vera, di pensiero e di espressione. Pensarla diversamente è peccato e reato insieme. Ti devi adeguare al politicamente corretto. Chi non ci sta è osteggiato, bandito, confinato fuori dal consorzio civile. Si rischia perfino il codice penale perché da qualche anno sono previsti i reati di razzismo con tutti i suoi ammennicoli. Se sei impiegato o professore rischi di perdere il posto, se sei un giornalista rischi di essere radiato dall’Ordine, se sei un calciatore rischi l’espulsione, la multa e la squalifica. Insomma, senza perder tempo a gregoriare, chi si permette di essere veramente diverso e di esprimersi di conseguenza è fottuto. Ops; fottuto non si dice. Eppure fino a non molti anni fa si insegnava a scuola a dire sempre la verità, ad usare sempre la parola diretta e appropriata anche per ragioni di economia comunicativa. Improprietà di linguaggio e prolissità erano errori. Se un pensiero può essere espresso con tre parole, è sbagliato usarne quattro, dicevano maestri e professori. Le parole di più – ammonivano – sono del maligno, s’intende il diavolo, che ai miei tempi si temeva. Le bugie hanno le gambe corte, si diceva; allungano il naso. Spaventavano i bambini per non dirle. Alle lezioni di catechismo s’insegnava che dire bugie è peccato mortale. Ho perso l’amicizia di non pochi amici che si sperticavano di elogi nei miei confronti fino a quando ho recensito loro un libro. Nel darmelo, con tanto di dedica, mi dicevano: lo affido a te perché so che tu dici sempre quello che pensi. Ma appena ho detto quel che pensavo, addio amicizia. Di fronte ad un giudizio espresso con franchezza, sincerità e cognizione di causa, non c’è amicizia che tenga. Conosco la storia e so che questa, come tante altre mode, passerà e si tornerà a dire pane al pane e vino al vino. Per ora accontentiamoci, senza tradire la nostra indole, di giocare all’ala, che è il luogo più vicino al bordocampo, pronti ad uscircene. Importante che l’arbitro non ci sbatta fuori prima che inizi la partita sulla base di un sentito dire che abbiamo il vizio di entrare sempre a gamba tesa.

sabato 6 gennaio 2024

Si licet osservare, Presidente

Si licet vorrei fare alcune osservazioni al discorso che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha fatto la sera del 31 dicembre. Ciò non toglie nulla al valore del messaggio, che, come sempre, si è fondato sui più alti valori umani, quali si riscontrano in Italia, in Europa e nel mondo e sulle problematiche politico-sociali che abbiamo vissuto nel corso dell’anno. Non è retorica per riequilibrare successive osservazioni per così dire non in linea. Non c’è impasto che non abbia varietà di materiali, che, presi uno per uno, rivelano caratteri diversi. La prima osservazione è sulla frase del Presidente: “i diritti umani sono nati prima dello Stato”. Un’affermazione che non trova riscontro nella storia. Il concetto stesso di diritto, anche il più naturale, è dentro lo Stato. A partire da quello hobbesiano. Romolo, che traccia il solco entro cui fonda Roma e ordina come si deve vivere, mette in essere lo Stato (uomini, territorio, leggi). Diritti e doveri s’intendono all’interno di quel territorio, valgono per quegli uomini in forza di quelle leggi. Fuori, quegli uomini non hanno né diritti né doveri, non sanno neppure che cosa sono. A volte certe affermazioni danno per scontato un trascorso che non si ritiene necessario indicare. Ma ricordare che al di sopra di tutto c’è lo Stato è importante in una fase, quella che stiamo attraversando, in cui lo Stato non gode né di buona salute né di buona reputazione. Lo Stato è convivenza, è ordine, è sicurezza. Nella solennità di un discorso presidenziale ha un suo posto. Ricordarlo agli uomini che lo rappresentano ai più vari settori e livelli e ai cittadini tutti non è mai un memento superfluo. Qui si aggancia la seconda osservazione. Nel discorso del Presidente non ricorre nemmeno una volta la parola “dovere”. Sembrerebbe che in questo Paese non ci siano più doveri per nessuno. Anche qui, probabile che il Presidente li abbia dati per scontati. Sappiamo da sempre che non ci sono diritti là dove non ci sono doveri. Ricordarlo non è vano, specialmente in una fase di confusione diffusa, in cui gli episodi di sciatteria istituzionale sono quotidiani. La terza osservazione riguarda un passaggio molto bello del Presidente, il riferimento ai ragazzi di Pizza aut., di Casale di Principe e alla gente di Romagna che, mentre lavora nel fango per ricostruire dopo le devastazioni della natura arrabbiata, canta “Romagna mia”. Grande esempio di civiltà, di maturità civica, di socialità dei cittadini encomiati. Sono gli italiani che emergono sempre al momento opportuno. Giustamente gli interessati ne hanno gioito, come se avessero ricevuto un premio inaspettato. Ma anche qui il Presidente nulla ha detto delle cause a proposito del disastro romagnolo, riconducibili alla negligenza degli uomini e delle istituzioni mal rappresentate che sono state all’origine della catastrofe. Come in Romagna, è accaduto in tante altre parti d’Italia negli anni precedenti, accadono da troppi anni ormai. Sappiamo quanto danno è stato fatto al territorio in questi ultimi anni, quanto sia stato cambiato l’assetto naturale dei luoghi. Si dà la colpa ai cambiamenti climatici, ma non si riflette abbastanza sui cambiamenti prodotti dagli uomini, dagli sconsiderati comportamenti umani. Non solo dei politici, ma anche dei cittadini qualunque. Penso agli incendi estivi. Al “non ci sto” della natura, gli uomini dovrebbero essere più saggi e più prudenti. È il momento di prendere atto che la natura va rispettata, che deve essere l’uomo ad adeguarsi a lei e non viceversa. La natura che viene adeguata alle esigenze umane molto spesso è violata. Su certe emergenze non si insiste mai troppo. I commenti del giorno dopo hanno messo in rilievo che il Presidente ha voluto evitare temi e toni divisivi, avendo constatato che la condizione sociale, con tutte le problematiche che riguardano i giovani, gli anziani, i malati, le donne, è già precaria e frammentata di suo. Quanto alla Costituzione, che taluni politici e organi di stampa hanno posto al centro del discorso presidenziale, non sembra essere stata così insistita come si vorrebbe far credere (citata appena due volte). Quel che non può passare inosservato, invece, è il richiamarsi del Presidente a Papa Francesco, specialmente in materia di emigrazione: «non girarsi dall’altra parte». Che dire? La Chiesa che detta la linea allo Stato, quando non è neppure forte come ai tempi di Pio XII, fa pensare ad uno Stato che forse ha bisogno di ritrovarsi in tutto il suo primato e in tutta la sua laicità.