lunedì 28 dicembre 2009

Voce del Sud era il mio "blog"

Mi piace chiudere il 2009 su questo mio blog ricordando l’altrettanto mia “Voce del Sud”, il settimanale leccese fondato da Ernesto Alvino e diretto per cinquant’anni, dal 1954 al 2003, prima da lui e poi dal settembre 1980 dal figlio Leonardo. Usciva il sabato con otto pagine grandi quanto quelle di un quotidiano e negli ultimi anni formato tabloid.
A “Voce del Sud” ho collaborato per ben 34 anni, dal 1969 al 2003. La mia partecipazione, con periodi più intensi e meno intensi, andava dalla nota politica a quella culturale, dal corsivo di prima pagina (si chiamava “Disco acceso” e usciva in grassetto) alla recensione, dalla nota di costume all’elzeviro. Don Ernesto diceva che il direttore di un giornale deve essere come il direttore d’orchestra, deve saper suonare ogni strumento e prendere il posto dell’eventuale assente.
Quella “Voce” è stata per me una vera scuola di giornalismo. In qualche modo e nei limiti del possibile ne ho riprodotto lo schema con “Presenza Taurisanese”, il mio mensile che ha sedici pagine in folio. In genere essa apre con un articolo di politica nazionale, riserva sei pagine (2, 3, 4, 13, 14, 15) a fatti locali e ha un inserto cultura, “Brogliaccio Salentino” (lo stesso nome del mio blog) di ben otto pagine, aperto a fatti ed autori salentini e pugliesi, meno frequentemente del Mezzogiorno in generale.
Oggi, a distanza di 28 anni, penso di non aver proprio indovinato a chiamare il mio periodico “Presenza Taurisanese”, laddove l’aggettivazione paesana suona come una sorta di parodia. Che so, immagino un periodico della siciliana Canicattì o della veneta Trebaseleghe. Si dovrebbe dire “Presenza Canicattinese” e “Presenza Trebaselegana”. Francamente mi sa di pretenzioso, di velleitario; fa un po’ ridere. Pino Rauti, con cui collaborai nella prima metà degli anni Settanta alle sue riviste “Civiltà” e “Presenza”, chiese di me ad Ennio Licci e quando seppe di questo mio ripiegamento localistico, disse che non capiva perché mi fossi dato al “villaggio”. Purtroppo dovevo fare i conti con la professione di docente e con la famiglia, che mi riducevano il tempo libero; ma il “villaggio” è diventato negli anni luogo d’incontro di fior di collaboratori (studiosi italiani e stranieri, docenti universitari) e l’inserto “Brogliaccio Salentino” è oggi in Puglia uno dei periodici culturali più noti, di provincia ma non provinciale.
Ma torniamo a “Voce del Sud”. Iniziai la mia collaborazione con un articolo su Vanini, apparso il 13 dicembre 1969. La sera di quel sabato il prof. Andrzej Nowicki tenne una conferenza a Lecce, “Vanini e il paradosso di Empedocle”, nella sala del Monumento ai Caduti. Al termine si congratulò con me, dimostrando di aver letto il mio articolo, ma mi aggiunse che gli avrebbe potuto procurare qualche fastidio in Polonia. Sostenevo che il suo interesse a Vanini nascondeva un anelito di libertà nella Polonia comunista. Mi sbagliavo: Nowicki era proprio comunista e aveva un concetto comunista di libertà, che non coincideva affatto con quella vaniniana.
Prima di quel mio “inizio” avevo fatto qualche esperienza come corrispondente del quotidiano romano “Il Tempo”, diretto da Renato Angiolillo, con il capo servizi delle provincie Gianni Letta, l’attuale Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e uomo di massima fiducia di Berlusconi, e nel settimanale cattolico leccese “L’Ora del Salento”.
Da quel 13 dicembre 1969 al 27 dicembre 2003 avrò scritto per “Voce del Sud” un migliaio di articoli, con l’ultimo “Siamo cambiati ma senza tradire”, che un po’ riprendeva il motto alviniano “Avanzare senza rinnegarsi”, posto in alto sulla testata. Su “Voce del Sud” ho scritto tutto quello che ho voluto, in assoluta libertà. Don Ernesto mi diceva sempre: “scrivi quando ti arride l’estro”. Pochissime volte mi ha censurato; qualche volta mi ha sostituito un termine spinto o forte con un sinonimo più lento ed eufemistico. Non amava il turpiloquio, neppure alla lontana. Su “Voce del Sud” non si potevano usare verbi come “fregare”; figurarsi altri più volgari! Non amava il banale, l’ovvio, lo scontato. Una volta, su in redazione al primo piano di via Roberto Visconti 6, con affaccio su Piazza Sant’Oronzo, rispondendo al mio saluto mi chiese che cosa avevo da dirgli o qualcosa del genere. Non seppi rispondere che con una considerazione sul tempo. La prese male. “Ma quello lo vedo da me!” mi rispose visibilmente seccato. Alvino era fatto così.
Una sola volta mi censurò un “Disco acceso”, che aveva per titolo “La destra del pianto”, non nel senso che non lo pubblicò, anzi!, ma si sentì in dovere la settimana successiva di commentarlo, perché nel frattempo gli erano arrivate non poche lamentele. Al posto del mio articolo apparve sotto il titolo della stessa rubrica una sua precisazione, in cui diceva che il mio era stato solo un momento di malumore. Andai a trovarlo in redazione. Mi disse che c’erano state proteste dagli ambienti missini e che Almirante in persona lo aveva chiamato per lamentarsi di quell’attacco; aggiunse che avrei dovuto riprendere con lo spirito di sempre ma nella consapevolezza che c’erano, purtroppo, delle sensibilità da rispettare. Non aveva torto né lui né Almirante. Erano gli anni Settanta e il partito era bersagliato da tutti e viveva il dramma delle contrapposizioni interne. Ogni colpo da fuoco amico era davvero troppo in quel frangente.
A “Voce del Sud” devo la mia notorietà. Agli inizi degli anni Novanta Alessandro Barbano del “Quotidiano”, attuale vice direttore de “Il Messaggero”, mi chiamò per dirmi che leggeva i miei pezzi sul giornale di Alvino, che non sempre li condivideva ma che gli piacevano, e mi invitò a scrivere per il “Quotidiano”. A due condizioni – mi disse – che i pezzi dovevano essere esclusivi e che avrei dovuto stare attento al codice penale. Nient’altro. A quel tempo il direttore di “Quotidiano” era Giulio Mastroianni e il giornale viveva un periodo piuttosto critico, in seguito a Tangentopoli e alla crisi del Partito socialista. Il “Quotidiano” era un giornale storicamente di sinistra e tale continuava ad essere, ma le cose erano cambiate, c’era ormai ben poco da difendere la sinistra e intanto cresceva la domanda da parte di un pubblico diverso; serviva qualche firma notoriamente di destra. Io facevo al caso. Sicché, per ben dieci anni circa, ho scritto contemporaneamente per “Voce del Sud”, “Presenza Taurisanese” e il “Quotidiano” e sporadicamente per altre testate.
Col “Quotidiano” di Barbano non sono stato mai censurato. Scrivevo in assoluta libertà, ben conscio tuttavia di essere in casa d’altri; non era come stare su “Voce del Sud” o “Presenza Taurisanese”. In ogni giornale bisogna rispettare le sensibilità di lettori, abbonati e sostenitori. Non è solo una questione di galateo, ma anche di sopravvivenza. Le cose al “Quotidiano” cambiarono con l’arrivo di Giancarlo Minicucci, decisamente di sinistra. Commisi l’errore di continuare la collaborazione senza conoscere il nuovo arrivato, sicché nel corso di dieci anni (1999-2009) ho avuto un rapporto piuttosto incidentato, fatto di censure, chiarimenti, inviti a scrivere, periodi di lontananza, riavvicinamenti, marginalizzazioni, prese di distanza e fallite imbeccature. Errore che non credo di commettere col nuovo direttore di “Quotidiano”, Claudio Scamardella. Non mi sembra dignitoso scrivere gratis e per di più col rischio della censura. Un notista politico libero non dovrebbe porsi proprio l’ipotesi della censura e avrebbe il diritto di gestirsi lo spazio da sé. Se si affida ai criteri politici del direttore, che ha interesse a favorire una parte piuttosto che un’altra, finisce per apparire quel che non è. Non ho l’età per sperare in carriere, non faccio politica, vivo del mio e mi basta; e la vanità di chi scrive non ha mai raggiunto in me la curiosità di chi legge.
Sicché anche per questo da settembre ho inaugurato il mio blog “Brogliaccio Salentino”, che è un po’ la mia “Voce del Sud”. Quando compongo un pezzo lo faccio in assoluta serenità. Scrivo quello che voglio e come voglio, esattamente come facevo con don Ernesto prima e con Dino dopo; e per stare anche nell’abitudine faccio in modo di postare i miei pezzi tra il sabato e la domenica. D’accordo, sono come messaggi chiusi in bottiglia e gettati in mare. Nessuno li legge. Ma – col permesso di don Ernesto Alvino che pure al fregarsene, fascisticamente inteso, non fu estraneo – dico con tutta tranquillità che me ne frego. Nell’ètere, pur solitario, mi sento bene; nell’ètere hölderliniano “fido e benigno…padre”.
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mercoledì 16 dicembre 2009

Berlusconi e l'attentato di Milano: il crinale del peggio

Si è parlato dell’attentato di Milano a Silvio Berlusconi di domenica 13 dicembre come di un crinale fra un prima e un dopo. La politica deve sempre cercare di utilizzare al meglio quanto accade. Ma in politica, che è guerra combattuta con altre armi, come minimo le parti sono due e per forza di cose ciò che conviene all’una non può convenire all’altra. Crinale sì, ma quale?
Ha detto e ripetuto Rosy Bindi che lei sarebbe pure andata a far visita a Berlusconi in ospedale, non foss’altro che “per misericordia”. “Sono una cristiana” ha aggiunto. Dunque, nessun accenno ad un diverso approccio politico: Berlusconi, per lei e per tanti altri italiani, continua ad essere il nemico da abbattere.
In queste parole più che nelle altre dalla stessa pronunciate, che suonano più o meno così: “Berlusconi ha contribuito al clima di odio di cui è rimasto vittima”, c’è tutta la velenosità di una donna, “più bella che intelligente”, resasi interprete di quell’Italia che in Berlusconi vede un concentrato di male, da cui occorre liberare il Paese. Per lei e per tutta l’opposizione, dai centri sociali a Casini, Berlusconi se l’è cercata. Lo dimostrano i 50.000 messaggi di odio su facebook; le scritte sui muri inneggianti a Massimo Tartaglia, autore dell’attentato. Lo dimostrano le battute, i commenti, irridenti e scanzonati, di tanta gente comune, che per strada, nei bar, al mercato, sui posti di lavoro ha riso, ha gongolato, si è compiaciuta di vedere il volto sfigurato, lo sguardo smarrito, incredulo, dell’uomo maledetto e stramaledetto chissà quante volte al giorno. L’uomo forte, ricco, sicuro di sé, di successo: offeso, vinto, prostrato; un Ettore omerico violato perfino dalla lancia di Tersite. Quanti Tersite in quest’Italia! Sul volto della Bindi, catatonico per la vecchiaia, si vedeva ciò che non può essere nascosto: la soddisfazione, il compiacimento, il piacere di poter dire: finalmente, qualcuno ti ha dato quel che meritavi!
E’ vizio antico dei cristiani attribuirsi facoltà che sono divine. Beati loro, che credono di somigliare a Dio! Figurarsi Dio con la faccia e l’animo di Rosy Bindi! Il perdono come la misericordia non sono facoltà umane. Entrambe sono di Dio. A lui solo spetta di perdonare o di avere misericordia. Non del tenore della Bindi sono state le parole inviate a Berlusconi dal Papa, che è l’unico interprete “autorizzato” di Cristo. Se quel Massimo Tartaglia che ha ferito Berlusconi è uno squilibrato e se ci sono tanti che plaudono a quello che ha fatto e si compiacciono dell’accaduto, è lecito chiedersi: quanti sono gli squilibrati in Italia?
Ma è un fatto che Berlusconi da quell’attentato è rimasto ferito nel corpo e nell’anima; e di sicuro, più nell’anima. Dicono quelli che gli sono stati vicini che non si capacita di tanto odio nei suoi confronti. Il che non deve stupire. Tra le tante componenti del suo complesso essere, ne ha una nient’affatto trascurabile, è l’ingenuità. Non provenendo da una formazione politica pura, non dalle sezioni e dalla militanza, non dalle letture e dalle pratiche politiche, egli è del tutto privo di quegli strumenti critici che in genere rendono il politico cinico e disincantato.
Quando dice di non sapersi spiegare l’odio di tanta gente è credibile. Egli non sa che l’uomo è come Niccolò Machiavelli lo descrive: egoista e spregevole; che in politica ognuno, come dice Carl Schmitt, è amicus-hostis. Un politico mette in conto anche l’incomprensione, l’ingratitudine, il voltafaccia, il tradimento, perché sa che sono in dipendenza dell’uomo nella sua più schietta naturalità. Berlusconi non lo sa, ecco perché, colpito, non ha saputo rendersi conto che dietro l’odio di tanta gente ci sono le cause più varie, anche le più ovvie, ma non per questo meno importanti. La differenza fra lui e i politici veri è che lui è spontaneo e diversamente non sa essere, i politici veri fingono e hanno diverse opzioni per mutar pelle e proporsi agli occhi degli altri come conviene.
L’attentato, però, se per un verso lo ha scoperto e lo ha mostrato a tutti nella sua nudità, per un altro rischia di fargli indossare d’ora in poi l’abito della politica più realistica, quella senza spontaneità e generosità, quella del calcolo e della crudezza. Non è mai troppo tardi per incattivirsi. Le cattiverie in genere peggiorano non migliorano chi le subisce. Spesso Berlusconi è paragonato a Caligola o a Nerone; ma sappiamo tutti che né Caligola né Nerone erano prima come sarebbero diventati dopo e che alla base della loro trasformazione c’erano le cattiverie e le ingiustizie della più potente classe sociale, il Senato romano, che non voleva perdere i suoi privilegi politici ed economici.
Probabilmente Berlusconi incomincerà anche a chiedersi come mai chi doveva proteggerlo non è riuscito a farlo; come mai il ministro degli interni del suo governo non ha nulla da eccepire sull’operato del servizio d’ordine, nonostante quello che è successo; come mai tanti “Làzzari” da lui resuscitati gli hanno voltato le spalle.
Allora il crinale di cui si parla non porterà nulla di buono e anzi peggiorerà il processo d’imbarbarimento verso un ignoto su cui dovremmo tutti riflettere.
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sabato 12 dicembre 2009

Buoni esempi? Non abitano in Italia

Un mio amico sacerdote m’invita spesso a scrivere un articolo sul buon esempio. Confesso che vorrei farlo, ma, per non finire in una sorta di elogio teorico ed astratto, che non servirebbe a niente – non sono un filosofo, peraltro –, mi sforzo di trovare in concreto un riferimento plausibile.
Mi sforzo, ma – ahimè! – non lo trovo. Beato Plinio il Giovane che lo trovò in Traiano e gli fece il panegirico!
Ho sempre studiato storia e politica e se pure qualcos’altro mi è passato per la mente non son riuscito a sottrarlo a queste due materie, che come dei commutatori riducono tutto a res politica. Ho bisogno, perciò, di casi concreti per scrivere un articolo sul buon esempio. Ipotizzando che il mio amico sacerdote sia Lorenzo de’ Medici, non posso che considerarmi l’umile suo servo Niccolò Machiavelli e dico: “…sendo l’intenzione mia […] scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi [pare] più conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa”. (Il Principe, XV, 3).
Esempi, dunque. Ma a parte il Papa, che dice sempre cose molto importanti e condivisibili, compresa l’ultima sulle colpe della stampa che amplifica e rafforza il male, non c’è altri. E poi, non presumo di poter fare l’elogio del Papa.
Ma ha un senso parlare di buoni esempi nell’infuriare di un’autentica guerra civile, sia pure combattuta con le armi della politica? Può essere che episodicamente ognuno per un qualche circoscritto fatto si comporti bene, ma poi per altri aspetti è da biasimare. Il buon esempio non può riguardare un particolare, perché abbia valore deve riferire un insieme di atti e di comportamenti, in continuità e coerenza. Questo in Italia oggi non c’è. Chi potrebbe dare il buon esempio?
Non il Presidente della Repubblica, che pure spesso interviene con puntualità e saggezza; ma la politica è zona di assai difficile vivibilità per le anime buone e le menti illuminate. Napolitano è un gran signore come persona e come politico. Si comporta bene. Lo richiede il suo ruolo, l’età, l’esperienza. Ma è un danzatore in un mondo di energumeni scostumati, che nei modi e nelle azioni somigliano ai giocatori di rugby della Nuova Zelanda, i cosiddetti All Blacks, che prima della partita cercano di spaventare gli avversari con versacci e gestacci e nel corso della partita si buttano come cani sull’osso. Nella vicenda del Lodo Alfano è finito nel sandwich.
Non Schifani, Presidente del Senato, troppo appiattito sulle posizioni del Presidente del Consiglio, il più accusato e perseguito della storia d’Italia. Dice delle cose sensate, ma nel grande scontro in corso sta senza riserve da una parte. Il suo non può essere un buon esempio.
Non Fini, l’ineffabile Presidente della Camera, una sorta di San Paolo a tappe sulla via di Damasco. Dal Msi ad An, da An al PdL, dal Pdl a…. Un buon esempio da lui? E’ improbabile, la sua è una saggezza affettata, ruffianesca, una sorta di Lego della buona reputazione. Può dire ciò che vuole, non è credibile. Se stai facendo autostop e passa Fini e ti invita a salire, rifiuta, non sai dove ti porta. Da lui nessun buon esempio.
Non i giudici, dai quali giungono messaggi contraddittori. C’è una parte di essi, sedicenti democratici in realtà comunisti, che vorrebbero utilizzare i pentiti e le intercettazioni, disponendo degli uomini della Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza come gli imperatori romani disponevano dei pretoriani, per mettere sotto accusa, senza prove e senza niente, pure il Padreterno. Poi se, a distanza di tempo, il Padreterno risulta pulito se ne può pure tornare nel suo paradiso, se nel frattempo è rimasto. La stessa parte di magistrati si oppone ad ogni riforma della giustizia, scrive libri, lascia interviste, partecipa a dibattiti, a manifestazioni politiche, facendo passare l’idea che giustizia e sinistra siano la stessa cosa. Mentre essi si occupano pochissimo di tanti problemi quotidiani della gente e lasciano che processi per cose da niente durino decenni. No, dai giudici nessun buon esempio.
La stampa è militarizzata: alcuni giornali e trasmissioni televisive stanno con una parte, ed altri con l’altra. Ognuno difende la sua parte senza un minimo di pudore. In questi ultimi tempi il gioco è diventato scopertamente sporco. Intanto ti calunnio, ti arreco un danno, creo nel paese un’opinione contro; poi, se è il caso ti chiedo scusa. E’ accaduto col direttore de “Il Giornale” Vittorio Feltri, che, dopo aver costretto alle dimissioni il direttore di “Avvenire” per delle inezie, gli ha chiesto scusa. No, dalla stampa forse gli esempi più cattivi.
Ho citato quei soggetti che in una democrazia normale dovrebbero svolgere una funzione terza, dare appunto il buon esempio. Se questo in Italia oggi non accade, la colpa non è tanto dei singoli soggetti, quanto della situazione generale, che non consente di ragionare sulle cose e di esprimere liberamente e proficuamente la propria idea.
E tuttavia, alla fine, un buon esempio mi pare di poterlo citare: è quello delle Forze Armate dello Stato, cui aggiungerei la Protezione Civile, che, nel gran disordine generale, stanno al loro posto e svolgono la loro funzione di tutori delle istituzioni e del Paese con grande dignità ed efficienza. Ma, citare, quale unico buon esempio quello delle Forze Armate e della Protezione Civile, francamente, dà il senso della crisi in cui versiamo.
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domenica 6 dicembre 2009

Fini la finisca, offende gli elettori di destra

Qualche anno fa alcuni colonnelli di An, parlando tra di loro in un bar nei pressi di Montecitorio, se non ricordo male “La Caffettiera”, ebbero ad esprimere delle valutazioni, non irridenti ma preoccupate, nei confronti di Gianfranco Fini, all’epoca Presidente di An. Un cronista del “Tempo” li sentì e il giorno dopo riferì tutto sul suo giornale. Uno immagina: Fini, il liberale, il rappresentante di una destra moderna, anzi del futuro, europea e laica, chiamò i suoi collaboratori, tutti membri della Direzione Nazionale, per un chiarimento. No, niente di tutto ciò. Fini, con un atto d’autorità, degno di uno zar, azzerò la Direzione Nazionale, “facendo fuori” tutti.
Oggi il suo cosiddetto “fuori onda”, irridente compiaciuto e ruffiano, avendo come spalla un magistrato, con dovizie di accuse contro Berlusconi, viene fatto passare come un normalissimo episodio di dovuta critica all’interno del PdL.
Sgombriamo subito il campo da due motivi di carattere generale. Il primo è che un politico non può prescindere dagli interessi della sua parte, della quale è responsabile. Tutto quel che dice e che fa deve rispondere ad un cogente “cui prodest”. Dunque: dire candidamente che Fini ha ragione nello specifico giudizio sul carattere di Berlusconi è del tutto fuori posto. Un conto è se certe cose le dice un suo avversario, un altro un suo alleato. L’altro motivo è che il suo comportamento, ruffianesco ed irridente nei confronti di un amico o di un alleato politico, è in sé disgustoso. E tale è anche in altri ambiti, come la famiglia, la professione, il circolo cittadino. Non si può parlare in quei termini della propria moglie con l’amante, del proprio marito o dei propri figli, del Dirigente del proprio Ufficio o del collega, del Presidente del proprio Circolo, dell’amico in genere.
I motivi più specifici e di merito sono altri. Se veramente Fini è convinto che Berlusconi è quello che lui dice “fuori onda” e “in onda”, allora lui deve trarne le conseguenze. Ciò lo può fare in un solo modo: prendendo le distanze, esattamente come seppero fare, or non è molto, Follini e Casini. Del resto, la sua critica a Berlusconi da “baruffe chiozzotte” è sostanziata da posizioni diverse da quelle del PdL in varie altre materie, fra cui immigrazione, testamento biologico, procreazione assistita, ecc.. In queste materie Fini è decisamente su posizioni di sinistra.
Verrebbe di pensare che i prodotti di sinistra, abbondantemente scaduti, siano da Fini ripresi e spacciati, con altra data di scadenza, per prodotti niente meno che di destra, anzi di una destra che ancora non c’è, tanto è ipotizzata nel futuro. Non è un caso che la sua Fondazione si chiami proprio “Fare futuro”. Anche nel lessico e nelle categorie culturali Fini è decisamente a sinistra, essendo l’utopia e il futuro categorie che niente hanno avuto mai a che fare col realismo e il pragmatismo tipici della destra. Condizionale per condizionale: verrebbe di pensare che Fini, vuoto com’è di esperienze culturali e di solide letture, neppure si renda conto dei sentieri ideologici che batte, seguendo il fiuto di un predatore.
Ma il comportamento di Fini è oltremodo oltraggioso degli elettori di destra che lo hanno votato e dei quali sembra si sia completamente dimenticato. Salvo che lui non abbia una concezione cinica della politica – e secondo me ce l’ha – non intende considerare che alla base di destra e sinistra – si legga almeno Bobbio – c’è soprattutto una diversa sensibilità. Non è tanto l’affrontare e risolvere certi problemi sociali in sè – oggi come oggi le differenze sono assai minime; quel che distingue è la sensibilità. E’ la sensibilità che fa la differenza. Chi vota a destra non lo fa perché il governo si comporti poi come un governo di sinistra, ma lo fa perché vuole e spera che si comporti secondo il comune sentire, legittimato e garantito dal programma elettorale. Se i politici eletti e giunti al governo non intendono muoversi secondo le loro promesse devono semplicemente andarsene.
Fini, con le sue prese di posizione e i suoi comportamenti, tradisce e offende il suo elettorato, che non è nel futuro della destra, ma è nella destra di oggi; una destra che trova linfa nella sua tradizione. Chi ama la politica sa perfettamente che allorquando si parla di sensibilità e di idee – e gli elettori nella loro stragrande maggioranza di altro non possono parlare, esclusi come sono dal potere politico ed economico – non offende e disprezza l’altrui sensibilità e le altrui idee, ma ritiene che ci sono momenti in cui valgono le une e momenti in cui valgono le altre. Un esempio è all’origine della nostra storia nazionale: quando nel 1876 lo Stato raggiunse con Quintino Sella il pareggio del bilancio, impresa che solo una sensibilità di destra poteva conseguire, si passò ad un governo dalla diversa sensibilità, perché c’era da affrontare una serie di problemi sociali. Non è questione di superiorità di una proposta nei confronti dell’altra, ma di opportunità. Al limite uno potrebbe anche invidiare una sensibilità che non ha, ma con coerenza deve portare avanti la sua e cedere a quella degli altri quando non è più tempo. Se Fini pensa che il suo tempo di uomo di destra sia finito, se si è scoperto una diversa sensibilità, chieda scusa ai suoi elettori, raccolga i ferri, se ne ha, e se ne vada. Il popolo “lo vult”.
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martedì 1 dicembre 2009

Vendola e il busillis della ricandidatura

Per proseguire in un ragionamento occorre rimuovere l’ostacolo che si frappone fra un passaggio e l’altro o addirittura all’ingresso, esattamente come accade su una strada, stretta che non consente di aggirarlo. L’ostacolo è questo: in Italia qualsiasi governo, a qualsiasi livello, per l’opposizione è fallito in partenza; strada facendo si trovano poi le pezze per sostenere l’accusa. Non poteva fare eccezione la giunta regionale di Niki Vendola, personaggio che può piacere o non piacere ma che va giudicato esclusivamente per il suo essere e per il suo aver fatto politico.
Superfluo dire che fin dall’inizio per l’opposizione di destra, Vendola aveva fallito. Ora, però, vedo, a distanza di cinque anni, che anche per il suo stesso schieramento, il centrosinistra, Vendola non è ricandidabile. Ma non si capisce perché.Non v’è dubbio che grandi cose la sua amministrazione non ne abbia fatte e Vendola ha dovuto accorgersi che tra il dire, stando all’opposizione, e il fare, stando al governo, tra il suo forbito dire e il suo impacciato fare, c’è l’agitatissimo mare della realtà, in cui non solo gli avversari ma anche gli amici, compagni e alleati, brigano per disfare o vanno per fatti loro.
La sanità è stata oggettivamente un fallimento, da qualunque punto di vista la si guardi, ma soprattutto è stato un contenitore di scandali, a partire da quello di avere un assessore in palese conflitto d’interessi, il famigerato conflitto d’interessi, che esiste solo per gli avversari. Fallimento che è tralignato in una serie di storie indecenti. Vendola non ha saputo affrontarlo, se no non avrebbe messo Tedesco a quell’assessorato, ma ha saputo prendere di petto la situazione quando il rischio era il piatto alla puttanesca ed ha azzerato la giunta allo scopo di eliminare quegli elementi – facciamo nomi e cognomi, Sandro Frisullo, per esempio, vicepresidente – che si erano resi protagonisti di comportamenti disdicevoli.
In un paese in cui si procede “lento pede” su tutto, specialmente quando si tratta di rimuovere mele marce, il coraggio e la determinazione di Vendola basterebbero da soli ad accreditare l’uomo come un “vir bonus”, inteso alla latina, cioè un uomo onesto e probo, ma anche “dicendi peritus”. Egli ha saputo esibire, nella circostanza, un grande senso della cosa pubblica e dell’immagine che un uomo delle istituzioni deve avere e coltivare. Invece, proprio per questo suo, forse insospettato “puritanesimo”, ora viene punito. La parte politica degli “epurati” ora si vendica e lo fa in maniera subdola. C’è il Pd (partito di Frisullo) che propone Emiliano, sindaco di Bari, alla presidenza della Regione, sostenendo che con Emiliano si vince, con Vendola si perde e si regala la Regione al centrodestra. Non ci sono altre ragioni, quasi una questione di cabala. Non si dice: non ti candidiamo più perché hai sbagliato, hai fallito, non avresti dovuto fare questo e quest’altro; no, si dice: non hai sufficiente domanda sul mercato elettorale.
Da parte sua Emiliano si profonde in dichiarazioni “d’amore” per Vendola. “Caro Niki – dice – non riusciranno a metterci l’uno contro l’altro”. Altro che greci o cretesi, qui siamo al levantinismo più scoperto. Ognuno cerca di negare la parte che è per far piacere alla parte che deve recitare.
Poi c’è l’Udc, che non si capisce per quale ragione si ostina a dire: sì ad accordi col Pd, ma senza Vendola; quando si sente la puzza da un miglio che mente. Escludendo che l’avversione dell’Udc per Vendola abbia altre ragioni, il partito di Casini non si avventurerà mai in alleanze che potrebbero portare a guazzabugli di difficile e intricata soluzione. Ma perché, allora, si presta in questo gioco allo schiaffo contro Vendola?
A cinque anni di distanza dalla sua sorprendente elezione Vendola è messo in discussione da tutti: dagli avversari esterni per partito preso, dagli avversari interni per fargli pagare la sua scarsa disposizione alla convenienza di partito, e dai “neutri” dell’Udc per un incredibile gioco alla confusione.
Vendola, invece, meriterebbe, la ricandidatura, soprattutto per quello che ha dimostrato di essere. Sostenuto da collaboratori più leali e all’altezza della situazione, potrebbe fare quel che non è riuscito a fare nella scorsa consigliatura. Metterlo da parte è in-credibile.
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domenica 29 novembre 2009

Italia barbara: mafia e parolacce

A stretto giro di… moda due delle massime cariche istituzionali italiane hanno lanciato sul mercato della comunicazione politica due parolacce, entrambe di origine germanica: “stronzo” e “strozzo”.
La prima l’ha pronunciata, alcuni giorni fa, Gianfranco Fini, Presidente della Camera, contro il razzismo. A dei ragazzini di colore ha detto: chiamate pure stronzo chi vi ritiene inferiori perché avete la pelle scura. La seconda l’ha pronunciata il 28 novembre scorso Silvio Berlusconi, Presidente del Consiglio, contro chi propaganda l’Italia come terra di mafia. “Se trovo chi ha scritto libri e fatto film sulla mafia lo strozzo – ha detto – perché infanga l’Italia nel mondo”.
La prima, stronzo, deriva dal longobardo “strunz” che significa sterco e data 1400. La seconda, strozzo, denominale da strozza (gola), viene dall’alto tedesco medio “strozze” e data, secondo il De Mauro, 1313.
Non c’è dubbio alcuno che le due parole sono il segno tangibile dell’imbarbarimento del dibattito politico in Italia. Non solo perché sono parole che storicamente sono attribuite a quelle popolazioni barbare che tra IV e V secolo accelerarono la caduta dell’Impero romano con la loro discesa in Italia, portando con sé usi, costumi e linguaggi, ma soprattutto perché consideriamo genericamente barbaro, ossia incivile e incolto, tutto ciò che è estraneo al galateo politico e sociale. Ed è soprattutto in questa accezione che va inteso l’imbarbarimento del dibattito e della comunicazione politica italiana.
Incominciamo dallo “stronzo” di Fini. Una persona misurata come lui difficilmente si abbandona al turpiloquio, anche se di tanto in tanto se ne esce con qualche rivelazione, come quando disse che lui lo spinello una volta se l’era pure fumato. Perciò, se improvvisamente tira fuori una parola come “stronzo”, è segno che, data l’ira contro i suoi alleati di governo, non riesce più a vigilare sulle parole e le espressioni che usa in pubblico. Ricorrendo alla parolaccia, ha quasi voluto dare un valore aggiunto alla sua tesi secondo cui gli immigrati devono trovare in Italia piena integrazione politica e sociale. C’è qualcuno che la ostacola? Beh, questo è uno stronzo! E’ turpiloquio, ma la caduta di stile è funzionale all’efficacia della polemica. Se si arrabbia, vuol dire che ci crede.
Più grave è lo “strozzo” di Berlusconi, anche se, a differenza di Fini, il Presidente del Consiglio ci ha abituati ad ogni sorta di stravaganza, di tipo linguistico, gestuale, comportamentale. Ciò, tuttavia, non deve far cadere in noi la soglia del convenzionale. Dire: se trovo chi scrive libri e fa film sulla mafia lo strozzo, è come condannare fior di scrittori e di registi che da anni combattono la mafia con le loro denunce attraverso libri, saggi, articoli di giornale, film e sceneggiati televisivi. Pur trascurando il non…trascurabile fatto che gli ultimi film sulla mafia li ha prodotti proprio l’azienda della famiglia Berlusconi – quindi dovrebbe suicidarsi o uccidere i suoi figli, per essere coerente – non si può far passare come una semplice battuta una frase dalle molteplici implicazioni.
Per esempio, se in Italia c’è la mafia – ed è innegabile che ci sia – bisogna tacere per non screditare il Paese o combatterla per estirparla e restituire all’Italia l’immagine di un Paese moderno e ordinato? Che è come dire: se in Italia esiste Berlusconi, con tutti i problemi che ha portato con sé scendendo in politica, bisogna tacere per non screditare il Paese o combatterlo fino ad allontanarlo dalla politica?
La sortita berlusconiana sulla mafia farebbe pensare che, essendo prioritaria l’immagine del Paese, occorre tacere. Ma il silenzio, se pure servisse a qualcosa – e non serve, anzi aggrava – non può essere suggerito da chi dovrebbe dare il buon esempio in termini di lotta al malaffare, agli intrecci politico-mafiosi, alla criminalità organizzata.Il governo di Berlusconi ha sicuramente prodotto effetti positivi nella lotta alla mafia, con arresti, sequestri di beni e quant’altro; ma la lotta alla mafia non è soltanto un fatto chirurgico, è soprattutto un fatto di medicina, ossia di educazione, di comportamenti e di intolleranza verso tutto ciò che è illegale o sa di illegalità. Se il Presidente del Consiglio parla come un boss della mafia finisce per far passare anche gli innegabili successi contro di essa per vendette fra cosche, ossia per episodi di lotta interna.
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domenica 22 novembre 2009

Fare politica in terra di mafia

Le esemplificazioni non piacciono e non esauriscono le questioni; ma servono a coglierne la ragione centrale. In terra di mafia – e il Mezzogiorno lo è in tutta la sua estensione – o colludi o collidi. Ci sono cittadini, che possono pure chiudersi nel privato ed evitare di entrare in contatto con la mafia; sono i dormienti della società civile. Fra di essi potrebbero esserci anche persone valide e validissime, che, in condizioni normali, potrebbero dare un contributo notevole e notevolissimo alla propria comunità, cittadina o nazionale. Dormendo, tuttavia, sono funzionali alla mafia.
Ci sono altri, che, per la loro esposizione pubblica, non possono rifugiarsi nel privato e finiscono faccia a faccia con la mafia; a questo punto o colludono e fanno affari fino a quando non vengono scoperti; o collidono, cioè si scontrano con essa e quasi sempre ne hanno la peggio. Un peggio che non è soltanto fisico e limitato alla persona singola, ma investe altri aspetti e soprattutto colpisce le famiglie. Nell’uno come nell’altro caso si finisce male.
I soggetti a rischio di contatto mafioso non sono soltanto i politici, i giornalisti, i pubblici funzionari, ma anche gli operatori economici, che, col potere politico, vivono in simbiosi e perciò sono elementi sensibili.
Tutto ciò è favorito dalla democrazia, che, fondando la sua ragion d’essere sul consenso elettorale, offre alla mafia un campo d’azione formidabile. Furono lungimiranti i mafiosi che si erano rifugiati in America per sfuggire alle persecuzioni fasciste quando decisero di collaborare alla causa democratica, preparando e favorendo lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Capirono che era anche la propria causa: “Picciotti, cosa nostra è!”.
Chi aspira al potere politico, in terra di mafia, a maggior ragione deve fare i conti con essa. Le “argomentazioni” mafiose convincono più di quelle politiche; ergo il politico ha bisogno dei voti, che la mafia è in grado di procurargli in gran quantità. La mafia ha bisogno di profitti. Il do ut des è a fondamento dell’entente mafiosa.
Le classi dirigenti meridionali hanno sempre scelto di colludere, un po’ per loro natura, appartenendo alla stessa territorialità antropologica, un po’ per alibi di atavici ritardi e fallimenti. Da noi non si perde mai per propria incapacità, ma sempre per mancanza di mezzi o per inganni e raggiri da parte dei più capaci.
Nel segmento mafia-politica opera tutta un’umanità produttiva, fatta di lavoro, di commercio, di imprenditoria. La borghesia meridionale, a causa della mafia, opera in condizioni di sopravvivenza; è inevitabilmente “mafiosa”. Chi vuole lavorare e produrre, infatti, prima o poi, entra in contatto con essa, la quale non ti chiede se vuoi far parte come ad un’associazione onlus, ma ti costringe senza pietà e misericordia. Ti fa trovare la testa del cavallo prediletto sotto le lenzuola come nel “Padrino” di Puzo-Coppola.
La collusione ha vari gradi: il primo è di protezione, ed è sopportato; il secondo è di forza, ed è gradito; il terzo è di collaborazione e di prestigio, ed è organico. A volte si passa dall’uno all’altro come in massoneria si passa da un grado all’altro, fino alla maestranza venerabile.
Il caso gallipolino ne dà un’ulteriore conferma. Flavio Fasano, già sindaco di Gallipoli e poi assessore provinciale, uomo convintamente di sinistra, già comunista e poi democratico, era in sintonia politica con Rosario Fasano; mentre il fratello di costui, Salvatore, ucciso – stando a quanto riferiscono i giornali – era in sintonia politica col centrodestra. Non conosco l’ambiente gallipolino e non penso nulla sia su Flavio Fasano sia sui suoi omologhi dell’altra parte, ma sicuramente si tratta di persone come tante, che, ad un certo punto, hanno pensato di poter fare politica nella loro città a prescindere dalla mafia. Se non l’avessero fatto loro, l’avrebbero fatto altri, con altri nomi e cognomi. Il risultato non sarebbe stato diverso.
A Gallipoli si era verificata una situazione come quella pre-romana di Romolo e Remo: uno dei due fratelli era di troppo. Una situazione drammatica perché lo scontro era in famiglia; altrove è fra clan diversi, in lotta per il controllo del territorio.
Questo prova che nel Mezzogiorno non è una questione di destra o di sinistra, è una questione di mafia, che omologa tutto. E prova ancor più – e questo è disperatamente grave – che se pure una delle parti si gioca la carta eroica di rifiutare i favori della mafia per non colludere con essa, c’è sempre pronta l’altra parte a non farsi scrupoli e li accetta, secondo un proverbio che qui è regola aurea “quiddu ca lassi è persu”.
Vie d’uscita? Francamente non se ne vedono. Sia per la mafia che per la questione meridionale in generale si ripetono da anni le stesse cose. E non c’è peggior situazione dello stallo. Si dice: non tutti nel Mezzogiorno sono mafiosi; l’Italia non cresce se non cresce il Mezzogiorno. Banalità! Poi vediamo che la mafia continua a dominare su tutto e su tutti, mentre una parte dell’Italia, la settentrionale, è cresciuta a dismisura e l’altra, la meridionale, è rimasta coi problemi di sempre: sottosviluppo e criminalità organizzata.
E allora? Qui occorrerebbe un’autentica rivoluzione, che nessuno, però, si sogna di fare. Una rivoluzione tutta dentro al cervello dei meridionali, i quali dovrebbero rinunciare al potere e al prestigio personali, frutto di scorciatoie criminali, per creare condizioni, in cui potere e prestigio personali fossero sì da conseguire ma con altri percorsi e con altri mezzi. Che sarebbe come rinunciare all’uovo oggi per la gallina domani. Ma solo una classe dirigente, lungimirante e coraggiosa, potrebbe riuscirci. C’è?
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martedì 17 novembre 2009

La mamma del terrorismo è la politica

Il Ministro degli Interni Maroni ha lanciato l’allarme terrorismo. E’ una cosa seria – ha detto – dai segnali che abbiamo non possiamo prendere sottogamba il rischio reale, che c’è; ora stiamo valutando possibili collegamenti col terrorismo islamico.
Pur senza conoscere i segnali di cui parla il Ministro, riteniamo che il rischio terrorismo sia in rebus. La situazione politica è di caos diffuso. L’opposizione alla maggioranza di centrodestra, che ormai dura da quindici anni, con periodiche recrudescenze, ha certamente prodotto un effetto devastante: la delegittimazione della politica. La sinistra, forse neppure senza pensarci tanto, ha messo in essere un piano pernicioso: visto che Berlusconi più cerchi di delegittimarlo e più invece cresce, perché la politica nel suo insieme in Italia lo favorisce, tanto vale delegittimare la politica, dalla quale egli trae la sua forza. E’ una lezione che viene da lontano, che gli italiani conoscono molto bene. Per sconfiggere il fascismo fu necessario sconfiggere l’Italia. Oggi la sconfitta di Berlusconi passa attraverso la rovina del Paese.
In un certo senso si è ricreata in Italia una vera e propria guerra civile, per ora circoscritta ai soggetti istituzionali della politica. I cittadini, esclusi per la personalizzazione eccessiva dello scontro, quando non assistono impotenti e disgustati, partecipano come scommettitori alla lotta tra cani.
La maggioranza dice che la democrazia è assediata dall’invadenza del potere giudiziario, che ordisce contro gli altri due poteri dello Stato, legislativo ed esecutivo, di concerto con l’opposizione. L’opposizione dice che parlamento e governo sono nelle mani di un despota, circondato da cortigiani, che gli fanno contorno e quadrato. La percezione diffusa è che il Paese è assediato dagli uni e dagli altri e che la politica è ormai un sentinaio.
I due partiti, sui quali si pensava di poter costruire un sano bipartitismo, Partito democratico e Popolo della Libertà, non si sa più che cosa siano. Il Pd ha perso una porzione di componente cattolica, quella di Rutelli, che non è andata nell’Udc di Casini, come ci si spettava, ma ha creato un partito nuovo: Alleanza per l’Italia. Si ha l’impressione che ogni capobanda cerchi di farsi una banda tutta per sé e che ognuno di essi si senta assoluto sia dal fine del suo operare, che è l’Italia, sia da chi dovrebbe fornirgli la forza per operare, ossia gli italiani.
La stessa impressione si ha del PdL, i cui segnali di scollamento tra le sue due componenti costitutive: Forza Italia e Alleanza nazionale, sono sempre più forti. Ma se Forza Italia continua a riconoscersi senza riserve in Berlusconi, non così Alleanza Nazionale, che vive un grave problema di identità e di prospettiva: riconoscersi ormai in Berlusconi o restare fedele a Fini, il quale di destra non dice più nulla e si atteggia a padre di una patria tutta da costruire.
L’Udc di Casini un giorno cerca alleanza a destra e un altro a sinistra; non esclude appoggi a candidati di destra nel Veneto e di sinistra in Puglia. L’Italia dei Valori di Di Pietro è la catapulta che si abbatte sulle mura della fortificazione: non vede, non sente, non ragiona. I suoi nemici sono Berlusconi e chi direttamente o indirettamente, consapevolmente o inconsapevolmente, lo sostiene. Il vero bipartitismo in Italia è costituito per un verso da Berlusconi e per l’altro da Di Pietro; entrambi procedono come bulldolzer preimpostati.
I cittadini non contano più nulla, dimezzati perfino come elettori dal momento che votano persone già elette in partenza dall’alto. Cosa c’entrano, quale parte essi hanno nel caos imperante? Nel migliore dei casi possono nutrire ancora qualche briciolo di fiducia in questo o in quel politico e affidarsi a lui come dei sudditi al loro principe secondo la formula cuius regio eius religio e cambiare orientamento, andare avanti e indietro, a destra o a sinistra, come fa lui.
In un quadro del genere, che non rende l’idea per difetto, stante una crisi economico-finanziaria ancora di là dall’essere superata, in pieno caos istituzionale, il germe terrorismo rischia di diventare pianta e di maturare dei frutti. Ma non c’è alcun dubbio che ancora una volta il terrorismo viene dal popolo deluso e maltrattato. Gli apprendisti stregoni, che lo hanno evocato, piuttosto che considerarne la causa insistono a paventarne l’effetto. Il Ministro Maroni ha trovato nel terrorismo islamico il sacco per nascondere le cause del terrorismo italiano.
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domenica 8 novembre 2009

Altro che radici, qui ci negano Cristo!

Qualche anno fa i pontefici romani, prima Giovanni Paolo II e poi Benedetto XVI, lamentarono il fatto che nel famoso preambolo della costituzione europea non c’era cenno alcuno alle radici cristiane dell’Europa. Sembrava una cosa da niente. Che bisogno c’è di metterle per iscritto? Dissero, imbarazzati, alcuni autorevoli intellettuali e politici cristiani, che non volevano dispiacere ai loro omologhi europei. E poi, se l’Europa è diventata cristiana vuol dire che prima non lo era, perciò viva la sua vocazione ad accogliere altri in costanza di arricchimento di idee e di fedi! Replicarono i più ostinati difensori della laicità.
Era la spia di un modo di pensare l’Europa, non sintesi dei vari popoli europei, nel rispetto delle loro diversità e tradizioni, come sarebbe stato giusto che fosse, ma idea univoca, una sorta di tassa comunitaria, alla stregua di una quota-latte. Era ed è questa l’idea di Europa che hanno quei signori che s’aggirano tra Belgio, Olanda e Lussemburgo, i cittadini della “città della nebbia”, nuova utopia in contrapposizione alla “città del sole”. Tant’è che, in ragione di quell’idea, essi discriminarono Rocco Buttiglione, non facendolo diventare commissario europeo. Alla loro domanda: “che pensi dell’omosessualità?”, quello rispose con assoluta onestà: sono un cattolico e perciò la ritengo un peccato. Raus! Gli dissero, non sei degno della carica.
Sapemmo, allora, che in Europa i cattolici professi, in quanto tali, non hanno gli stessi diritti che hanno gli altri. Forse Buttiglione avrebbe dovuto fare come tanti di quei parrucconi di Bruxelles o di Strasburgo e dintorni, che in privato sono omosessuali e pedofili, alcolisti e cocainomani, e in pubblico sono icone del più puro pensiero democratico.
Oggi la Corte di Strasburgo, accogliendo il ricorso di una (dico una) finlandese stanziatasi in Italia, ha sentenziato che il Crocefisso non deve stare nelle aule scolastiche perché lede la libertà di formarsi nelle proprie credenze di chi cristiano non è. Siamo passati – come si vede – dal non considerare le radici cristiane alla campagna di scristianizzazione dell’Europa. Siamo passati dalla dittatura della maggioranza a quella della minoranza, anzi della minimanza. Non è più la cosiddetta normalità a non tollerare la diversità, ma il contrario: un’intolleranza alla rovescia.
Ora, a parte la questione personale, che ogni cittadino italiano può e deve porsi, sol che lo voglia, rispondendo a se stesso sul suo rapporto col cristianesimo o con la fede in generale, c’è una questione di etica nazionale. Ognuno di noi è individuo e cittadino. Come individuo può anche non credere in nessun Dio né tanto meno nella sacralità del Crocefisso; ma come cittadino non può assolutamente ignorare di aver già metabolizzato nella sua storia, nella sua identità, nella sua cultura, nel suo essere, tanto di quel cristianesimo che l’ipotizzare un diverso rapporto col sacro che lo riguarda, dalle icone domestiche al cimitero, dai monumenti alle chiese, dal nome delle strade al nome dei paesi, dalle nicchie votive urbane a quelle rurali o montane, comporterebbe una seria difficoltà perfino a riconoscersi; diventerebbe come il pirandelliano Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila.
Neppure Roma, ai suoi magnifici tempi imperiali, proibiva ai popoli sottomessi di avere le loro pratiche religiose, di esibire i loro simboli. Si accontentava che rispettassero le leggi civili e che pagassero i tributi. Che diritto ha oggi una corte europea, che non ha prerogative imperiali, che non ha sottomesso nessuno, di imporre leggi spirituali e culturali, di dire: voi italiani, basta quanto siete stati italiani, da oggi in poi dovete essere diversi?
Si limitino i signori della corte ai traffici e ai commerci, alle misure economiche e finanziarie, alle dimensioni delle banane, e lascino stare la tradizione nella quale ciascun popolo si riconosce da millenni! Purtroppo non è un caso che questo fiume carsico del fanatismo e dell’intolleranza scompaia e ricompaia nel cuore dell’Europa. Carlo Magno ai suoi dì macellò, in ripetute spedizioni, centinaia di migliaia di Sassoni che non si piegavano alla sua religione; Hitler, non potendo trasformare gli ebrei in non ebrei, decise di toglierli tutti dalla faccia della terra. Ora il nuovo totalitarismo imperante, sotto mentite spoglie, vuole che gli europei siano tutti grigi come il colore del cielo continentale, da dove sono sempre fuggiti gli spiriti più liberi e vivaci. Da dove preferiva allontanarsi lo stupor mundi, quel Federico II di Svevia, che non era un bacchettone al servizio del Papa, e dimostrò che si può rispettare l’altro senza tradire se stesso.
Non ricordo personalmente di aver abitato da bambino una casa diversa da quella in cui ho trascorso gran parte della mia infanzia. I miei ricordi arrivano a quella dirimpetto alla chiesa romanico-bizantina della Madonna della Strada, a Taurisano. Vedevo la gente che passava di lì segnarsi, farsi il segno della croce, fare un lieve cenno di saluto, baciarsi la punta della mano destra e poi alzarla verso di lei; e ancora oggi lo fa, passando davanti ad un’icona, ad una nicchia votiva, ad un’immagine sacra. Così imparai a fare anch’io e tutti gli altri bambini. E ogni volta che passo di lì o da dove c’è un luogo sacro, ancora oggi mi porto pollice e indice uniti della mano destra alle labbra, per mandare un bacio di saluto e di rispetto. Eppure – maledizione! – ho perso la fede da non ricordo più quanti anni.
Ma se la fede l’avevo, l’ho persa e potrei ritrovarla, mi chiedo: che può comportare la presenza dei simboli religiosi al formarsi liberamente di una persona? Nulla, non influisce minimamente. Sono semmai gli uomini che ti fanno acquistare o perdere la fede, coi loro esempi.
Per favore, perciò, signori della Corte di Strasburgo, lasciate a ciascuno il Crocefisso suo; non foss’altro che per ricordarsi chi è e soprattutto di chi è figlio!

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domenica 1 novembre 2009

L'Italia al netto di Berlusconi

Va detto chiaro e forte: Berlusconi rappresenta oggi in Italia il degrado della politica, come non era stato mai conosciuto da cinquant’anni in qua. Che quotidianamente ce lo vengano a raccontare gli offesi e disgustati sacerdoti del galateo democratico, quelli, per intenderci, che si aggirano intorno al sacro fuoco de “la Repubblica” e de “L’Espresso” e di altari e tempietti votivi vari eretti nei dintorni, è inutile come bussare alle porte del Colosseo. Ci sarebbe solo da obiettare che Berlusconi è anche a capo di un governo, che nessuno ancora ha dimostrato che non stia governando bene, a parte le trovate propagandistiche, stancamente ripetute e puntualmente smentite dai fatti, delle opposizioni. Le quali, peraltro, insistono sulla questione morale, non solo per furore antiberlusconiano, ma anche per mancanza d’altro. L’antiberlusconismo, come unico male di questo paese, proposto in tutte le salse e tirato fino all’inverosimile, rischia più del male stesso, ossia il berlusconismo, a creare assuefazione.
Ma l’altro c’è. Non riguarda Berlusconi – abbiamo detto al netto di Berlusconi – riguarda l’Italia. Ed è qualcosa che è assai più grave. Nel Nord c’è una questione padana, la cui pericolosità viene nascosta o sottovalutata, mentre nel Sud si torna a glorificare il brigantaggio come fenomeno di resistenza all’invasore. Alla vigilia dei 150 anni dell’unificazione nazionale, il Paese è più lacerato che mai; e non solo per le ataviche disparità socio-economiche, ma questa volta per più consapevoli risentimenti politici e culturali. E’ forse una simile condizione più lieve delle sortite di Berlusconi contro i giudici? Dei suoi festini nelle sue lussuose dimore? Delle escort, che fanno da cornice alla sua solitudine di uomo sempre più fallito nella sua dimensione affettivo-spirituale? Mi piacerebbe che qualche disgustato antiberlusconiano rispondesse su questo.
Una recente puntata di “Blu notte – Misteri italiani” su Rai Tre (30 ottobre), condotta dallo scrittore Carlo Lucarelli, ha ricordato che nella sola provincia di Caserta in questi ultimi anni di imprese casalesi, così dette da Casal di Principe, il comune epicentro del sisma camorristico-mafioso, le vittime – intendo morti ammazzati – assommano a 1.500: una guerra! A Castelvolturno, sempre nel Casertano, dove nel 2008 ci fu la strage degli immigrati di colore da parte della camorra, ci sono 25.000 clandestini, ignorati dalle autorità. Regioni come Campania, Calabria e Sicilia sono territori dove lo Stato non esiste, nel senso che non può esercitare la sua sovranità con la forza della legge e dei suoi uomini. Se non è frontalmente attaccato, è perché prudentemente fa di tutto per non apparire. Recentemente nel rione Sanità di Napoli un uomo è stato ammazzato in pieno giorno sotto gli occhi di tutti, ripreso dalle videocamere di servizio, senza che nessuno facesse neppure spallucce, mentre i passanti lo scavalcavano come fosse una pozzanghera. In quelle regioni la gente permale intimidisce e ammazza; quella perbene reclama il diritto alla paura e al silenzio. Mi piacerebbe che qualche disgustato di Berlusconi rispondesse alla domanda: butteresti giù dalla torre le schifezze di Berlusconi o le nefandezze della camorra e della mafia? Non c’è alcun dubbio che gli italiani perbene, che vivono nel terrore casalese o corleonese, direbbero: che venga pure uno mille volte peggio di Berlusconi purché riesca a pulire il paese dalla barbarie di tanti criminali.
Viviamo una condizione diffusa di sporcizia morale, per anni e anni propagandata dai disgustati democratici antiberlusconiani come normali libertà da tutelare. E’ lecito in questo paese drogarsi, andare a puttane e a transessuali, si tratti pure di alte personalità del mondo delle istituzioni, come Sircana, portavoce di Prodi qualche anno fa, come Marrazzo, presidente della Regione Lazio, di recente. Ma chissà quanti altri sguazzano nel disordine morale a dispregio delle istituzioni che occupano indebitamente! Ma Marrazzo si è dimesso – obiettano i disgustati antiberlusconiani – Berlusconi dice di non dimettersi neppure se i giudici lo condannano; e liquidano la faccenda con tutto il luridume annesso e connesso.
E’ vero: Berlusconi prevarica gli altri poteri dello Stato, sminuisce il legislativo e tende a fare a meno del Parlamento, si oppone al giudiziario, che minaccia di voler riformare; vero…verissimo! Ma quando i giudici, che dovrebbero limitarsi ad applicare le leggi che il Parlamento approva, minacciano scioperi e creano condizioni conflittuali in opposizione ad un sacrosanto dovere del Parlamento e del Governo, si comportano meglio?
Il resto d’Italia, al netto di Berlusconi, è peggio. Se non altro perché Berlusconi è uno, e prima o poi dovrà finire; ma tutto il resto è una pandemia, che colpisce in ampiezza e profondità ed ha radici che arrivano a nutrirsi di quella democrazia tanto difesa dai disgustati antiberlusconiani.
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domenica 25 ottobre 2009

Il caso Marrazzo: servisse almeno a qualcosa!

La crisi politica è crisi morale. Oggi più che mai. Pur distinguendo i due livelli, secondo la lezione machiavelliana, non si può non constatare che oggi è venuto a mancare il prioritario punto di riferimento della politica, ossia quel bene dello Stato che giustificava anche il gesto immorale. Senza lo Stato l’immoralità resta immoralità e basta. Da quando il concetto di Stato è svaporato ed è passato il principio che “lo Stato siamo noi” e da quando è passata la “separazione” delle carriere esistenziali, quella pubblico-perbene e quella privato-permale, sconnettendo la seconda dalla prima e adattando l’insegnamento evangelico: non sappia la prima quel che fa la seconda, si pretende di compiere qualsiasi azione, di abbandonarsi a qualsiasi comportamento, in nome di un’esigenza formale (la privacy) e di una sostanziale (nessun rapporto tra comportamento privato e funzione pubblica). Si pretende, insomma, che un giudice, pur militando in un partito politico, e dunque essere di parte, o vivendo come un trasandato battone, resti poi assolutamente immune nella sua funzione di magistrato.
E’ l’idea balzana che l’individuo sia una sorta di cassettiera, nei cui cassetti si possono chiudere separatamente i vari e complessi aspetti del pensare e dell’agire umano. Il che va contro una millenaria civiltà culturale e contraddice le indiscutibili conquiste della psicanalisi, che, di fronte al comportamento, quale che sia, di un soggetto, cerca tutte le connessioni col di lui vissuto e addirittura col suo previssuto.
Non si può certo, per questo, concludere che un giudice, che nel privato è piuttosto disinvolto, debba esserlo anche nel suo esercizio istituzionale; ma non si può neppure escludere che fra i due profili di comportamento una qualche connessione ci possa essere.
Il caso Berlusconi prima e quello di Marrazzo dopo, pur con tutte le differenze che da una parte e dall’altra si possano invocare a discarico, hanno dimostrato che così non funziona. Chi si propone di rappresentare e di agire per il bene pubblico a qualsiasi livello, dal Presidente del Consiglio all’insegnante di scuola materna, dal giudice costituzionale al consigliere comunale, deve comportarsi in maniera tale che: primo, nessun cattivo esempio, da lui partendo, possa inficiare la sua azione istituzionale; secondo, non si presti in nessun modo a diventare persona ricattabile. Ricordiamo che secondo la definizione catoniana dell’oratore, che al tempo della repubblica romana corrispondeva all’attuale reggitore della cosa pubblica, esso è il “vir bonus dicendi peritus” e il “vir bonus colendi peritus”, laddove per “bonus” non s’intende buono, nel senso di generoso, ma retto; e dunque le due definizioni, che si integrano, danno come unica ricetta: l’uomo retto capace di parlare e di coltivare.
In Italia, per un verso, c’è la tendenza, ma è sulla spinta europea, a considerare lecito qualsiasi comportamento privato; per un altro a mettere dei paletti. Omosessuali, transessuali e simili hanno pieno diritto di cittadinanza, in base alla Costituzione. Non lo dicono più soltanto quelli del centrosinistra, ma ampi settori del centrodestra. Ma, quando poi, esplode il caso di un Presidente di Regione, come Marrazzo, che si fa incastrare per le sue debolezze transessuali, c’è una Rosy Bindi, autorevole rappresentante del centrosinistra, che dice che, proprio per questo vizio, Marrazzo non doveva neppure candidarsi. Siamo in pieno conflitto di pubblico e privato, col prioritario interesse al pubblico, che non si può non condividere.
Quel che non si può condividere, invece, è una certa duplicità di giudizio. Se ci sono delle categorie umane a rischio di delegittimazione, lo si dica apertamente. E’ un fatto di cultura, di cui nessuno dovrebbe aver paura. Bene ha fatto Luxuria a dire che, salvo che Marrazzo non abbia ceduto al ricatto, commettendo reato, ossia se è solo per il fatto che frequenta transessuali, il Pd dovrebbe assolutamente ricandidarlo alla presidenza della regione. Si può non condividere, ma non c’è dubbio che è un esempio di chiarezza culturale. Sarebbe cambiato poi poco se Marrazzo, piuttosto che frequentare transessuali, avesse avuto rapporti extraconiugali con qualche donna. Non è questione di sesso in sé, ma, per un uomo pubblico, di non essere mai ricattabile.
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sabato 17 ottobre 2009

Una Banca per il Sud fatta dal Nord

Il Ministro dell’Economia Tremonti ha mantenuto la promessa. L’aveva annunciata qualche anno fa, una Banca del Sud; ed ora è avviata. Si chiamerà Banca del Mezzogiorno, perché il predicato del Sud era stato già ipotecato.
Ha tenuto subito a dire che “non sarà un carrozzone”, che sarà affidata nella fase organizzativa al Ministro per lo Sviluppo Scaiola e che vedrà le Poste Italiane avere un ruolo importante.
Il Sud – ha detto Tremonti – era l’unica grande regione d’Europa a non avere una sua banca. Le aveva prima a Napoli e a Palermo; ed erano anche piuttosto importanti. Ma non mettiamo il dito su certe piaghe.
Tremonti si è messo a fare il meridionale: non è giusto che i risparmi dei meridionali vengano rastrellati da banche che poi non investono nel Sud. La sua polemica con le banche è nota. Queste non aiutano le piccole e medie imprese, che nel Sud sono le più numerose; e se non lo fanno, che ragione hanno di esserci?
Tremonti, evidentemente, non ce l’ha soltanto con le banche settentrionali che hanno sportelli nel Sud, che negli anni passati hanno rilevato diverse piccole banche territoriali, ma anche con quelle meridionali che seguono gli affari e che se gli affari stanno nel Nord esse vanno nel Nord.
Ma è una colpa se le banche italiane non prestano soldi facilmente? E’ un problema serio, non c’è dubbio. Le banche dovrebbero dare i soldi alle imprese; ma è stato anche detto che il sistema bancario italiano si è salvato nella crisi mondiale proprio per la prudenza o taccagneria delle sue banche, che si son trovate più in salute rispetto a quelle di altri paesi.
I meridionali, tuttavia, all’annuncio di Tremonti non hanno fatto salti di gioia. Anzi. Il Ministro per gli Affari Regionali Raffaele Fitto, magliese, ha manifestato le sue perplessità, leggiamo pure contrarietà. E così la siciliana Stefania Prestigiacomo, Ministro per l’Ambiente. Pare che nel Consiglio dei Ministri Fitto e Tremonti abbiano perfino litigato e che solo l’intervento di Berlusconi abbia indotto i due ministri meridionali recalcitranti a votare a favore del provvedimento.
Le banche meridionali si sono dimostrate fredde e guardinghe. Le Poste Italiane, da quando sono a partecipazione privata, fanno sempre più le banche e sempre meno le poste. Figurarsi quando entreranno in questa nuova banca! Bisogna vedere come entreranno, non possono essere anfibie.
Le rimostranze dei ministri meridionali si possono capire: non gradiscono essere scavalcati e vedere compromessi i loro rapporti col mondo bancario meridionale. E’ una questione politica seria, che però non inficia la bontà di merito dell’iniziativa.
Più attendibili gli esperti. I quali hanno avanzato giuste riserve: cinque milioni di euro iniziali sono pochi, questa banca non deve assumere, le Poste se entrano in questa operazione non possono più continuare a godere di privilegi, l’operazione per riuscire deve osservare la massima discontinuità col passato anche in termini di burocrazia ecc. ecc..
Naturalmente gli esperti hanno sempre ragione dal loro punto di vista. Il discorso per noi è fondamentalmente politico. E da questo punto di vista, scettici o meno, qualche perplessità questa banca la lascia. Prima: perché mai una banca del Sud e per il Sud la fa il Nord e addirittura la si affida ad un ministro settentrionale, come Scaiola? Diffidenza nei confronti dei meridionali? Non sarà che anche questa banca si risolverà in favore del Nord? Qui non si tratta di aiutare una popolazione terremotata con prefabbricati da consegnare a centinaia di famiglie chiavi in mano. Seconda: se questa banca farà quello che le altre banche non fanno e cioè darà soldi alle piccole e medie imprese, che garanzie ha poi di riavere i “suoi” soldi? Immaginiamo – e abbiamo ragione di farlo – che chissà quanti nel Mezzogiorno si stanno dicendo: pancia mia, fatti capanna! Non sarà che alla fine si risolverà per un’altra Cassa per il Mezzogiorno?
Francamente avremmo preferito che una banca del Sud fosse nata per iniziativa dei meridionali, magari da un’intesa fra le diverse banche popolari del Mezzogiorno. Temiamo che proprio queste finiranno per subire le conseguenze di una concorrenza insostenibile perché sleale.

martedì 6 ottobre 2009

Femminismo di ieri e di oggi: da Rinaldo d'Aquino a Giampi Tarantini

“Già mai non mi conforto / né mi voglio ralegrare. / Le navi son giute al porto / e vogliono colare. / Vassene lo più gente / in terra d’oltramare / ed io, lassa, dolente / come deggio fare?”. Così Rinaldo d’Aquino, poeta siciliano del XIII secolo immaginava la sua donna, mentre lui partiva con Federico II per la crociata. Una donna disperata, che non vuole conforto ma restare nella sofferenza fino al ritorno del suo uomo.
Quanti oggi, pur studenti liceali e universitari, sanno di lui e della concezione che i poeti del suo tempo avevano della donna? Agli italiani che oggi hanno dai trenta ai quarant’anni e che si affacciano prepotentemente e sfacciatamente alla politica manca quell’umanesimo che tanto caratterizzava la nostra civiltà, e che era conquista della scuola selettiva, basata sulla conoscenza e lo studio dei classici, prima che essa diventasse un reato di classe. Non si spiega diversamente la loro indifferenza allo tsunami morale e civile che sta travolgendo il nostro Paese. Non solo il Cicerone del “De officiis” e il Seneca delle “Epistulae morales ad Lucilium”, per citare i primi nomi e titoli che mi vengono a mente, ma manca loro perfino quella letteratura, per così dire leggera, degli Angiolieri e dei giocosi, che divertivano e insegnavano insieme.
Quella letteratura era formativa ed esprimeva, anche nei risvolti negativi, un ideale comune di vita, benché scritta in grandissima parte dagli uomini anche per conto delle donne. Queste non erano solo proiezioni ideali – che qui ed ora potrebbero non interessare – ma anche realisticamente vive e presenti nella concezione popolare; persone in carne ed ossa, coscienti del loro ruolo di mamme, di mogli, di figlie, di sorelle e soprattutto di donne fra donne.
Le meretrici ci sono sempre state, ma mai esse hanno ostentato pubblicamente il commercio come attività normale e addirittura meritoria; ha sempre prevalso il senso del pudore. Perfino nel Boccaccio trionfa l’ideale della pudicizia, quale valore dell’urbanitas.
Come si può, oggi, ostentare su giornali e televisioni la propria attività meretricia con disinvoltura e iattanza? Quanto di indecente stanno dimostrando oggi talune donne dell’harem di Giampi Tarantini, non solo offende la condizione di ognuno di noi in quanto figlio di mamma, padre di figlie e fratello di sorelle, ma la condizione di donna in sé. Salvo che non si voglia intendere simili avventure e stravaganze sessuali un’altra loro conquista sul podio della parità.
Nessuna di quelle femministe, che negli anni Sessanta e Settanta urlavano slogan per le piazze con le mani, indici e pollici congiunti, a mimare volgarità incredibili, ha speso mezza parola contro le loro indegne “consessuali” di oggi. Solo di recente si è sentita qualche voce femminile di protesta, dopo che a denunciarne il silenzio erano stati essenzialmente uomini.
Che c’entrano i classici, a questo punto, e la scuola umanistica? C’entrano, e come! Non può trattarsi solo di coincidenza nell’inevitabile decadenza dei costumi in una società corrotta e persa nell’edonismo. Non si capisce perché si dà ragione ad un Feuerbach, quando dice che l’uomo è ciò che mangia, e poi non si vuol capire che l’uomo è per un altro verso ciò che legge.
Se i ragazzi, maschi e femmine s’intende, a scuola leggessero e studiassero i classici, come una volta, saprebbero che gli uomini hanno sempre creduto nelle donne perbene, relegando alla satira le caricature; e soprattutto acquisirebbero una diversa sensibilità.
Cielo d’Alcamo, altro poeta coevo a Rinaldo d’Aquino, non era Dante Alighieri o Guido Guinizzelli, cantori eccelsi della “donna angelo”, una donna, cioè, che in realtà non esiste, eppure nel suo “Contrasto”, celebre componimento popolare, che una volta si leggeva in classe per il piacere di tutti, fa dire alla donna, tentata dall’uomo, “davanti foss’io aucisa / ca nulla bona femina per me fosse riprisa!”. Come dire che essa si preoccupava che per colpa sua, per la sua leggerezza, cedendo, perdessero la reputazione le altre donne.
Letteratura, si dirà. E siamo d’accordo. Ma dovremmo sapere tutti che la letteratura ha sempre espresso i sentimenti della gente e rappresentato il sentire comune della società. Esattamente – purtroppo! – come accade oggi con ben altra letteratura o piuttosto…lettoratura.
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domenica 27 settembre 2009

Libertà di stampa, sì; ma senza limiti è licenza

Il Rodotà giurista, garante della privacy per anni, uomo di sinistra non sempre adeguatamente valorizzato dai suoi, è in prima linea sul fronte della libertà di stampa, minacciata a suo dire da Berlusconi. Si è fatto promotore di una manifestazione a Roma per il 3 ottobre, per la quale è riuscito a raccogliere ben 400 sottoscrittori.
Superfluo dire che tra i firmatari c’è quanto rimane dell’invincibile armada intellettuale della sinistra italiana ed europea, che per più di quarant’anni ha dettato i nomi, i tempi e le regole di ogni forma di comunicazione massmediatica: premi nobel, pittori, scrittori, poeti, attori, registi e via di seguito. A questa “armata”, assai nota alle cronache nazionali, non mancavano né i mezzi né la vocazione, per spadroneggiare, essendo il suo costante punto di riferimento il comunismo sovietico, particolarmente appetito nei paesi liberi, tiranno e liberticida nella sua patria.
Ora i tanti orfani della splendida ideologia, in parte convertiti e in parte sbandati, sono un po’ dappertutto a stecchetto: il modello si è liquefatto e in Italia sono usciti i “bastardi” della democrazia, che, come una volta accadeva nelle migliori case aristocratiche, dove i bastardi garantivano la successione e la dignità del casato esangue e rammollito, ne sono i più nerboruti rappresentanti.
Altro che rischio per la libertà! Ce n’è tanta che forse sarebbe il caso di ridefinirne i confini, dato che è tralignata in licenza. I comportamenti de “la Repubblica” e de “L’unità”, cui hanno fatto seguito, come in una battaglia navale, le bordate micidiali de “Il Giornale” di Feltri, dimostrano che non è proprio il caso di parlare di libertà di stampa a rischio. E difatti Tarquini, il successore di Boffo alla direzione di “Avvenire”, ha scritto in un editoriale che “In Italia la libertà di stampa è a rischio tanto quanto la credibilità dei giornalisti”.
Nessuno di quei 400 uomini d’onore, come Antonio diceva di Bruto nel “Giulio Cesare” scespiriano, è veramente convinto che la libertà di stampa in Italia corra dei rischi – farabutti sì, per dirla con Berlusconi, non fessi – ma tutti sono antiberlusconiani e la loro ennesima performance serve a gettare ulteriore discredito su Berlusconi, il suo governo e l’Italia. Ma non sarebbe più onesto dire: signori, Berlusconi può aver ragione su mille piccole e grandi cose in sé, una per una considerate, ma c’è la madre di tutte le ragioni che condiziona ogni comportamento nei suoi riguardi ed obbliga ad attaccarlo senza tregua, fino a vederlo ridotto ai minimi termini? Io dico che sarebbe più intellettualmente onesto anziché dover affermare e sostenere meschinamente il falso in ogni momento della giornata politica.
Essere contro Berlusconi è normale, direi normalissimo, purché non si confonda l’avversione viscerale e perciò irrazionale con quella ragione, che, secondo gli illuministi, è ciò che fa incontrare gli uomini e consente loro di mettersi in contatto con quella che i filosofi antichi chiamavano intelligenza universale.
Per tornare alla libertà di stampa, è immorale pretendere che essa sia illimitata e incondizionata, quasi fosse una sorta di dogma, per cui i giornalisti hanno sempre ragione, possono pubblicare quel che vogliono, commettere anche reati nell’esercizio della loro “divina” professione e pretendere di non dover mai rispondere di nulla.
E’ inammissibile oltre che ridicolo auspicare una sorta di Nato, una “santa alleanza” dei giornalisti, come ha proposto Michele Mirabella, per cui quando è attaccato un giornale gli altri senz’altro devono intervenire a far causa comune.
Da operatore dell’informazione (sono un giornalista pubblicista, direttore di un periodico) e soprattutto da educatore (docente di italiano, storia e latino negli istituti superiori e nei licei) mi rifiuto di pensare che in una società democratica e moderna ci possano essere zone franche, dove ognuno può fare quel che vuole. Ritengo che tutti i soggetti operanti nella società sono come pezzi di un puzzle, ognuno dei quali ha un suo specifico spazio e concorre da quel suo ben definito spazio a formare la grande immagine del Paese. Guai se qualche pezzo rivendica di poter occupare spazi che non sono suoi, con la pretesa dell’universalità assurda oltre che illegittima.

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domenica 20 settembre 2009

Afghanistan, dolore e verità di Gigi Montonato

Quanto è accaduto a Kabul, con la morte di sei nostri militari, in seguito ad un attacco kamikaze da parte dei talebani, fa prevalere in noi dolore ma anche verità. Dolore per i nostri caduti, verità sulla causa per la quale essi sono caduti; per la quale noi ci siamo impegnati al cospetto della comunità internazionale.
Quanto è accaduto ai nostri paracadutisti della Folgore era nell’ordine delle cose fin da quando il governo italiano ha deliberato di partecipare alla normalizzazione dell’Afghanistan dopo l’abbattimento del regime dei talebani.
Con le sei vittime di giovedì, 17 settembre, sono 21 i nostri caduti in Afghanistan dal 2001. Nella triste classifica noi veniamo dopo Stati Uniti (836), Gran Bretagna (216), Canada (130), Germania (35), Francia (31), Danimarca (25), Spagna (25), Olanda (21). A questi si aggiungono altri 63 morti di altre nazioni per un totale, ad oggi, 18 settembre, di 1.403 vittime di guerra. E purtroppo tutto lascia pensare che questo numero aumenterà, perché si può chiamare come si vuole una campagna armi in pugno, nella realtà si risolve sempre in combattimenti e morte. Poi questi possono avvenire in forme convenute e codificate o fuori da ogni regola e convenzione; non è la forma in guerra ciò che conta, specialmente quando si tratta di guerre asimmetriche, cioè insostenibili da una delle due parti con l’accettazione delle regole concordate.
La causa prioritaria, direi fondamentale, cui l’Italia partecipa insieme con altri Stati, non è di rendere liberi e democratici quei paesi in cui non c’è né libertà né democrazia. Nel mondo ce ne sono tanti altri, oltre all’Afghanistan, coi quali la comunità internazionale mantiene normali rapporti culturali, politici ed economici. Se l’Afghanistan non costituisse una minaccia al nostro mondo, attraverso gli attacchi della sua rete terroristica internazionale, potrebbe stare tranquillo nei suoi confini e partecipare alla vita civile insieme con tutti gli altri paesi del mondo. Ma l’Afghanistan è oggi il paese leader del radicalismo islamista e minaccia il mondo occidentale, abitato da pagani e infedeli, cioè noi in casa nostra.
La causa vera della nostra presenza in quel paese, perciò, è di garantire la nostra sicurezza dopo che Al Qaeda ha esportato il suo terrorismo nel mondo in un crescendo di gravità in questi ultimi anni, fino all’acme dell’11 settembre 2001, quando ha portato il più grave attacco nel cuore del più grande paese democratico del mondo. Noi in Afghanistan combattiamo per difendere noi stessi, attraverso l’eliminazione della minaccia terroristica. Questo è possibile solo attraverso la creazione in quel paese di uno stato di normalità, cui noi prestiamo la nostra organizzazione militare e politica e il nostro modello istituzionale.
Una volta ad un simile obiettivo si giungeva attraverso una guerra totale, definitiva, con la conquista del territorio e l’annientamento della popolazione fino a ridurla nelle condizioni di non poter più nuocere, mettendo a capo di quel paese un Quisling, secondo un modello collaudato dai romani ai nazisti. Ma oggi questo non è più possibile e perciò si sceglie la forma mista, volgarmente riducibile alla formula del bastone e della carota, cioè all’annientamento della componente armata e al convincimento della componente civile, per giungere alla creazione di uno Stato autonomo ma amico. E’ quanto si cerca di fare in Iraq e in Afghanistan. Che questa sia la sola strada percorribile e la più giusta è vero come è vero che è anche la più equivoca, lunga e accidentata.
Oggi si discute fino a quando le forze internazionali resteranno in Afghanistan. Già, fino a quando? Si dice fino a quando in quel paese non ci sarà un governo che sappia far fronte da solo al mantenimento dell’ordine e della legge. Che significa: mai. Perché l’islamismo radicale, che in Afghanistan ha una delle centrali più importanti, non rinuncerà mai alla sua guerra santa.
Questo vuol dire che la condizione transitoria in Afghanistan finirà per trasformarsi in uno stato di ”normale” continua guerriglia, cui i soldati della coalizione internazionale sono “normalmente” continuamente esposti. Italiani o di altri paesi della coalizione, essi rischiano la vita per la sicurezza dei loro paesi, dei loro connazionali in patria. Questo, purtroppo, è il prezzo pagato, da pagare.

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mercoledì 16 settembre 2009

Fini, stop e ripartenza di Gigi Montonato

Da più di un anno e mezzo Gianfranco Fini, Presidente della Camera dei Deputati, ha assunto un atteggiamento contrario a gran parte delle prese di posizione del governo, qualche volta usando toni offensivi nei confronti di alcuni importanti esponenti della maggioranza o ad essa vicini. Diede dell’irresponsabile a Gasparri, capogruppo del PdL al Senato, nella circostanza della vicenda Englaro; ha definito killeraggio il modo di informare di Feltri, direttore del quotidiano della famiglia Berlusconi, in occasione della questione Boffo. Ha preso le distanze dalla maggioranza sui temi etici (procreazione assistita e testamento biologico), ha chiesto che il governo conceda agli immigrati il diritto di voto. Ha perfino confessato, alla veneranda età di quasi sessant’anni, di non essere certo di credere in Dio, quando di solito, a quell’età, uno incomincia ad avvicinarsi.
Senza entrare nel merito di ciascun episodio, in cui Fini può avere ragione o torto, è questa la partita, per citare gli episodi più rilevanti, a cui tutti pensavamo di aver assistito. Giustamente alcuni commentatori, molto meno killer di Feltri, ed altri, addirittura titillanti, dello schieramento opposto, hanno osservato che Fini si riconosce più nella sensibilità della sinistra che non in quella della destra. Qualcuno, pietosamente, nel tentativo di tenerlo nel seminato, ha avuto la stravagante idea di aggiungere a destra l’aggettivo “moderna”.
Quando la rottura sembrava ad un punto di non ritorno, ecco che il Fini dissenziente su specifici e importanti problemi è scomparso. In campo ci sarebbe un altro Fini, il quale non sarebbe d’accordo con Berlusconi ma solo sul modo di intendere il partito. Fraintendimenti, insomma, superabili. Chiederebbe, per esempio, più dibattito e confronto interni. Vorrebbe che, in quanto cofondatore del PdL, si incontrasse sistematicamente con Berlusconi per decidere insieme.
Ma, se non si vuole solo prendere o lasciare certi prodotti mediatici e propagandistici e si vuole, invece, anche e soprattutto capire, occorre fare qualche punto.
Primo. An è ben rappresentata ai vertici del PdL da Ignazio La Russa. O il Ministro della Difesa è un incapace, che si lascia abbindolare da Berlusconi?
Secondo. Si vorrebbe che Fini tornasse a fare il capo di partito; ma questo – lo capisce perfino uno studentello delle medie – non è compatibile col ruolo istituzionale che ricopre.
Terzo. Il progetto PdL in pendant col Pd, nella logica bipartitica, si sta rivelando un fallimento. Si pensa sempre più “ad alta voce” negli ambienti più vicini a Fini che forse è meglio che An torni ad An, per contare di più; che, fuor di politichese, vuol dire avere più potere di ricatto.
Rebus sic stantibus, però, Fini vorrebbe essere ubiquo, un po’ come Dante che alla minaccia di Bonifacio VIII di far intervenire Carlo di Valois a Firenze, indeciso se andare a Roma o rimanere a Firenze, diceva: se non vado io a Roma a scongiurare il Papa, chi va? E se non resto io a proteggere Firenze, chi resta?
La verità è che Fini persegue, come ha sempre fatto, un disegno personale, che è di succedere a Berlusconi o alla guida del centrodestra o a probabile inquilino del Quirinale. Questa sua strategia, autoritariamente perseguita – ricordo l’azzeramento dei vertici di An quando alcuni dei suoi colonnelli in un bar furono “intercettati” ad esprimere dei dubbi sulla sua per così dire adeguatezza – oggi non è più tanto facile perseguirla, perché non c’è più il partito. Lo dimostra il fatto che la famosa lettera dei “cinquanta”, agitata come uno spauracchio per Berlusconi dal “suo” Bocchino, si è rivelata un’impresa farla firmare, con un “per questa volta!” da parte di alcuni importanti colonnelli, come La Russa e Alemanno. I quali hanno capito che se vogliono continuare a contare, oggi devono stare dietro a Berlusconi; come ieri dovevano stare dietro a Fini.
La bacchettata di Feltri, tuttavia, “che tanto reo tempo volse”, non è avvenuta invano. Fini è stato avvertito: basta sparate contro le iniziative del governo, che ha un programma e lo sta portando a compimento. Nessun problema per lui, che non dovrebbe avere difficoltà ora a dubitare della modernità della sua destra. E’ uomo di infinite capacità di adattamento, favorito dal non essere costituito di solidità alcuna; ma sbaglia chi crede ch’egli rinunci definitivamente alla sua strategia.

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mercoledì 9 settembre 2009

Santa Maria delle Battaglie Raffaele Nigro e l'epos dei disperanti

Per certi aspetti il prosimetro di Raffaele Nigro, Santa Maria delle Battaglie (Rizzoli, 2009), s’inscrive nella tradizione del romanzo realistico greco, col viaggio in mare sostituito dal viaggio nel tempo. Lo sfondo è storico. Egli compie un’operazione di rovesciamento narrativo: la materia da narrare diventa soggetto narrante attraverso una statua lignea intagliata agli inizi del ‘500 da un falegname di Perugia raffigurante una madonna, Santa Maria delle Battaglie o delle…disgrazie. L’autore “riserva” a sé la cornice, coi brevi raccordi introduttivi e il finale infelice. La statua è la metafora della condizione popolare, spopolata di angeli e madonne. Nella sua staticità essa esprime già in partenza l’incapacità di determinare alcunché dall’esterno in un mondo che pure crede in lei ma va avanti senza fine alcuno, fatto dopo fatto, seguendo istinti e bisogni. L’uomo è solo. Tutto accade per meccanismi, cui nessuna forza provvidenziale può nulla. Nessuno è felice e contento.
«Noi siamo liberi di fare o non fare – dice Isengrino da Montemagno, un francescano che per amore della stessa suora uccide un confratello in convento – tuttavia ognuno deve sapere che se incontra un uomo armato deve sparare per primo, se cade la neve deve cercarsi una grotta, se vuole qualcosa se la deve pigliare con le unghie. E’ la legge delle volpi e delle faine, non solo dei gigli e degli uccelli. E’ una legge che non concede rimorsi ma neppure rimpianti». E’ il tempo di Machiavelli.
Si parte da un fatto di cronaca attuale, la cornice, appunto. Una ragazza, Federica Cacciante, erede di una famiglia della nobiltà feudale pugliese, in seguito ad un incidente stradale, è in coma. La statua, posta nella sua stanza, di fronte, sul ripiano di uno scaffale, cerca di risvegliarla narrandole la storia di alcuni suoi antenati, che rimanda alla fine del ‘400, discesa in Italia di Carlo VIII di Francia, e avventura dopo avventura, si dipana per quattro generazioni, attraversando eventi, la guerra tra francesi e spagnoli, la peste, la guerra tra cristiani e musulmani, e personaggi del mondo politico e culturale, Carlo V, il Soldano, Pomponazzi, Nifo, Lutero, Marsilio Ficino, Vittoria Colonna, Savonarola e molti altri, facendo nuotare il lettore nel mare magnum delle credenze popolari. Ma un pezzo di legno non parla neppure se rappresenta la Madonna; e chi è in coma non sente. Simboli tragici di un’umanità abbandonata, disperante.
Il racconto della statua s’intreccia con le ottave di tale Colantonio Occhiostracciato, un cantastorie tanto simile ad Omero da far pensare ad una sorta di parodia. Come nel poeta greco gli dei si occupavano delle faccende umane e nei loro conviti ne chiacchieravano, così nel romanzo di Nigro: angeli e santi intrecciano i loro pensieri con quelli degli uomini; e come nulla potevano gli dei per cambiare le vicende umane, sottoposte al fato, così in Nigro nulla possono santi e madonne, perché tutto è sottoposto alla scienza; o piuttosto, alla storia definalizzata. I miracoli non esistono.
E il Padreterno? Al termine di un convegno si apparta con San Pietro e gli confessa di non sentirsi bene, di essere stanco e non più capace di fare miracoli; decide di ritirarsi in un eremo nei Balcani, dove si pensava ci fosse il paradiso. Differenza: gli dei omerici somigliavano agli uomini nella forza, quelli di Nigro nella debolezza.
Un pessimismo di fondo invita a vivere la vita come viene e come va, senza regole e senza aspettarsi niente da nessuno. Maria Trafitta Cantarella vuole diventare medico e concepisce un figlio con lo zio. Il figlio di costei Braccio Cacciante, che ne vien fuori, stupra dove gli capita e uccide dove occorre, da brigante diventa capitano dei cristiani e addirittura da morto vien fatto beato. Il padre-zio Laviero Plantamura fa il pomponazziano e il libertino: «solo gli occhi malevoli del mondo fanno di un avvenimento uno scandalo». Il padre di Federica pensa che «se Federica dovesse rimanere com’è, forse potrebbe rivelarsi un bene per lei».
Ma se sul piano estetico il romanzo di Nigro affascina e suggestiona, incanta e rapisce, informa e diverte, come una volta i cunti intorno alla lanterna nelle notti d’estate sull’aia, che sembravano non finire mai, come in fondo non finisce mai la vita, sul piano etico fa riflettere.
Dobbiamo prendere atto che è toccato e tocca sempre a noi uomini di vedercela da soli con la vita? Sembrerebbe di sì. “Il vero miracolo al mondo – dice alla fine Omero-Occhiostracciato – era poter affidare alle parole la memoria delle cose che erano state”. Nigro è un taumaturgo.